23. L' UMILTA'

L'esempio di Nostro Signore

N. S. Gesù Cristo, venuto dal Cielo in terra per salvarci, proclamò altamente: Imparate da me che sono mite ed umile di cuore (440). Non ci propone - commenta qui S. Agostino - d'imitarlo nel fabbricare il mondo, nel creare le cose visibili ed invisibili, nell'operare meraviglie, ma nell'essere umili di cuore (441). Ecco quello in cui vuol essere da noi imitato. Se ci chiedesse d'imitarlo nel fare portenti, o nella sua estrema povertà, o nella totale immolazione fino alla morte di croce, potremmo addurre la scusa della nostra debolezza; ma imitarlo nella virtù dell'umiltà a tutti è possibile: essendo questa virtù a noi connaturale per la nostra bassezza, mentre per Gesù fu un prodigio di annientamento. Egli fu il solo vero umile. Noi umiliandoci ci facciamo solo quali veramente siamo; invece Gesù umiliandosi s'abbassò al di sotto di quello ch'Egli era in realtà. A ragione perciò i Santi Padri chiamano l'umiltà: virtus Christi.

Considerando l'umiltà in Nostro Signore, troviamo ch'Egli la praticò nelle parole, nelle azioni e nell'amore alle umiliazioni.

NELLE PAROLE - Diamo uno sguardo al Vangelo. Gesù diceva cose sì belle e sublimi, che già all'età di dodici anni faceva meravigliare i Dottori della Legge, mentre più tardi le turbe lo seguivano affascinate. Che fa Egli? Dichiara che la dottrina da Lui insegnata, non è sua ma del suo Padre celeste: La mia dottrina non è mia, ma di Colui che mi ha mandato (442). Ma come! - potevano opporgli - Non è tua?... E' tua, perché tu sei Dio e Uomo. Era infatti anche sua in quanto Dio, egli però considerava se stesso in quanto uomo, parlava nel modo meno favorevole a se stesso. Quando lo si chiamava Maestro buono, tosto rispondeva: Nessuno è buono tranne Dio solo (443). Anche qui Egli prescindeva dalla sua Divinità.

In ciò soprattutto appare l'umiltà di Gesù: nel suo continuo chiamarsi il Figliuol dell'uomo. Non era Egli vero Figlio di Dio, consostanziale al Padre? E l'Eterno Padre non disse più volte di Lui: Questi è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto? (444). Sì, ma Gesù era pure nato da donna, ed essendo perciò anche vero il titolo di Figlio dell'uomo, questo usava, né si stancava di ripeterlo, fin quasi con insistenza. Lasciava la verità più nobile, più onorifica, per scegliere quella più umile.

NELLE AZIONI - Parimenti l'umiltà accompagnò N. Signore Gesù Cristo in tutte le sue azioni. Se faceva miracoli, raccomandava il silenzio attorno ai medesimi; e silenzio imponeva ai demoni, che avrebbero voluto proclamarlo il Santo di Dio. Sul Tabor, dopo essersi manifestato ai tre Apostoli nella sua gloria, proibì loro di parlarne fin dopo la sua risurrezione. Se le turbe ammirate dei suoi miracoli, cercavano di farlo re, Egli tosto si sottraeva ai loro sguardi, né più si lasciava trovare.

L'umiltà gli faceva compatire gli Apostoli; essi capivano nulla o quasi della sua missione e, dopo tre anni di continua scuola, erano ancora quelli di prima e disputavano fra loro di supremazia, e ciò nel momento stesso in cui Egli, il Maestro Divino, preannunziava la prossima dolorosa Passione. Ancorché Signore dell'universo, non dubitò di farsi loro servo, fino ad abbassarsi a lavar loro i piedi.

Ma più grande prodigio di umiltà fu la sua morte, con tutte le ignominie che l'accompagnarono, alle quali Egli pienamente si assoggettò. Umiliò se stesso fattosi obbediente sino alla morte, e morte di croce (445). I Santi, alla considerazione di tanta umiltà di Gesù, umiltà portata fino all'esinanizione, non sapevano più che dirsi, tanto erano stupefatti.

Del resto, tutta la vita di Gesù fu un esempio di umiltà. Egli, il Re dei re, nasce in una stalla come il rifiuto del mondo. Egli che è l'Onnipotente, fugge in Egitto, quasi fosse impotente a difendersi dalle insidie di Erode. Egli, i cui istanti di vita erano più preziosi di tutte le vite degli Angeli e uomini insieme, vive oscuro fino a trent'anni in una bottega di falegname, impiegato in umili lavori.

AMORE ALLE UMILIAZIONI - Essere umili nelle parole non è gran che, e possiamo farlo anche noi, pur avendo la più fine superbia. Più difficile è sapersi mantenere in umiltà in mezzo alle grandi azioni. Per un certo spirito di umana prudenza, ci guardiamo dal farci conoscere per quello che siamo, ma nel cuore godiamo della gloria umana; e per più ricavare di che gonfiarci, ci dimostriamo noncuranti delle stesse giuste dimostrazioni ricevute. Non fu questa l'umiltà di Gesù. Egli ebbe il vero amore all'umiltà, la vera umiltà di cuore.

Quantunque, anche come Uomo, fosse ripieno di tutta la grazia e di tutte le virtù nel grado più sublime che poteva convenire alla più perfetta creatura umana uscita dalle mani di Dio, si mantenne nondimeno in una continua disposizione di annientamento davanti alla maestà di Dio: considerando che eravi sempre una distanza infinita tra Dio e Lui: che, come Uomo, non aveva nulla di suo, ma tutto aveva ricevuto dalla liberalità del Padre. L'essere mio è come un nulla dinnanzi a te (446).

E non solo davanti a Dio, ma anche davanti agli uomini Egli praticò sempre questa umiltà di cuore. Accusato d'essere indemoniato, non altro rispose che: Io non sono indemoniato (447), e basta: ché di più non era necessario per difendere la dottrina del Padre suo. Di Sé nessuna difesa. A Pilato che desiderava liberarlo, avendone riconosciuta l'innocenza, Gesù non rispose mai in propria difesa eccetto quand'era interposta l'autorità di Dio. Davanti ad Erode godette nel suo Cuore dell'umiliazione che gli toccò, d'essere tenuto e trattato per pazzo; e anche qui, a ciò ottenere, non rispose alle domande di lui.

Ma osservate il carattere particolare dell'umiltà di Gesù, così diversa dalla nostra. Vi abbiamo già accennato, ma convien tornarci sopra. Noi siamo umili perché ci è giocoforza esserlo: per la nostra natura miserabile, pei nostri difetti, per le umiliazioni che ci incolgono anche nostro malgrado. Non cosi Gesù. Egli fu umile di sua piena e spontanea volontà. Potendo allontanare da Sé tutte le umiliazioni, tutte invece Egli dispose che gli venissero e tutte le accettò. Quindi come si dice di Lui che si è sacrificato perché lo volle (448), cosi non si dice ch'Egli sia stato umiliato, ma che fu Lui ad umiliarsi: Umiliò se stesso (449).

Che se diamo uno sguardo alla vita Sacramentale di Gesù nel tabernacolo, non vi par essa effetto del suo amore per l'umiltà? Che potrebbe fare di più, nella sua brama d'essere non curato, disprezzato? Quasi temesse di essere onorato per quel Dio che è, tutto escogitò e mise in atto per abbassarsi. Quivi infatti il suo abbassamento è totale: nessun segno appare della sua Divinità, nessun segno di quella potenza e sapienza che regge il mondo. E questo nascondimento totale gli è causa di essere sovente dagli uomini trattato freddamente, o anche sacrilegamente maltrattato. Eppure Gesù, tutto sapendo in antecedenza, a tutto volontariamente si assoggettò per amore di umiltà.

Eccellenza e necessità

Dirà taluno: perché parlare tanto di umiltà e sempre inculcare questa virtù, mentre sono pure utili e necessarie le altre? Ecco la risposta: non v'ha alcuna virtù, per quanto splendida, che abbia in sé alcunché di solido, se non accompagnata dall'umiltà. Secondo S. Tommaso, l'umiltà non è la prima virtù per eccellenza, perché sono più eccellenti le virtù teologali che hanno per oggetto immediato Dio; e vengono anche prima le virtù intellettuali e la giustizia legale; tuttavia - aggiunge il santo Dottore - l'umiltà tiene il primo posto nel coro delle virtù in ragione di fondamento, allo stesso modo che in un edificio materiale, precede la base (450).

La similitudine è presa da S. Agostino, il quale dice: Se vuoi costruire un edificio, devi anzitutto pensare alle fondamenta; e queste nell'edificio spirituale della nostra santificazione sono costituite dalla virtù dell'umiltà. E il Santo continua: quanto più l'edificio dev'essere elevato, massiccio, ecc., tanto più profonde devono gettarsi le fondamenta (451).

Due sono le proprietà del fondamento: permettere la costruzione dell'edificio e assicurare la stabilità. Questo appunto è l'ufficio della virtù dell'umiltà, senza la quale non si può ottenere la grazia di Dio e quindi l'abilitazione all'esercizio delle virtù soprannaturali; né queste potrebbero conservarsi. Quindi è che S. Bernardo chiama l'umiltà: fondamento e custode delle virtù (452).

S. Agostino narra che interrogato Demostene quale fosse la prima dote dell'oratore, rispose: "La pronunzia". E la seconda? "La pronunzia". E la terza? "La pronunzia". E' infatti inutile che uno possegga molta scienza, se poi non sa metterla fuori in modo conveniente. Così egli, S. Agostino, interrogato da un certo Dioscoro quale fosse la prima virtù, rispose: "La prima virtù è l'umiltà, la seconda è l'umiltà, la terza è l'umiltà" (453). S. Girolamo la chiama: la virtù dei cristiani (454), appunto perché essa entra in tutte le virtù; e senza l'umiltà anche le cose buone diventano guaste. S. Cipriano la dice: il fondamento insostituibile della santità (455).

L'umiltà è assolutamente necessaria per salvarsi. Dice S. Pier Damiani che in Cielo vi sono Santi che non fecero elemosine, perché non avevano di che dare; altri che non conservarono la verginità, perché chiamati ad uno stato meno perfetto; altri ancora che non fecero grandi penitenze, perché non avevano salute, ma nessun Santo si trova che non sia stato umile. La stessa Madre di Dio, continua S. Pier Damiani, non sarebbe entrata in Paradiso senza questa virtù.

Bellissima è pure a questo proposito l'espressione del Combattimento spirituale: la Madonna fu tanto grande, perché fu tanto umile; e se un'altra creatura potesse essere umile come la Madonna, il Signore la innalzerebbe quanto ha innalzato Lei (456).

L'umiltà è necessaria per pregar bene. Solo, infatti, le preghiere degli umili possono penetrare in Cielo; quelle dei superbi no, come fu della preghiera del Fariseo. Chi si crede ricco, chi non ammette di essere bisognoso, certamente nulla ottiene: il tono stesso delle sue richieste indispone. Il Signore guarda all'umiltà della preghiera.

Necessarissima è poi l'umiltà relativamente al nostro stato particolare. Anzitutto il nostro stato è uno stato di servitù davanti a Dio. Ma per essere servo è necessaria l'umiltà, perché il servo deve ritenersi inferiore a tutti i padroni. Per il sacerdote questi padroni sono Dio e il prossimo. Gesù diceva agli Apostoli: Chi governa sia come colui che serve (457).

Non siamo dunque dei signori, ma dei servi: servi di Nostro Signore e servi dei fedeli. Ciò insegna pure S. Paolo: Noi ci si deve considerare come servitori di Cristo (458). Perciò il nostro ministero è detto da S. Isidoro: ministero di umiltà.

Inoltre il nostro stato esige umiltà perché è uno stato di elevazione. Gesù ha detto: Il più grande tra voi sia come il più piccolo (459). Quanto più si è alti in dignità, tanto più dobbiamo abbassarci per umiltà, come insegna l'Ecclesiastico: Quanto più tu sei grande, (tanto più) umiliati in tutto (460). Così fece la Madonna che all'annunzio della dignità di Madre di Dio, rispose umiliandosi allo stato di serva: Ecco l'ancella del Signore! (461).

Il nostro stato è finalmente stato di santità. Ora la santità è il complesso di tutte le virtù, e già noi abbiam visto come non vi possa essere vera virtù, se non accompagnata dall'umiltà. Così senza umiltà non vi è fede. Come infatti il superbo piegherà il suo intelletto e la ragione con piena sottomissione all'autorità della Chiesa? Chi è superbo non crede. La mancanza di umiltà fa che molti perdano la fede e che molti eretici, già alle porte della Chiesa, non vi entrino.

Senza umiltà non v'è speranza. Come infatti si affiderà tutto a Dio chi si appoggia a se stesso anche per poco, chi confida nel suo ingegno, ecc.? Il superbo confida solo nel suo io, mentre sta scritto: Maledetto l'uomo che confida nell'uomo (462). Molto si sbaglia colui che, per un po' d'ingegno, di scienza, crede di poter divenire un buon sacerdote, un buon Missionario. No, perché gli manca l'essenziale e cioè la grazia di Dio, la quale sola può salvare le anime. Iddio non si serve di chi attribuisce a sé i buoni successi; né lo Spirito Santo lo ispirerà a ben trafficare i suoi talenti.

Che dire della virtù della carità? Il superbo ama se stesso e non il Signore. S. Agostino dice: "Dove c'è umiltà, ivi c'è carità" (463). Invertendo i termini, si può dire: dove non c'è umiltà, non c'è carità. Quanti sacerdoti fanno opere grandi nel ministero, e non solo non ne hanno merito, ma per di più peccano per mancanza di umiltà! Invece il sacerdote umile è detto da S. Lorenzo Giustiniani "accetto a Dio, caro agli uomini, degno del Cielo, abitacolo dello Spirito Santo, disprezzatore del mondo, vincitore del demonio, dotato di santità, specchio della Chiesa".

La virtù dell'umiltà è poi talmente necessaria a noi Missionari, che senza di essa non solo non possiamo fare nulla di bene, ma anzi faremo molto male; dopo aver lavorato tanto, arriveremo in punto di morte privi di meriti e peggio, con molti demeriti. Volete voi (e dovete volerlo) divenire santi Missionari, più santi che si possa? Studiatevi di essere umili. L'umiltà vi metterà in possesso di tutte le virtù, vi introdurrà nell'alto ministero sacerdotale e apostolico, perché sta scritto che Dio esalta gli umili. Se ci sono persone che devono essere umili, sono proprio i Missionari. Quante volte, dopo aver lavorato attorno ad un pagano e aver nulla ottenuto, si prega e tutto ad un tratto quel tale si converte! Il Signore è geloso della sua gloria e la sua grazia non la dà che agli umili: la dà per essi e per le anime da convertire.

Chi praticamente è persuaso che qualunque luogo o casa o impiego è sempre troppo per lui, che anche l'ultimo posto è già una carità per lui, state certi che farà miracoli, non è vanaglorioso; in ricambio, ha da Dio aiuti straordinari. Il Signore non si serve dei Farisei. Il Beato Sebastiano Valfrè era zelantissimo, ma anche tanto umile che si stimava indegno di appartenere alla Congregazione dei Filippini, di cui pure poteva dirsi il confondatore in Torino; e diceva: "I miei colleghi mi usano tanta carità che non mi mandano via" (464). Certo il suo zelo senza l'umiltà non sarebbe valso a nulla; lo zelo senza umiltà è falsità.

I Missionari della Consolata devono vivere con spirito vivissimo di fede, di sacrificio, di mutua fraterna carità, ma soprattutto con spirito di umiltà profondissima. Lo spirito del Missionario è un gran fondo di umiltà. Un Vescovo diceva che la tentazione più propria del Missionario è la superbia: perché se non riesce, si scoraggisce e questo è superbia; se riesce, s'innalza, non vuole stare al livello degli altri, vuol fare opere più grandiose.

Cominciamo pertanto a persuaderci della necessità di questa virtù, né temiamo di abbassarci troppo. Se noi saremo umili, se anche saremo un Istituto umile, il Signore ci solleverà. Noi siamo gli ultimi venuti, siamo quattro gatti e non abbiamo neppure bisogno di contarci, non solo individualmente, ma come Istituto. Il motto, la divisa dell'Istituto voglio che sia: Protegam eum quoniam cognovit nomen meum (465). Lo proteggerò perché attribuisce tutto a me!

In che consiste la vera umiltà

Abbiamo parlato dell'eccellenza e della necessità dell'umiltà. Senza di essa le virtù si cambiano in vizi, e le stesse grazie di Dio tornano in nocumento. Vediamo ora la natura e gli elementi costitutivi della medesima.

Nel definire o parlare dell'umiltà molti sbagliano, perché non ne hanno un giusto concetto. Alcuni infatti la fanno consistere in certe esteriorità, che possono bensì essere di aiuto all'umiltà e frutto di essa ma che talora anche nascondono la più fine superbia. Altri poi, per la falsa idea che si fanno di questa virtù; la disprezzano.

Che cos'è dunque l'umiltà? Secondo S. Bernardo, essa è "una virtù per la quale, mediante una verissima conoscenza di sé, l'uomo diventa miserabile a se stesso" (466). Da questa definizione appare che a costituire la virtù dell'umiltà concorre la conoscenza dell'intelletto quale condizione (secondo S. Tommaso) indispensabile e regola del nostro abbassamento; ma è nella volontà che sta l'essenza dell'umiltà: la quale raffrena l'appetito innato in noi d'innalzarci sopra il nostro merito sia in riguardo a Dio e sia in riguardo al prossimo. In altre parole: l'uomo, vedendo che cos'è in se stesso, si abbassa davanti a Dio e davanti a sé. Questa virtù comprende dunque due punti: l'umiltà d'intelletto (humilitas cognitionis) e l'umiltà di affetto (humilitas affectionis). La prima è condizione e predisposizione per avere e praticare la seconda (467).

1. - UMILTÀ D'INTELLETTO - La prima cosa, dunque, necessaria per l'acquisto dell'umiltà è la conoscenza, et quidem verissima, di noi stessi. Conoscerci per quello che siamo. Non vuol dunque dire che, per essere umili, si debba pensare di noi peggio di quello che siamo, poiché l'umiltà essendo una virtù, deve fondarsi non sulla falsità ma sulla verità. Perciò non posso umiliarmi per peccati che non ho commesso.

Neppure essa consiste in certe affermazioni verbali, come: "Sono buono a nulla! " o simili. Sovente queste cose si dicono per farsi lodare, ma guai se a costoro si rispondesse: "Lo so che sei buono a niente!". Altri si credono umili perché si danno del superbo; se però se lo sentono dire dagli altri si risentono. Altri ancora credono che sia umiltà il disprezzare una loro opera ben riuscita. No, la virtù rifugge sempre dal mendacio. Quando si eseguisce qualche lavoro, bisogna eseguirlo nel miglior modo possibile. Dobbiamo andare adagio a credere subito di aver tante doti, ma se veramente le abbiamo dobbiamo riconoscere di averle, ma anche di averle ricevute da Dio al quale tutto riferiamo.

Così faceva ad esempio S. Bernardo. Talora mentre egli predicava, il demonio gli sussurrava: "Oh, come predichi bene!". Il Santo non rispondeva: "Allora predicherò male, per non insuperbirmi", ma invece: "Ebbene, predicherò ancor meglio, ma non per te, bensì per il Signore!". L'umiltà dev'essere semplice; non fare delle sciocchezze per coprire le lodi. S. Francesco di Sales, un giorno che volevano portarlo in trionfo in una città, schivò dapprima la dimostrazione rifugiandosi in una libreria, ma poi, compatendo i suoi ammiratori e vedendo essergli impossibile di rimaner celato, con santa semplicità uscì fuori.

L'umiltà deve dunque fondarsi sulla conoscenza vera, retta del nostro essere, dei nostri meriti: sia nell'ordine della natura e sia in quello della grazia. E ce n'è di che star umili! Diamo uno sguardo a noi medesimi. Che cosa siamo nell'ordine della natura? Polvere e cenere. Possiamo di ciò insuperbirci?... Ma il riconoscere d'essere polvere e cenere è ancor troppo, poiché l'essere polvere vile e cenere spregevole è pur sempre qualcosa. Noi invece siamo niente. Venti, trenta, sessant'anni fa, che cosa eravamo noi? Niente. Esisteva questo mondo, esisteva questa città, e noi eravamo un mero nulla. E nei tempi più addietro, nell'eternità, che cosa sono stato io? Nulla, cioè meno di una formica, meno di un granello di arena, meno di un atomo di polvere che pure è qualcosa.

E adesso che cosa siamo, che cosa abbiamo di nostro? Come è Dio che ci diede l'essere, come è Dio che ci conserva, così è Dio che ci diede tutte le doti e prerogative che adornano il nostro essere. Dunque: il corpo, l'anima, la sanità di cui godiamo, la bellezza di cui ci vantiamo, l'ingegno di cui ci gloriamo, tutto ci viene da Dio; di nostro abbiamo nulla. Il dire che, al presente, vi sia alcuna cosa di cui Dio non sia stato il donatore, è falso. Che cos'hai tu che non abbi ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché ti glorii come non avessi ricevuto? (468).

Le stesse considerazioni, e tutte verissime, possiamo e dobbiamo fare nell'ordine della grazia. E anche qui, anzi qui maggiormente, noi troveremo di essere un bel niente. L'altezza dello stato soprannaturale è tale che da noi non possiamo arrivarci. Se siamo cristiani è per grazia di Dio: quando ci hanno battezzati, non sapevamo neppure quello che ci facevano... E l'essere stati chiamati in questa Casa è forse dovuto ai nostri meriti? Niente affatto! E' il Signore che, con fili misteriosi, ci ha qui condotti. Nell'ordine soprannaturale tutto viene dal Signore, anche la cooperazione alla grazia divina. Un momento solo che il Signore arrestasse la sua mano benefica, precipiteremmo nel nulla di dove siamo venuti. La stessa buona volontà è dono di Dio.

Dunque che cosa abbiamo di nostro? Una cosa: il peccato e la incorrispondenza alla grazia. E di questo non c'è davvero di che gloriarci.

Di qui comprendiamo come i Santi, pur operando meraviglie potessero mantenersi tanto umili. S. Gerardo Majella operava miracoli su miracoli, ma diceva: "Cose tanto grandi è impossibile che siano mie!". S. Vincenzo de' Paoli a un tale che, dopo averlo coperto d'insulti, gli diceva: "Sono altamente stupito che la Congregazione l'abbia eletto a Superiore!", rispose umilmente: "Me ne stupisco anch'io!". S. Francesco Zaverio, benché operasse tante conversioni e miracoli, supplicava S. Ignazio di mandare nelle Indie qualcuno ad aggiustare i suoi sbagli. I Santi capivano che tutto quello che avevano non era loro. Infatti, se non siamo pazzi, riconosciamo che è dono del Signore. S. Paolo diceva: Gesù Cristo venne nel mondo a salvare i peccatori, di cui io sono il primo (469). Sarebbe già stato molto se avesse detto d'essere stato un peccatore, perché di fatto aveva perseguitato la Chiesa, benché per ignoranza; invece dice: dei quali sono il minimo. Anche al presente. Eppure non è una menzogna. Tommaso infatti spiega come ciascuno di noi, per umiltà e in verità, possa e debba tenersi per vile peccatore. Tale si riputava S. Francesco d'Assisi.

2. - UMILTÀ DI AFFETTO - Ecco in breve che cosa siamo noi nell'ordine della natura e della grazia: un niente e meno che niente. Ora, posta questa verissima conoscenza di noi, ne vien per conseguenza la poca o nulla stima che dobbiamo avere di noi, il tenerci praticamente bassi ai nostri occhi, il sopportare e anche desiderare che altri ci tengano per ciò che siamo: miserabili e un nulla. A che infatti varrebbe conoscerci per quello che siamo, se effettivamente, colla volontà, non desiderassimo e non ci sforzassimo di tenerci al nostro posto davanti a Dio e davanti al prossimo? S. Francesco di Sales dice: "Non è umiltà il solo riconoscersi miserabile, a ciò basta l'intelletto; è umiltà il volere e desiderare che ci riguardino e ci trattino per tali".

Dobbiamo sottometterci a Dio con riverenza. S. Tommaso spiega appunto che "l'umiltà riguarda la riverenza con cui l'uomo deve stare soggetto a Dio" (470). Quindi riconoscere Dio autore d'ogni bene, dando a Lui tutta la gloria, temendo e avendo in orrore di rapirgli ciò che è suo. Allo stesso modo dobbiamo regolarci nei nostri rapporti col prossimo: nel quale, come spiega S. Tommaso, dobbiamo riconoscere ciò che è di Dio. Se uno si riconosce servo degli altri, avrà pazienza nel sopportare le loro miserie, mentre si adopera per salvarli; né si scoraggerà nel non vederli subito come egli brama, ma ne aspetterà da Dio la conversione: bastando a lui fare ciò che è in poter suo senza badare all'effetto.

Sempre nei riguardi del prossimo, dobbiamo anche evitare di paragonarci agli altri, magari riputandoci più buoni o che so io. Non dico che siano sempre peccato tutte le cose che passano per la mente: per lo più sono solo tentazioni; talora però vi potrebbe essere il consenso. Facciamoci uno studio di vedere nel prossimo solo le qualità buone. Pensiamo che colui che sembra più cattivo di noi, e forse lo è, può convertirsi, santificarsi ed essere poi in Paradiso più in alto di noi. Può anche darsi ch'egli abbia ricevuto meno grazie da Dio e non abbia quindi da rendere, conto. Se uno vuol fare dei paragoni, potrà sempre farli in favore dell'umiltà. Dice S. Bernardo: "Non vogliate paragonarvi né ai Superiori, né agli inferiori, né a chicchessia" (471). Il Fariseo si paragonò al pubblicano, stimandosi migliore di lui, ed uscì dal tempio peggiore di quando vi entrò.

Tenete dunque ben a mente queste parole di S. Bernardo che compendiano il fin qui detto: Nihil sumus, nihil possumus, nihil habemus, nihil valemus (472). Siamo niente, possiamo niente, abbiamo niente e valiamo niente. Sono così belle queste espressioni! Sono da scolpire sui muri, per meditarle proprio bene!... Sì, insistiamo su questi quattro punti, specialmente nella meditazione. Un anno al santuario di S. Ignazio, predicando gli esercizi al Clero, il Padre Bruno, Filippino, uscì in queste parole: "Siamo tutti polvere! Monsignore polvere, Padre polvere, Canonico polvere, Parroco polvere, tutti polvere!". Bisogna cercare d'assimilare. Non saremo mai abbastanza umili.

Per acquistare l'umiltà

Vista l'importanza e necessità, specialmente per noi, della virtù dell'umiltà e in che cosa essa consiste, parliamo dei mezzi per acquistarla, conservarla e perfezionarla in noi. Perché siamo superbi? Perché non usiamo i mezzi per combattere e vincere. Bisogna proporre seriamente, bisogna darsi con animo a usare i mezzi necessari per riuscire veramente umili. Di questi mezzi alcuni sono generali e comuni alle altre virtù, come la preghiera, la meditazione e l'esame; altri sono particolari: cioè gli atti interni ed esterni di umiltà.

PREGHIERA - Prima di tutto, come per le altre virtù, bisogna pregare, chiederla a Dio ogni giorno. Vi sono altre virtù da chiedere ogni giorno, ad esempio la castità, ma sempre anche l'umiltà. Chiederla nella santa Comunione e nella Visita al SS. Sacramento. Chiedere di poter penetrare in noi stessi, poter conoscere e vedere quello che siamo: il nostro nulla e le nostre miserie. E poi di essere contenti del nostro nulla. Se non si viene a questo dettaglio, non si conoscerà mai il bisogno dell'umiltà, né il Signore ce la darà.

MEDITAZIONE - In secondo luogo dobbiamo meditare sovente sulla virtù dell'umiltà e sui mezzi per combattere la superbia, specialmente su quelli che ci sono forniti dall'esempio e dai detti di Nostro Signore e dei Santi. State pur certi che, per quanto facciamo in fatto di umiltà, non faremo mai abbastanza. Nostro Signore si fece quasi un verme della terra. Ego vermis et non homo! (473). Oh, sì! pensiamo sovente ai suoi detti, ai suoi esempi e a quelli dei Santi. Quando poi si tratta di libri ascetici, date la preferenza a quelli che parlano di proposito di quella virtù.

ESAME - Quando non sapete su che cosa fare l'esame particolare, non sbaglierete mai a farlo sulla umiltà sulla superbia. Bisogna che andiamo a fondo nell'esaminarci. Non dire semplicemente: "Sono superbo" e fermarci lì. Esaminatevi se quando sentite lodare qualcuno non provate un po' d'invidia; se rifuggite dai lavori umili. Non disprezzate le cose alte, ma amate le basse.

ATTI INTERNI - Oltre la preghiera, la meditazione e l'esame, dobbiamo mettere la nostra cooperazione pratica. L'umiltà non è infusa; ordinariamente non si dona, ma si ottiene con la nostra cooperazione. Bisogna dunque procurare di fare atti di umiltà. Dice S Bernardo: "Se vuoi l'umiltà, ama l'umiliazione" (474). L'umiltà è una virtù, perciò un abito il quale si acquista a forza di atti ripetuti.

Ed anzitutto, atti interni di umiltà. Sempre che spunta qualche pensiero di superbia, subito rintuzzarlo con dire: "Dio solo, Dio solo!". Quando siamo davanti a Gesù Sacramentato recitiamo giaculatorie come queste: Substantia mea tamquam nihilum ante te!... Ego servus tuus et filius ancillae tuae!...(475). Ripetiamo sovente: "Sono niente, ma sono proprio contento di essere niente!". Allora sì che il Signore ci farà la grazia di conoscere il nostro nulla! Può essere che, per aridità di spirito, queste espressioni ci sembrino fredde, tuttavia esse daranno sempre frutto. Questi atti interni ci aiutano tanto!

ATTI ESTERNI - Gli atti interni però non bastano, ci vogliono anche quelli esterni. S. Bernardo dice ché gli atti esterni sono effetto e indizio dell'umiltà interna. Coloro che vi si astengono non hanno neppure l'umiltà interna, checché dicano. "L'umiliazione - soggiunge lo stesso Santo - è la via per giungere all'umiltà". Perciò esorta: "Se dunque tu vuoi l'umiltà, non rifuggire dalla via delle umiliazioni" (476). Chi scansa le piccole umiliazioni non ama e non ha l'umiltà. E' vero che queste cose esterne non bastano e sarebbero ipocrisia se non sono accompagnate dall'interno; ma neppure basta l'interno.

La pratica dell'umiltà

S. Tommaso dice che dall'interna disposizione all'umiltà nascono gli atti esterni che si esprimono con le parole, coi fatti e coi gesti (477).

NELLE PAROLE - Non parlare in nostra lode; se mi sfugge una parola in mia lode, ebbene farò una piccola penitenza. Inoltre non parlare se non raramente di quello che abbiam fatto o di quello che eravamo nel secolo. Tutto ciò, una volta entrati in Religione, non conta più niente: essere nobili o non esserlo, essere ricchi o no, fa lo stesso. E anche raramente parlare in nostro biasimo. Quando poi ci avvenisse di udire altri parlar male di noi, tacere. E' la superbia che ci fa subito scusare. Quando siamo ripresi e corretti, invece di portarci col pensiero al nostro nulla, pensiamo subito al modo di scusarci. Che se non sempre osiamo scusarci esternamente, ci scusiamo internamente; e questo è un ostacolo grande alla vera e perfetta umiltà. Quindi stare attenti a vincerci e non sempre scusarci; poi sforzarci di essere contenti della correzione o ammonizione. Talora non ci scusiamo, ma dimostriamo di non prendere in bene l'osservazione. Negli stessi nostri peccati supposto che non ci fosse l'offesa del Signore, dovremmo essere contenti di dover riconoscere la nostra debolezza e che da tutti si conosca la nostra poca virtù.

NEI FATTI - Non far nulla per farci vedere, nulla con superbia. Soprattutto accettare volentieri quelle umiliazioni che il Signore ci manda. Per esempio: fare una topica all'esame; non riuscire in un lavoro nel quale abbiamo messo tutto l'impegno; essere sgridati un po' aspramente anche solo per prova; rompere qualche cosa anche dopo usata tutta la diligenza. In tutto ciò che non è peccato godiamo dell'umiliazione che ce ne viene, accettiamo volentieri l'umiliazione di essere messi un po' in disparte. Il Signore può ciò permettere per provarci, e anche i Superiori. Non dire: "Ah, non sono amato!". Questa è malinconia di superbia; dobbiamo invece essere contenti che i Superiori non abbiano di noi tutta la stima.

Sì, cercate che in comunità vi tengano per niente. Ritenetevi per l'ultimo della comunità, proprio per l'ultimo. Fortunato quel Religioso, che vive passando inosservato! Che importa la stima degli uomini?... Sono stato quattro anni Direttore in seminario e non avvenne mai che Mons. Gastaldi mi desse un segno di soddisfazione. Mi voleva bene, eppure mai una parola di compiacimento. Invitava i professori a pranzo in arcivescovado, ma io non fui mai invitato. Vedete, certe volte i Superiori non ci danno dimostrazioni o parole di lode, perché hanno stima di noi. Lo stesso Mons. Gastaldi raccontava che, quand'era Vescovo di Saluzzo, c'era un Rettore di seminario molto buono e zelante, che aveva continuamente bisogno di lodi, di parole di complimento, altrimenti si perdeva d'animo. Promosso egli pertanto ad Arcivescovo di Torino, volle formarci a non aver bisogno d'incitamenti.

NEI GESTI - Questo riguarda tutto il nostro insieme: tenere gli occhi modesti e che tutto l'esterno sappia di persona umile. Vi son di quelli che, nel gesto e nella voce, cercano sempre di mettersi in vista, di prevalere, di distinguersi. Il Decreto della S. Congregazione dei Religiosi, del quale vi ho più volte parlato, trattando delle virtù che i Religiosi devono avere, accenna in primo luogo all'umiltà e vuole umiltà interna ed esterna. Questa umiltà esterna di tutto il nostro comportamento è propria dei Religiosi che rinunziarono al mondo e alle sue vanità, per vestire i poveri abiti della Religione ed essere trattati male dai figli del secolo, ad imitazione di Gesù. Sempre inteso che la principale è l'umiltà interna, senza della quale l'esterna non sarebbe che apparenza e forse vanità. Fortunati i missionari e specialmente i Coadiutori, che hanno continua opportunità di esercitarla ed accrescerla in se stessi!

CERCARE L'UMILIAZIONE - Per progredire nell'umiltà, non basta ricevere l'umiliazione quand'essa viene, bisogna anche cercarla, almeno un poco; quindi chiedere al confessore, al Superiore, che c'impongano qualche umiliazione e anche farne delle spontanee. Chi di voi si sentirebbe di fare come il B. Sebastiano Valfrè, che prese un giorno un grosso quadro sulle spalle e lo portò trionfalmente per le vie di Torino? O chi di voi accetterebbe di fare ciò che S. Filippo ingiungeva ai suoi penitenti: di andar per Roma con la barba fatta solo a metà?... I Santi giungevano fino a queste stranezze, mentre noi... abbiam paura anche solo di lasciarci vedere con i parenti perché poveramente vestiti! Se fossero vestiti come vorremmo noi, oh allora saremmo ben contenti che tutto il mondo li vedesse!... Comunque, per ottenere l'umiltà è necessario amare e desiderare le umiliazioni. Senza di ciò l'umiltà non può esistere. Almeno quando ci si presentano, dobbiamo rallegrarcene di cuore. Si vis humilitatem, ama humiliationem!... Ricordatevi dunque: chiedere a Dio l'umiltà, meditare sulle nostre miserie, accettare le umiliazioni che Dio ci manda, cercarle anche noi. Così saremo veramente umili; e solo se saremo umili, saremo santi.

Bassa stima di noi stessi

In particolare, fra i mezzi per acquistare e praticare l'umiltà, vi è quello di non tenerci al credito. Direte: come può stare ciò con quelle parole della S. Scrittura: Abbi cura del buon nome (478). E con quelle del Vangelo: La vostra luce risplenda davanti agli uomini (479). Può stare benissimo. Non è infatti che noi si debba dare cattivo esempio, ma è che per acquistare lo spirito di umiltà, dobbiamo non tenerci al credito noi medesimi: al nostro giudizio, alla nostra scienza, alle nostre doti, alla stima degli altri.

AL NOSTRO GIUDIZIO - Il proprio giudizio, soprattutto nei giovani, quanto fa peccare di superbia! Quel' "io", oh come vuole introdursi in tutto, dappertutto, vincere per dritto e per traverso; e guai se incontra ostacoli! Allora s'impunta a difendere le sue asserzioni magari sino all'assurdo, chiamando in aiuto sofismi e anche menzogne. Se ci persuadessimo che la nostra testa è così piccola, la nostra intelligenza così corta, sapremmo ben convincerci di aver torto anche noi in qualche cosa e quindi accondiscenderemmo facilmente al dire altrui, al lume di quelli che hanno più esperienza di noi, e soprattutto ai Superiori per i lumi speciali che hanno.

E per venire alla pratica: quell'aver sempre da far degli appunti ai comandi dei Superiori, quel voler scrutare sulla bilancia la saggezza dei loro comandi e, non vedendola sempre, censurarli... son tante concessioni che facciamo al proprio giudizio, a cui diamo credito. Rompiamo questa testa ed avremo tolto un grande sostegno alla nostra superbia. Dobbiamo cioè rinunziare a tutti questi "chi sà perché questo, chi sà perché quello? " non abbiamo che da obbedire. Bisogna proprio che giungiamo a piegare questo nostro giudizio.

ALLA NOSTRA SCIENZA - Che cos'è la nostra scienza? Che cosa sappiamo noi? Nient'altro che alcune lettere d'alfabeto della scienza universale. Che direste di quel ragazzo che, per aver imparato alcune lettere d'alfabeto, s'andasse vantando per dotto scienziato? Farebbe ridere di compassione! Tale appunto è il poco che sappiamo in paragone di ciò che c'è da imparare. I più grandi filosofi, dopo tanti studi, giungevano alla conclusione: Scio me nihil scire! Si persuadevano di saper niente. I veri dotti, nonché gonfiarsi della loro scienza, restano umiliati al vedere di sapere così poco. E noi pure quanto più avanziamo negli studi, tanto più chiaramente vediamo quale e quanta sia la scienza di cui manchiamo. Dopo tanto studio ci troviamo ancor sempre negli imbrogli e sbagliamo in molti casi. Senza dire che il Signore può mandarci un malanno, e addio scienza!... Ecco che cos'è la nostra scienza a cui portiamo tanto credito! Ne sa più una vecchierella in Paradiso, che non noi con tutti i nostri studi!

Lo stesso dicasi della nostra scienza in paragone di quella degli altri. E' più facile insuperbirsi per questo lato. Uno dice: "Io so più del tale... riesco meglio... sono il primo della scuola". Poveri superbi! Quel tale ne sa di meno, sia; ma almeno sa di saper poco; e quindi ne sa sempre più di te che credi di sapere più di quello che sai. In realtà sei più ignorante di lui. Ti credi più saggio, trinci sentenze che tu credi inoppugnabili, mentre non lo sono; l'altro invece che non confida nella propria scienza, va più adagio e più sovente dice bene; si consiglia, consulta e finisce per far bene. Tu guasti e lui edifica. Così è, miei cari. Uno ne saprà meno, avrà meno ingegno, ma è umile e si fa grandi meriti pel Cielo; opererà anche maggior bene, perché il Signore si servirà di lui, appunto perché umile. Sia chi ha poco ingegno, sia chi ne ha molto, non confidi per nulla nella propria scienza.

ALLE PROPRIE DOTI - Dobbiamo non tenerci al credito sia per le doti naturali: bellezza, fortezza, abilità a far qualcosa; sia per le doti acquisite: impiego, meriti e anche virtù. Ricordate sempre: Quid habes quod non accepisti? (480). E inoltre che il conto da rendere a Dio sarà proporzionato ai talenti ricevuti. E poi quelle belle qualità possiam perderle così facilmente! Gli impieghi, le cariche, ecc. non sono che altrettante responsabilità! La virtù stessa, quanto facilmente vien meno! Basta a farla sparire il credersi qualche cosa per un po' di fervore, per qualche lacrimuccia versata nell'orazione...!

ALLA STIMA DEGLI ALTRI - Sì, dobbiamo aver cura del buon nome; però dobbiamo sempre agire con fini soprannaturali: non per essere stimati, per aver preferenze, bensì per piacere a Dio. Eh, la stima che gli altri possono avere di noi, come presto e facilmente vien meno! Un'azione, una semplice parola sovente fa cadere quel castello di riputazione che ci eravamo formato. Della stima del mondo poi, non è neppure il caso di parlare. Basta una nuvola per far cambiare il giudizio del mondo a nostro riguardo. Il P. Fontana, Filippino, già in fama di santità, fu vittima un giorno di infame calunnia e questa attecchì presso molti; onde lo stesso Padre andava poi esclamando: "O stima del mondo, come sei mutevole!". Si venne poi in chiaro della cosa, ma lui non si scolpò mai. Ugualmente si comportò S. Francesco di Sales, rimanendo due anni sotto il peso di un'atroce calunnia riguardo alla castità. A chi l'invitava a discolparsi rispondeva: "No, il Signore sa di quale stima io abbia bisogno per compiere il mio dovere". Talvolta il nostro amor proprio ci fa velo e ci fa vedere la gloria di Dio, il bene delle anime, dove invece è la gloria del proprio io. I titoli, le cariche, ecc. son tutte goffaggini, valgono niente. Il Signore non guarda i titoli.

Sono ormai quarant'anni dacché sono superiore e... sarebbe tempo di finirla! Lascierei tanto volentieri la Consolata, il Convitto Ecclesiastico, il Canonicato... non dico di lasciare anche voi, ma... A questo proposito, ritorno su una cosa che volevo già dirvi altre volte. Voi mi baciate la mano e io vi ho sempre lasciato fare, ora però non voglio più. So che mi volete bene, ma questo mi sembra troppo. Vedo che vi moltiplicate di numero e mi prendete d'assalto... Lasciate stare, me la bacierete poi quando sarò morto se vorrete. Sono riconoscente per le vostre dimostrazioni, ma non voglio che siano troppo abbondanti. Inoltre, non voglio più sentire quel superlativo di "veneratissimo". Sul Da Casa Madre ne ho contati almeno otto: è troppo. Il Cafasso è appena Venerabile e io debbo già essere veneratissimo? Solo il Signore sa se lo sono... Non lo fate più, perché mi pare un'esagerazione. Mi potete voler bene lo stesso, ma in questo lasciamo stare. Questo mi fa venire gli scrupoli o almeno mi pare una cosa che voi potete benissimo omettere.

Ritorniamo a noi. Il proprio giudizio, la stima della propria scienza e delle proprie doti, l'essere attaccati alla stima degli altri: ecco gli appoggi della nostra superbia. Atterriamoli e saremo umili. Alla scuola di Nostro Signore che a noi si propose quale modello di umiltà, sarebbe vergogna andar dietro a tali sciocchezze. Ognuno di noi dev'essere alter Christus non solo per il carattere sacerdotale, ma nell'imitazione delle virtù di Nostro Signore. Prima fra tutte, l'umiltà: come quella che in particolare egli propose al nostro esempio. L'umiltà vi dispone a ricevere i doni che Dio vi tien preparati pel di' dell'Ordinazione: quando, ad esempio di Maria SS., a noi attribuiremo nient'altro che le miserie, e a Dio daremo tutto l'onore e la gloria.

Combattere la superbia

Tutti siamo tentati di superbia. Questa cattiva radice, al dire di S. Francesco di Sales, non morirà che con noi. Gli stessi Santi hanno avuto tentazioni di superbia. S. Francesco di Sales una volta udì lodare un Vescovo e in lui passò un sentimento d'invidia. "Appena me ne accorsi, - scrive - presi il rospo e lo scacciai". Un'altra volta gli fu domandato se si sarebbe fatto sacerdote, supposto che avesse avuto un Ducato. Egli rimase un po' perplesso a rispondere: il pensiero che forse avrebbe preferito il Ducato lo perseguitò qualche tempo. Accortosi però della follia di tale pensiero, lo rigettò subito da sé come tentazione.

Non bisogna quindi inquietarci troppo per queste tentazioni e per la loro molteplicità. La stessa pena che proviamo di averle è segno che non vi acconsentiamo. In due modi siamo tentati: quando facciamo qualcosa di bene, o quando ci capita di peccare od altri inconvenienti.

Per vincere la superbia dobbiamo pregare e usare i mezzi necessari. Questi sono: riferire al Signore ogni nostra azione, parola, pensiero fin dal mattino, e sovente nella giornata. Quando poi viene la tentazione, non stare a rompersi la testa. Diciamo nel nostro cuore o davanti al SS. Sacramento: "E' roba tua!... Dio solo!... Folle che sono!... Va indietro, satana!". Ciò si fa in un batter d'occhio, anche senza pronunciarlo con le labbra; è già inteso. Così si va avanti facendo sempre meglio. Quando poi le cose sono andate male, non bisogna fermarci ad esaminare. Diciamo: "Roba del mio orto!" e poi niente inquietudine. Così si vincerà la superbia e s'acquisterà l'umiltà.

La superbia, secondo S. Tommaso, può prendersi in due sensi (481): generale e particolare. In senso generale, come vizio capitale, entra in tutti i peccati, essendo ogni peccato una ribellione a Dio. In senso particolare vien definita da San Bernardo: "Amore disordinato alla propria eccellenza" (482). E cioè un amore disordinato di quelle qualità che possono essere in noi, o anche di tutto quello che è in noi. Come dell'umiltà, così della superbia non si ha sempre un'idea giusta. Non è superbia essere contento che una cosa vada bene, di pregare bene, ecc. E' l'amore disordinato che è male.

E quando è che quest'amore è disordinato? S. Tommaso, seguendo S. Gregorio, dice che si può peccare di superbia in quattro modi: a) Stimare i beni che abbiamo come cosa nostra. b) Ritenere come dovuto a noi per i nostri meriti ciò che Iddio ci ha elargito; mentre invece, dopo aver fatto il nostro dovere, dobbiamo dire: Siamo servi inutili (483). Non è il Signore che deve a noi, siamo noi che dobbiamo a Lui. c) Gloriarsi di ciò che si ha: per esempio dell'ingegno. d) Voler apparire singolari, disprezzando gli altri (484).

Tenete a mente queste quattro cose; servono per avere le idee giuste e ci facilitano l'esame di coscienza. Della superbia ne abbiamo tutti. Io non posso misurare quella di tutti voi, ma ognuno può misurarla, pesarla nel suo interno. La superbia ha molte facce, ossia manifestazioni. Essa è come l'idropico, il quale, gonfio per infermità, all'occhio inesperto appare un uomo robusto ed esuberante di salute. Perché guarisca è invece necessario che scompaia quel turgore. Così è della superbia: è appariscente, ma dannosa; fa comparire l'individuo, o meglio lo gonfia, ma è inganno ed è a sua rovina. Facciamo perciò il proponimento di voler vincere la superbia ad ogni costo.

giuseppeallamano.consolata.org