SUOR GIAN PAOLA MINA: LA CANZONE TUTTA “VOGLIO”

Sr._MinaGianPaolaSUOR GIAN PAOLA MINA, MC


Tra i Missionari e le Missionarie della Consolata, che non hanno conosciuto di persona l’Allamano, ma ne hanno ugualmente assorbito lo spirito e camminato con coerenza nella sua scia, c’è sicuramente da annoverare suor Gian Paola Mina (1917 – 2000), che parecchi conoscono per i suoi innumerevoli scritti, tutti di carattere missionario.

Entrò nell’Istituto all’età di 23 anni. Ben presto si delineò la sua vocazione personale di missionaria della comunicazione, collaborando per alcuni anni all’informativo bimestrale dell’Istituto “Eco”, prima di lavorare direttamente sul campo delle missioni.

Nel 1949 partì per il Kenya, dove visse una forte esperienza di promozione della donna, che la segnò profondamente, lasciando tracce evidenti nei suoi scritti posteriori. Durante il terribile periodo della sanguinosa insurrezione nazionalistica Mau Mau, per rimanere accanto alle donne i cui mariti erano rifugiati nella foresta, iniziò i primi gruppi femminili di Azione Cattolica. In seguito diede vita anche ad un centro per la formazione delle prime “Assistenti Sociali Cattoliche”, per la preparazione delle insegnanti di scuola materna e delle segretarie d’azienda, carriere che il Kenya indipendente richiedeva e facilitava. Poi ancora promosse la creazione del “Consiglio Nazionale delle Donne Cattoliche” e della “Unione Sociale Femminile”.

Dopo 20 anni di vita missionaria appassionata, suor Gian Paola fu richiamata in Italia per l’animazione missionaria vocazionale. Scriverà anni dopo: «Mentre l’aereo si staccava da terra, il mio cuore si stringeva e un nodo mi soffocava alla gola…».

A questo punto scoppiò la sua vocazione di scrittrice. Rinnovò la rivista dell’Istituto, di cui fu direttrice per un lungo periodo, che prese il nome di “Andare alle Genti”. Scrisse un numero incalcolabile di articoli e studi su temi missionari. Ben undici furono i suoi libri, per lo più biografie di missionarie. Eccelle il volumetto: “Un silenzioso che ha qualcosa da dire”, che praticamente è una originale presentazione della personalità dell’Allamano, edita del 1986, in vista della beatificazione.

Merita anche ricordare un’opera realizzata in collaborazione con il fratello p. Giuseppe, anche lui Missionario della Consolata e buon scrittore. Si tratta dell’unica biografia che abbiamo del nostro Confondatore, intitolata “La beatitudine di essere secondo - Giacomo Camisassa”.

Dal 1983 le venne chiesto di raccogliere il materiale, in vista della causa di beatificazione di suor Irene Stefani, di cui aveva scritto la celebre biografia “Gli scarponi della gloria”. Anche qui iniziò subito con entusiasmo, creò il “Centro Studi Suor Irene” e portò avanti il progetto fino a che le forze glielo permisero.

In particolare, suor Gian Paola riuscì a comprendere bene l’arte educativa del Fondatore, che egli esprimeva energicamente in quei ripetuti “voglio”. Quante volte l’Allamano, per indicare la necessità di acquistare una virtù per essere missionari autentici, si introduceva dicendo: «Voglio che siate…”. Qualcuno ho trovato troppo forte questo modo di esprimersi. Suor Gian Paola, invece, proprio perché era in sintonia con l’animo dell’Allamano, capì l’energia che sprigionava da quella parola, al punto da sentirla quasi come un canto. Ecco il senso del titolo di un capitolo della sua monografia sull’Allamano: «La canzone tutta “voglio”».

I suoi ultimi anni di vita sono stati un lento inesorabile declino, senza però deporre del tutto la penna, fino al sereno ritorno al Padre, il 10 settembre del 2000.

Nel 2003, le edizioni paoline hanno pubblicato una vivace biografia di suor Gian Paola Mina, scritta con competenza e affetto da Cristina Siccardi, dottoressa in lettere moderne con indirizzo storico, autrice di tante altre biografie. Il titolo è cattivante e dice bene l’identità della protagonista: “Vivere e Narrare la Missione – Gian Paola Mina”. È piacevole leggerla, soprattutto per chi l’ha conosciuta. C’è da congratularsi con l’autrice, per come ha saputo cogliere e presentare il nucleo profondo cui si radica la personalità spirituale e apostolica di suor Gian Paola, cioè la sua identificazione con lo spirito dell’Allamano. E questo emerge dall’insieme dell’opera, ma viene illustrato espressamente già al capitolo terzo: “Allamano, suo padre e maestro”. Di questo capitolo riportiamo alcuni stralci, purtroppo brevi, rimandando a tutto il testo originale chi volesse approfondire la personalità di questa straordinaria figlia e discepola dell’Allamano.

 

 

Gian Paola Mina, ragazza dinamica e volitiva, ha trovato in Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, il padre, non conosciuto e che ama, e il maestro della sua nuova e virante vita. Lo ammira, per cui si mette in marcia seguendo le se direttive e il suo esempio di combattente di Cristo.

 

Scoprì l’Allamano nel castello di Sanfrè: un busto bianco di scagliola troneggiava al fondo di un salone disadorno reso squallido da grosse macchie di umidità che costantemente volenterose suore ricoprivano di tinta. Le dissero che era il fondatore e lo guardò con un certo riserbo.

 

Gian Paola non si era curata di conoscere le origini dell’istituto nel quale voleva entrare, le bastava che si trattasse di una congregazione missionaria. «Certo – lascia scritto nelle sue memorie – mi piacque molto di più sapere (chissà perché) che essa aveva un fondatore anziché una fondatrice che ai tempi si presentavano in immagini scialbe, con un velo severo in testa. […]. Quel prete invece sorrideva invitante: “Ecco uno che saprà leggere in fondo alla mia anima e mi saprà dire se ho la vocazione missionaria. Già, perché non ero troppo convinta di averla e altri con me erano dello stesso parere, anche se per discrezione non me lo dissero allora apertamente».

 

A quei tempi non circolavano ancora biografie dedicate all’Allamano e nella comunità ci si limitava a leggere i fascicoli dattiloscritti delle sue conferenze ai missionari e alle suore. In compenso c’era ancora la testimonianza diretta di chi l’aveva conosciuto: dopo vent’anni dalla sua morte, parlavano del fondatore con trasporto e gratitudine per il marchio loro dato di suore libere, sciolte, semplici e coraggiose. E «come da mia madre, io ho imparato ad amare un padre conosciuto solo di scorcio; allo stesso modo, dalle prime missionarie dell’Allamano ho imparato istintivamente ad amare il fondatore, prima che ogni pubblicazione, ogni studio, ogni maturazione personale di ricerca e di studio me lo facesse scoprire più a fondo».

 

E dopo ben 40 ani, Gian Paola ribadisce il suo amore per il beato, per le ricchezze di quello spirito, per la lungimiranza delle sue intuizioni «con la straordinaria tenacia nel perseguire la santità nella variegata storia della sua vita. Veramente il padre che amo è questo: un prete tutto di Dio e tutto degli uomini; un prete della Chiesa torinese strettamente inserito nelle sue strutture e nello stesso tempo aperto agli orizzonti senza frontiere dell’evangelizzazione».

 

Di lui ebbe sempre voglia di scrivere una biografia «diversa dalle altre», diceva al fratello padre Giuseppe. Ma poi, per la corsa degli ani e degli impegni che la prendevano sempre più, non ne fu in grado. Se ne rammaricava, come di un’ammissione. Poi, al momento in cui il fondatore doveva essere dichiarato beato dal papa Giovanni Paolo II, «volle – racconta ancora padre Giuseppe – stenderne un profilo dal titolo significativo: “Un silenzioso che ha qualcosa da dire”». […].

 

In questa originale, profonda e raffinata opera sul fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, scaturisce l’anima dell’autrice, il suo io, la sua essenza. Interessanti sono le sue considerazioni per comprendere più a fondo la sua identità di donna, di religiosa, di missionaria. È affascinata dalle riflessioni e dagli approfondimenti del suo maestro. […].

 

Uno dei capitoli dedicati alla figura straordinaria del fondatore è intitolato “Camminare con i santi”. Aveva una particolare predilezione Gian Paola per i santi, così come il suo maestro; una predilezione che si notava dalle sue letture, molto spesso dirette a biografie di santi, beati, venerabili o comunque di grandi testimoni della fede e fedele era l’ascolto alle parole della guida Giuseppe Allamano: «…La mia parola è per quelli desiderosi di acquistare la santità… Una è la santità, ma varia ne è la forma e diverse le vie per giungervi… La santità esige violenza… Si fa santo chi vuole… Avere fame e sete di santità… Io sono persuaso che in paradiso vi sono dei santi più santi di quelli che veneriamo sugli altari… Solleviamo il nostro pensiero ai santi… Pensiamo a ciò che ci dicono dal paradiso. Sono i nostri modelli: possono essere imitati da tutti perché vari nella vita e nell’eroismo delle virtù… Essi possono e vogliono aiutarci a ottenere le grazie di cui abbiamo bisogno. Ricorriamo alla loro intercessione con fiducia, con amore…».

 

Alla scuola del beato Allamano, Gian Paola assapora il gusto della santità e potremmo dire che se ne compiace: ambire a una vita santa significa chiedere di più, pretendere di più, aspirare a cose grandi, non fermare i propri desideri e sconfinare oltre le debolezze e i limiti umani. […].

 

È sorprendente sfogliare il volume delle conferenze allamaniane dirette ai missionari: è la stessa suor Gian Paola a rivelarci che in una ventina di pagine da lei spizzicate a caso e su diversi argomenti trovò citati ben trentatrè santi, alcuni particolarmente vicini ai missionari. […]. E conclude, la redattrice: «… per lui, i santi non sono dei lontani nel tempo, ma dei vivi di cui è bello parlare; degli amici con i quali c’è soddisfazione a conversare e a fare insieme un pezzo di strada: anzi tutto il viaggio della vita». […].

 

Fra gli insegnamenti dell’Allamano che più l’affascinavano c’era quello diretto all’operosità che ben calzava alla sua iperattività: «Bisogna essere operosi perché il tempo è breve. Con l’essere operosi si ha sempre tempo a tutto e ancora tempo di avanzo. Il Signore benedice l’operosità e l’energia. Bisogna agire. Se aspettiamo il tempo buono, non si fa mai niente. Facciamo oggi quel che è necessario, e domani si vedrà. Io potrei starmene tranquillo: andare in coro, poi a pranzo, poi leggere la gazzetta, andare a riposo… E poi, e poi, me ne morrei da folle! È questa la vita che si deve fare? Siamo destinati ad amare il Signore e dobbiamo fare del bene, tutto il bene possibile. La nostra vita vale in quanto attiva per noi e per gli altri. Io sorrido quando sento dire che c’è tanto lavoro: Più lavoro c’è e più se ne fa, ma bisogna lavorare con energia, che è caratteristica del missionario. […] Quando uno è a capo, bisogna che sia più ardimentoso degli altri».

 

Ecco il termine adeguato per definire l’intrepida suor Gian Paola Mina: ardimentosa. L’operosità fu il suo stile di vita, lo stile della sua consacrazione a Cristo. Ricca di interiorità e di preghiera, straordinariamente multiforme nel suo essere missionaria, sempre carica di idee che in tutti i modi cercava di realizzare, ma “sciolta”, cioè senza disperdersi in perfezionismi e sciocchezze, senza perciò esasperarsi, bensì essere apostoli fervidi e instancabili. Energica, volitiva e coraggiosa, suor Gian Paola nell’amore di Dio si moltiplicava ed era, ne siamo più che certi, l’ideale di suora missionaria che aveva in mente il beato Giuseppe Allamano.

Cristina Siccardi

 

LA SUA VULNERABILITÀ

 

La rivista “Andare alle Genti” delle Missionarie della Consolata, commemorando il 75° anniversario di fondazione dell’Istituto, nel numero di gennaio del 1985, ospitava un lungo servizio di suor Gian Paola Mina, intitolato “In principio c’era un Padre e c’erano dei fratelli”. Per illustrare la capacità che questa figlia dell’Allamano ha avuto di comprendere, con squisita sensibilità femminile, anche l’umanità del Fondatore, ne riportiamo un brano, che lei intitola curiosamente: “La sua vulnerabilità”.

 

Sì, a studiare bene l’Allamano accanto alle sue suore, balza fuori un Allamano diverso da quello che appariva al Santuario e altrove, dove tutti lo vedevano sempre dignitoso, misurato nei gesti e nelle parole, come si conveniva allora a chi era in responsabilità e autorità.

 

Tra i suoi missionari e specialmente tra le sue suore, egli si sente in famiglia e liberamente lascia trasparire la sua umanità profonda, un cuore che ha gesti e accenti di paternità vera.

 

Non ha timore, lui così riservato, di prendere la testa delle sue figlie tra le mani e di stringerla fortemente, in un gesto che a molti anni di distanza, in Africa, nella solitudine in cui si troveranno, darà loro coraggio e dolcezza. A questo proposito scrive suor Cristina Moresco: «Un giorno, il Padre mi prese la testa tra le mani, mi benedisse e soggiunse: “Prego per te, perché in Africa abbia a continuare sempre così”. Quel che provai allora non posso esprimerlo, ma il fatto si è che anche ora, dopo 23 anni d’Africa [suor Cristina scriveva da Nyeri nel maggio 1936], solo al ricordo di quella preghiera dell’amato Padre, sento nell’anima mia un aiuto speciale…».

 

Come per i missionari, altrettanto faceva per le suore, interessandosi della loro vita, di ciò che passava nell’anima, ed anche della salute. A suor Emerenziana, di costituzione delicata, dava perfino dei soldi perché si comprasse uova e le sorbisse liberamente, senza doverne riferire ad alcuno, per rinforzarsi.

 

Aveva fiducia in loro, e non temeva ad occasione di fare delle eccezioni grosse. Come fece per suor Marta Miglino che, già professa, dietro suggerimento medico, dovette andare a casa due volte per riacquistare vigore in prolungati soggiorni in famiglia, nel clima libero dei campi. L’Allamano, mi diceva suor Marta, non solo le concesse volentieri il permesso, ma perché potesse muoversi più liberamente, volle che rimanesse in borghese per tutto il periodo che trascorse in casa.

 

Non sopportava che ai suoi e alle sue figlie, neppure durante la guerra, mancasse qualcosa. Una volta disse alle suore: «Per risparmiare anche due soldi per voi, quando vado in Duomo a dir l’ufficio, sempre che posso vado a piedi e, se fosse necessario, per voi andrei a chiedere la carità». Suor Veronica Puricelli, che ha riferito questa espressione del Padre, ricorda pure con quanta energia l’Allamano ribattè ad un tale che lo accusava di non sapere che cosa voleva dire essere padre. «Come? – protestò il Fondatore alzandosi in piedi, offeso – non so che cosa voglia dire essere padre? Non me lo dica! So benissimo cosa vuol dire avere dei figli!». La paternità umanizzava il cuore del Padre e lo rendeva vulnerabile nelle sue fibre più intime.

 

Sr. Gian Paola Mina

giuseppeallamano.consolata.org