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“PADRE” CON L’ARTICOLO DEFINITIVO COSÌ LO SENTIVANO I SUOI FIGLI

L’Allamano, più che superiore o maestro, si sentiva “padre” rispetto ai suoi missionari e missionarie. Diverse volte si è richiamato alla sua paternità sia per incoraggiare che per correggere. Per esempio, ai primi missionari in Kenya così scriveva per animarli: «Lasciai in certo modo da parte le mie altre attribuzioni per non ricordare che la mia qualità di Padre di questa nuova Famiglia, e come tale vi presentai tutti insieme, e ciascuno in particolare, alla nostra buona Madre la Consolata».

Ed è interessante constatare come questo sentimento dell’Allamano fosse compreso e largamente ricambiato dai suoi figli e figlie, che, con altrettanta spontaneità, lo sentivano soprattutto “padre”. Una manifestazione efficace di questa bella realtà, vissuta da subito nel nostro Istituto e gelosamente conservata anche oggi, si trova nella commemorazione tenuta dal p. Giuseppe Amiotti il 16 febbraio 1934 a Torino.

Padre Amiotti partì per il Kenya all’inizio di novembre 1925, poco più di tre mesi prima della morte dell’Allamano. L’anno successivo, in sostituzione di un confratello ammalato, fu associato al primo gruppo di Missionari della Consolata giunti da poco in Mozambico. Purtroppo la sua missione durò solo cinque anni. Per ragioni di famiglia dovette rimpatriare e, successivamente, incardinarsi come sacerdote nella diocesi di origine, Novara. Fu zelante parroco di Sabbia, un paesino della Val Sesia, rimanendo profondamente legato al Fondatore e all’Istituto. Merita risentire i punti salienti della sua commemorazione.

Lo rivedo l’ultima volta quando, nel suo piccolo studio, da quell’altare, su cui da qualche tempo era obbligato a celebrare, consegnò a noi partenti il Crocifisso, con una funzione semplice e senza testimoni. Quelle parole: «Ricevi, mio carissimo figlio, la Croce di nostro Signore Gesù Cristo. Ti sia compagna nelle fatiche dell’apostolato…», furono per noi il suo testamento.

Ci inginocchiammo a ricevere la sua ultima benedizione, baciammo l’ultima volta quella mano diafana, fissammo ancora una volta il nostro sguardo, offuscato dalle lacrime, sul candore immacolato che lo incoronava, e partimmo.

Ma quanti affetti ci tumultuavano in cuore: la gioia di partire per le missioni; la gioia di avere ricevuto il “mandato” dalle mani del Padre; la gioia stessa di avere ricevuto il Crocifisso in modo così semplice, senza canti, ma tutto in silenzio e amore. Tutta questa gioia era velata da un pensiero: «Lo rivedremo?». Ed una voce insistente ci ripeteva: «No!». Cercavamo di illuderci, di sperare, ma la voce continuava a ripeterci: «No! No! Non lo rivedrete».

Non erano passati quattro mesi che quella voce del cuore si rivelava reale e, in quei tristi giorni del febbraio 1926, un grido angoscioso si spandeva di missione in missione: «È morto il Padre!».

Il Padre! Nome dolce, nome caro, ma nome troppo spesso abusato. Già dai tempi di Paolo c’erano abusi, tanto che lui stesso dovette rivendicare la sua paternità sulle cristianità da lui fondate: «Avrete altri dottori, altri professori, altri maestri, ma non potrete mai avere altri padri, perché io vi ho generati a Cristo».

Fratelli, lui solo ci ha generati a Cristo e alla Chiesa nella forma di famiglia dei Missionari della Consolata. A lui solo, dunque, spetta il titolo di Padre per eccellenza: “Il Padre”, con l’articolo definitivo.

Avremo, Fratelli, fin che durerà l’Istituto - e perciò fino alla fine dei secoli, come egli stesso ci promise - dei superiori generali, dei maestri dei novizi, dei direttori; avremo centinaia, migliaia di padri missionari, ma il “Padre” sarà sempre lui, solo lui, Giuseppe Allamano!

Lui solo, fin dai suoi primi anni di sacerdozio, concepì nel suo grande cuore la fondazione dell’Istituto. […] Lui combatté contro ogni sorta di difficoltà, finché, disteso in un letto ormai spedito dai medici, nella sua umiltà si sentiva contento di dover lasciare ad altri l’onore e l’onere di quest’opera. A lui, però, Dio parlò con il miracolo della guarigione nel gennaio del 1900, quando il card. Richelmy gli disse: «Non morrai; guarirai e fonderai tu l’Istituto». Vi fu ancora il 24 aprile di quello stesso anno 1900, quando, in quella dolce e indimenticabile villetta di Rivoli, stese sull’altare, prima di spedirla all’arcivescovo, quella che potremmo chiamare l’accettazione della paternità dell’Istituto nascituro.

E non tardò a spuntare l’alba del 29 gennaio 1901: «È questa, nella storia del-l’Istituto, la data ufficiale della nascita, da ricordarsi ogni anno con animo grato a Dio». La firma posta all’atto di nascita dell’Istituto ne dichiara la legittima paternità nella persona dell’Allamano.

E veramente sempre si dimostrò padre. Anzitutto per la parte materiale. Volle ben preparata la culla che doveva ricevere l’Istituto appena nato. Volle che i suoi figli non mancassero di nulla qui in Italia e soprattutto in missione. Si interessò personalmente affinché i partenti fossero provvisti di tutto il necessario e anche solo dell’utile. Appena l’Istituto crebbe, volle che gli fosse preparata una più adeguata sede, ed ecco sorgere questo maestoso edificio, costruito con larghezza di vedute e grandi spese, tenendosi a quella santa povertà che sempre distinse la sua vita.

Ancora vivente, per noi profuse tutto il suo patrimonio e quanto, giorno per giorno, egli guadagnava dal suo benefizio e dalle sue attività era ancora sempre per noi. Così morì povero, lui che maneggiò milioni. Egli che avrebbe potuto accumulare una fortuna, ebbe quasi più nulla da lasciare in testamento, perché aveva dato tutto a noi, suoi figli.

Soprattutto per la parte spirituale egli dimostrò la sua vera paternità. Fu lui a stendere le prime Regole ed a curare quelle definitive, che ora ci reggono e ci reggeranno fino alla fine […]. Ma, dateci le Regole, egli stesso, lo sappiamo, tracciò di suo pugno il primo Direttorio, lo corresse, lo postillò a seconda dei tempi e dello sviluppo dell’Istituto. Ci lasciò quelle magnifiche lettere circolari, che saranno sempre la base dell’alimento spirituale della nostra vita. Passeranno gli anni, ma questo patrimonio l’Istituto lo avrà sempre; da lì attingiamo noi; da lì attingeranno i nostri posteri, sicuri di camminare sul retto sentiero, perché è la parola del Padre.

E come era bello vederlo, veramente Padre, a spezzare il pane di vita con i suoi figliolini, in quelle indimenticabili conferenze domenicali, in quelle varie ricorrenze care al suo cuore di Padre e al nostro di figli. Quella parola calda e semplice scendeva dolce al cuore e vi faceva sbocciare propositi e aspirazioni ardenti.

Fratelli, da otto anni quella mano ha cessato di agire, quelle labbra hanno cessato di parlare, ma il suo cuore non ha cessato di battere e di amare l’Istituto. Noi lo sappiamo, ne siamo certi: egli è vivo! Vive presso Dio, ove può vedere le nostre necessità e può meglio soccorrerci. A lui alziamo lo sguardo, a lui che fu, è e ci sarà sempre il “Padre”!