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L’INCANTO DI UN SORRISO
Iniziamo una
nuova rubrica dal titolo: “Ricordi”. Nel nostro Istituto, fin dall’inizio e quasi ogni anno, in
occasione dell’anniversario della morte del nostro Fondatore, avvenuta il 16 febbraio 1926, si è tenuta una
“commemorazione”. Confratelli o consorelle, qualche volta anche sacerdoti non appartenenti alla nostra
famiglia missionaria, ma amici ed estimatori dell’Allamano, si sono succeduti a ricordare la figura del nostro
Fondatore, illustrandone caratteristiche, virtù, opere, in una parola, la personalità di apostolo santo.
L’insieme di queste commemorazioni costituisce un bagaglio molto ricco di ricordi, che è un peccato lasciare
nascosto negli scaffali dell’archivio. Abbiamo pensato di fare cosa gradita a quanti vogliono bene
all’Allamano e ai suoi missionari pubblicando qualcuna di queste commemorazioni, o almeno qualche parte più
significativa. Siamo certi che ne risulterà un Allamano vivo, talvolta inedito, sempre molto vicino e caro.
Per la genialità del tema, iniziamo dalla commemorazione tenuta dal nostro confratello P. Candido Bona
nella nostra casa di a Bevera (Como), il 16 febbraio 1985, come pure nella casa di Gambettola (FO),e in quella di S. Maria
a Mare (Marina Parmense, Ascoli Piceno), nel 1986.
Ovviamente, per ragioni di spazio, ne possiamo riportare solo
alcuni brani tra i più importanti. Chi volesse leggere integralmente la commemorazione, che è molto bella e
interessante, può consultare il volume dello stesso P. C. Bona, dal titolo: “La fede e le opere”, alle
pp. 353-368.
Rievocare una persona significa presentarla, farla rivivere, per quanto possibile, nel suo aspetto
interiore, penetrare nell’intimo del suo animo, sentire il battito del suo cuore, cogliere le sue aspirazioni
più segrete. […] Significa anche presentare il suo aspetto esteriore, essendoci un innegabile legame tra
esterno e interno: l’animo si riflette, in qualche modo, sul volto.
[…] Cominciamo dunque
dall’esterno. Vorrei fare un ritratto di G. Allamano. Non l’ho conosciuto di persona e devo dire che la
ventina di fotografie che possediamo, statiche e ingiallite, mi lasciano piuttosto spoetizzato. Ne scelgo tre: se fossi
pittore vorrei farne la sintesi in un unico ritratto.
La prima ce lo rappresenta giovane sacerdote: risale agli
anni 1880, quando assunse la carica di rettore del santuario della Consolata. Un Allamano giovane, pacato, un po’
serio, conscio del compito che gli sta davanti. Però il volto non è più segnato dalla malattia che lo
scava durante gli anni di seminario. Mi richiama il prode del Salmo che si accinge a percorrere la via. La seconda
fotografia, ormai classica, ce lo mostra allo scrittoio nella villa di Rivoli. Spira forza, decisione, volontà: il
grande momento della fondazione è giunto! Infine il volto luminoso e paterno in occasione della Messa d’Oro:
serena fiducia, bontà, sorriso.
Tenterò di cogliere quel sorriso, fissando i lineamenti del suo
volto con alcune pennellate prese a prestito da coloro che l’anno frequentato. Soprattutto vorrei riproporre
l’autoritratto che egli stesso ci ha lasciato, come invito a riscoprirlo da noi e a completarlo […].
Il fascino dei suoi occhi
A un anno dalla morte i sacerdoti del santuario della Consolata
ricordarono la sua «figura paterna, buona e pensosa, illuminata da quegli occhi così sfavillanti, che con
un’occhiata esprimevano i suoi pensieri e il suo stato d’animo meglio di qualunque ragionamento».
Moltissimi, infatti, hanno colto il fascino singolare dei suoi occhi, il suo sorriso […]. È proprio nei suoi
occhi che troviamo il suo sorriso. I suoi occhi s’illuminano quando parla con Dio, con la sua Consolata, con gli
uomini.
Un testo anonimo del 1936, preso dal periodico del santuario: «Il suo fisico pareva scavato nella
pietra dura, come una statua antica senza troppe ricercatezze di finiture e di particolari. Così, a prima vista
poteva apparire anche troppo severo nei tratti del viso rudi e forti, ma la dolcezza dello sguardo temperava subito ogni
asprezza, metteva fiducia e esprimeva un’intimità serena e commossa, un fervore spirituale altissimo
[…]. E poi il suo riso largo, aperto, gioioso veniva subito a metterti in confidenza, a farti rompere ogni indugio,
a sentirti presso un padre pronto a comprenderti e felice di poterti aiutare».
[…] I suoi occhi
sorridevano più della bocca: tutto il suo volto s’illuminava come se colpito da un raggio di sole. Labbra,
occhi sorridenti. Più che le parole, il sorriso manifesta i sentimenti. Mentre celebra o contempla
l’Eucaristia, l’Allamano è come trasfigurato da un chiarore particolare. Molti ne hanno fatto
l’esperienza.
Il suo domestico Cesare Scovero (1877-1951) attesta: «Io gli servii per tanti anni e
quasi ogni giorno la Messa. […] Soprattutto mi colpiva l’atteggiamento estatico che assumeva durante
l’elevazione; con un celeste sorriso i suoi occhi fissavano l’Ostia santa come chi guarda qualcuno».
«All’elevazione era mia abitudine guardarlo perché gli veniva sempre un sorriso sincero come sorridesse
con qualcuno».
Secondo P. Guido Bartorelli (1905-1986), quando parlava del mistero eucaristico «gli
occhi s’illuminavano; si sarebbe detto un poeta che declamava il suo grande amore. […] La sua Messa era per
noi uno spettacolo sacro. Era tutto di Cristo, prima, durante e dopo la Consacrazione. Gli occhi suoi parlavano
apertamente su questo suo amore».
Sorridente nelle relazioni con il prossimo
Scriveva, novantenne, il can. Giuseppe Giobergia di Mondovì: «Era tanto buono che tutti [i chierici del
seminario] l’accostavano. Aveva sempre un sorriso costante che gli veniva dal cuore. Non sentii mai un lamento
dell’Allamano».
[…] E il can. Nicola Baravalle (1878-1957), per tanti anni collaboratore
dell’Allamano alla Consolata, ricorda come venissero a lui per aiuto e consiglio persone d’ogni ordine e ceto
sociale. Quindi prosegue: «Egli li accoglieva sempre sorridente, senza mai dimostrare noia o fretta per altri che
attendevano. Egli non adulava alcuno. […] E quando doveva richiamare, sapeva appigliarsi a motivi soprannaturali
con parole così penetranti , fissando con quegli occhi illuminati che parevano lampi di soprannaturale. E da molti
era rilevata quella caratteristica di sguardo, malgrado che uno degli occhi lo tenesse sempre socchiuso».
Un vescovo (Mons. G. B. Ressia, vescovo di Mondovì), già suo condiscepolo, lo prega in questi termini nel
dare ai diocesani l’annuncio della sua morte: «Regala a me uno di questi sorrisi dolci che mi consolavano e
spronavano ad essere più buono». […] Don Alessandro Cantono (1874-1959), sacerdote di Biella ma
allievo del Convitto, cultore di sociologia e pioniere della democrazia cristiana e, per questo motivo, guardato con
sospetto, scrive: «Il suo sorriso era bello e aveva del celestiale; le sue maniere semplici, bonarie; coi suoi, con
quelli con cui più trattava non si servì mai di altro linguaggio che del nostro piemontese». «Il
Can. Allamano, irradiato da un sorriso, luce della sua anima candida e serena e che aveva qualche cosa del sorriso di S.
Francesco di Sales, era un conoscitore d’uomini, uno psicologo, un uomo che intuiva il fondo di un
individuo».
Il suo sorriso ha impressionato e conquistato P. Domenico Gillio (1876-1953) e molti
aspiranti alle missioni. Al salesiano don Antonio Cojazzi, che gli chiede le impressioni sul biennio trascorso al Convitto
Ecclesiastico, risponde con una sintesi quanto mai felice: «Ci parlava e ci guidava con un perenne sorriso sul
volto».
Troppo noto, per riferirlo, l’episodio che è alla base della vocazione di Benedetto
Falda (1882-1969), un giovanotto ostile ai preti e alla Chiesa. Una storia incantevole, che dovremmo rileggere e far
conoscere, che trova il suo fulcro nella frase: «Il Canonico mi fissò col suo sguardo buono, poi mi
posò una mano sulla spalla e mi disse: “Bravo! Mi pare che ci intenderemo”. […] Allora il
Fondatore mi avvolse in uno dei suoi celestiali sorrisi» […].
Infine, suor Emerenziana Tealdi
(1901-1985), che l’assisté durante l’ultima notte, riferisce: «Verso le tre di notte,
cambiò improvvisamente d’aspetto; il suo volto si rischiarò, un sorriso apparve sulle sue labbra, il
suo occhio divenne limpido, guardando fisso verso un punto lontano. Io lo chiamai: “Padre!”. Egli intese:
voltò lo sguardo verso di me, mi fissò…e fu l’ultimo sguardo che mi diede su questa
terra».
Il fascino del suo magistero
Oltre che dal contenuto (penso ai volumi
delle sue conferenze agli allievi missionari e a quelli alle suore), il fascino del suo magistero derivava dalla viva voce
e dallo sguardo caratteristico. La parola era solo un elemento, forse nemmeno il più importante, del suo
discorso.
Le suore inviano alle consorelle del Kenya il testo di alcune conversazioni raccolte dalla viva voce.
Hanno coscienza che le parole, raccolte con scrupolo, non possono ricreare il momento magico di quando furono dette, e si
giustificano: «Vorremmo con queste pagine tradurre, se fosse possibile, il gesto, la voce, lo sguardo del nostro
buon Padre, poiché vediamo che così perdono molto le sue parole: È questa una mancanza alla quale non
si può trovare rimedio» (12 settembre 1915).
Due mesi dopo, sono i chierici che fanno la stessa
esperienza, inviando il testo raccolto ai confratelli in grigioverde: «Carissimi fratelli tutti! Ecco la più
bella conferenza che in tanti anni mi è stato dato di udire; non dico di copiare, perché è stata
riportata da tutti, e fatta da tutti, onde è fedelissima…Quello solo che non si può riportare
è il volto del Sig. Rettore in quei momenti».
La commemorazione di P. C. Bona, ancora molto lunga,
riporta tanti episodi e testimonianze, che descrivono un Allamano dalla personalità umana e spirituale molto
vicina, accogliente, di vero padre. Per concludere questo breve saggio, ci limitiamo a riportare una testimonianza di P.
Alfredo Ponti (1902-1985), che ha speso quasi tutta la sua vita come missionario in Tanzania.
«Ricordo
che una sera a Tosamaganga (Tanzania) mentre sulla missione si scatenava un terribile temporale, io mi rifugiai nella
stanza del p. Nazareno Prina per attendere che la bufera si calmasse. Ricordo che quasi spontaneamente il discorso cadde
sugli anni felici della nostra giovinezza, quando assieme eravamo ginnasiali nell’Istituto.
Ricordammo, così, assieme, anzi rivivemmo per qualche istante i nostri primi anni di vita
d’Istituto, quando la nostra famiglia religiosa era ancora piccola e tutti noi si formava una sola e unita nidiata.
E naturalmente che il nostro discorso cadde su Colui che di quella famiglia era il vincolo, il sostegno, la guida, il
nostro Padre.
Ed allora riandammo tutto di lui: la sua vita, la sua bontà verso di
noi, la sua grande comprensione, ed anche la felicità nostra nel poter convivere con lui. Non tralasciammo di
ricordare anche le nostre piccole avventure di quegli anni; le nostre apparenti difficoltà, tutta la nostra lunga
ascesa, sempre illuminata e sorretta dalla sua confortante parola, dalla sua inesauribile pazienza e carità, dal
suo costante incoraggiamento.
Ed infine, quasi di segreto accordo ci fermammo in un lungo
e prolungato silenzio. E ci accorgemmo allora di avere gli occhi lucidi ambedue. Il ricordo palpitante del nostro amato
Padre ci aveva commossi entrambi, e fu il mio confratello che congedandomi esclamò: “Era veramente un Padre,
era il nostro Padre, e come lui non ne ebbimo più un altro”».
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Creato: Mercoledì, 31 Gennaio 2007 05:00