Missionari ad alta fedeltà

ANDENI P. LUIGI (1935-1998)

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Il “martirio”

Così lo descrive Padre Francesco Viotto, Superiore Regionale del Kenya: «Era martedì, 14 settembre 1998. Dopo cena p. Luigi, il diacono William Otieno e le 4 Suore Falmi s’incontrarono per valutare e pianificare l’attività pastorale della parrocchia. L’in­contro fu lungo, molto partecipato e positivo. Erano circa le 22.30 quando terminò, e le Suore ritornarono alla loro casa.

Il generatore di elettricità fu spento, p. Andeni e il Diacono Otieno sedette­ro sulla veranda, godendosi la fresca aria e facendo commenti sull’incon­tro. Erano appena trascorsi 5-10 minu­ti quando, improvvisamente, udirono dei passi e videro vicino a loro tre uo­mini in uniforme militare e due di loro armati di carabina. "Stendetevi a ter­ra" - ordinarono. Il Diacono si stese, il Padre con coraggio si alzò, andò verso di loro e chiese: "Chi siete? Donde venite? Che cosa volete?" A quanto sembra, essi lo colpirono con una "panga" e quindi gli spararono contro. Il Diacono, notando che nes­suno badava più a lui, scappò e andò dietro la casa a chiamare il guardiano, che non trovò. Si udirono due nuovi colpi, seguiti da forti lamenti.

I tre assassini se ne andarono senza toccare niente. Il Diacono tornò indie­tro, e vide il padre appoggiato contro il muro, con la mano sinistra contro l’addome e che, gemendo, disse: "mi hanno ucciso". Poi, facendo uno sfor­zo straordinario, andò fino alla casa delle suore, che dista circa 300 metri, chiedendo aiuto.

Le Suore avevano udito gli spari, ma subito non riconobbero la voce del Padre contraffatta dal dolore. Appena capirono chi era che chiamava, apriro­no la porta: p. Luigi entrò e crollò al suolo. Dopo pochi istanti si riprese e disse: "sto morendo". Poi continuò: "recitiamo insieme l’atto di dolore". Esse lo dissero, e continuarono con la Salve Regina.

Suor Matilde, l’infermiera, si rese immediatamente conto della gravità delle ferite, fece del suo meglio per tamponarle e ordinò di preparare subi­to la Land Rover per il suo trasporto all’ospedale di Wamba. Erano circa le 11 di notte.

La distanza dall’ospedale è di 70 km., ma la strada è molto dissestata, e l’automezzo procedette molto lenta­mente. P. Andeni soffriva terribilmente. Egli chiese a sr. Matilde e all’infermiera che gli erano accanto di continuare a pregare ad alta voce. Quando appena 6-7 km. li separavano ormai da Wam­ba, p. Andeni entrò nel riposo eterno.

A tutta velocità raggiunsero l’ospe­dale, chiamarono i medici che accorse­ro immediatamente, ma solo per con­statare l’avvenuto decesso e prendere nota della gravità delle ferite: una lun­ga nel braccio e mano destra, procurata da una panga affilata; la mano sinistra praticamente recisa da una pallottola che aveva spappolato completamente il braccio e il polso; un altro proiettile, entrato dal dorso, aveva trapassato tut­to il corpo uscendo davanti e causando un largo squarcio all’addome.

Il corpo di p. Andeni, composto in una stanza della casa dei Padri, fu to­sto meta di un ininterrotto pellegri­naggio: tutti volevano accostarsi per pregare e deporre un fiore».

L’avventura missionaria

Luigi Andeni nasce a Barbariga (BS), il 29 novembre 1935, da Francesco e Parolini Maria. Entra nell’Istituto dei Missionari della Consolata a Rosignano Monferrato nel 1953. Emette la sua prima professione religiosa il 2 ottobre 1959 e viene ordinato sacerdote il 19 dicembre 1964.

Spende i suoi primi cinque anni di sacerdozio, in Italia, come animatore missionario. Nel settembre del 1970 raggiunge il Kenya e viene destinato alla diocesi di Marsabit. Mons. Cavallera lo invia a Moyale come aiutante di p. Pronzali­no. Qui potrà dedicarsi allo studio del­lo swahili e avviarsi all’attività pasto­rale. È contento della sua destinazione e pieno di entusiasmo per il suo nuovo lavoro, e lo manifesta scrivendo a p. G. Motter, Vice Superiore Generale, nel mese di novembre: «Sono col rev. p. Pronzalino. Ci facciamo ottima compagnia nella ricerca di qualche proficua linea pastorale in questo am­biente completamente musulmano... farò del mio meglio per dare il mio modesto contributo alla crescita uma­na e cristiana dei nostri giovani cate­cumeni».

Dal 1972 al 1973 si incarica breve­mente della missione di Sololo in atte­sa che questa venga affidata ai Padri Comboniani. Un’esperienza alquanto sofferta per la situazione d’incertezza circa il passaggio delle consegne. Tut­tavia, durante gli esercizi spirituali, p. Andeni riconosce che il sentimento dominante del suo animo «è di profonda gratitudine al Signore, che mi ha aiutato e assistito, in modo per me straordinario, nella soluzione di tanti problemi e situazioni difficili». Viene, quindi, nominato Parroco di Archer’s Post dove lavorerà fino al 1979.

Nel settembre del 1975 parte per l’Ita­lia per le vacanze e ne approfitta per partecipare ad un corso di aggiorna­mento teologico, organizzato dai vari Istituti Missionari, e che lo terrà lonta­no dall’Africa fino alla Pasqua del 1976. Da questo corso ricaverà la con­vinzione che «il successo nell’aposto­lato non consiste proprio nel fare, quanto piuttosto nell’approfondire il proprio essere cristiano e sacerdotale per dare una vera testimonianza di amicizia con Cristo. E nel nostro am­biente di Marsabit ciò è molto impor­tante» (lettera a p. Baudena, Superiore Regionale del Kenya, - 6.11.1975).

Ritorno in Italia

Nel 1979 viene richiesto dai supe­riori per un altro periodo di lavoro in Italia. È una richiesta dura da accetta­re da chi ha già impostato un ampio lavoro pastorale e comincia a intrave­dere i primi segni positivi in risposta alle sue fatiche apostoliche. Tuttavia, cosciente di «appartenere ad un Istitu­to che ha il diritto e il dovere di essere aiutato nelle sue scelte coraggiose, per offrire sempre un autentico servizio alla Chiesa» e fra queste scelte vi è, prioritaria, la promozione vocaziona­le, e prende la dolorosa decisione: «Nel­la convinzione di fede che il Signore vuole in questo momento il mio servi­zio missionario nella Regione Italia, riaffermo la mia disponibilità per il rientro in Italia». (Lettera a p. Inverar­di, Superiore Generale, 20.9.1979).

In Italia offre il suo servizio come animatore missionario dapprima nella casa di Rovereto e, dal 1983, in quella di Vittorio Veneto. Sulla scia dei suoi predecessori, continua il lavoro capil­lare di animazione nelle scuole, par­rocchie, famiglie, nei ritiri, campeggi, ecc.. I risultati, come dice egli stesso, «non sono forse pari alla mole di la­voro fatto», ma quella era la realtà piuttosto difficile che si andava profi­lando nel campo dell’AMV. Cionono­stante egli considera «validissima l’at­tività di animazione per tenere viva a tutti i livelli, la coscienza missiona­ria».

Non c’è niente di più difficile che lavorare nel settore vocazionale; come sempre si è detto: «è come succhiare un chiodo», eppure p. Luigi crede profondamente all’importanza di que­sto servizio, al punto da dire che «nes­suno ha tanto a cuore il problema vo­cazionale come coloro che vi lavorano direttamente». E così, anche per lui, il lavorare per le vocazioni, l’assicurare altri missionari, rimane prioritario e urgente, più ancora della partenza per una data missione, partenza che natu­ralmente sogna e invoca.

Intervistato sulla sua esperienza missionaria in Africa, risponde: «Gioia e no­vità sono stati i sentimenti che hanno occupato il mio cuore appena arrivato in missione: gioia di essere giunto al traguardo, novità di trovarmi in un mondo totalmente diverso da quello lasciato alle spalle. Forte per me è sta­to l’impatto con l’ambiente musulma­no, la cultura locale, la lingua e il cli­ma tropicale. È stato stupendo consta­tare come questo mondo, pur così di­verso, fosse ugualmente ricco di valo­ri senza l’etichetta cristiana.

L’eroismo missionario della parten­za si colorava ora di aspetti molto concreti: studiare la lingua locale, in­contrare la gente dovunque: al merca­to, nei villaggi, per strada, nella scuo­la. Il tutto visto come condizione indi­spensabile per un qualunque lavoro di annuncio del vangelo».

In dieci anni di lavoro, p. Andeni non ha visto alcun cambiamento so­stanziale tra le popolazioni del deser­to, ancora molto ancorate alle loro tra­dizioni e abitudini, «eppure all’interno di esse qualcosa è avvenuto: è visibile un profondo desiderio di istruzione a tutti i livelli; i giovani guerrieri sono pronti a buttare la ‘chuka’ e la lancia se si offre loro un lavoro redditizio; la strada che congiunge l’equatore con l’estrema fascia nord del Kenya, ai confini con l’Etiopia, ha permesso lo­ro di muoversi e di venire a contatto con altre tribù dalla vita meno disagia­ta; gli avvenimenti politici e il fatto si­gnificativo della morte del primo Pre­sidente e l’elezione del nuovo, hanno maturato in essi una certa coscienza politica. La Chiesa e le missioni gio­cano un ruolo importante nell’educa­zione e nella formazione di una co­scienza civica e cristiana».

Formulando un giudizio complessi­vo sui primi dieci anni di lavoro in missione, p. Luigi narra: «Penso ai nu­merosi incontri nei villaggi, specie agli ultimi incontri di addio, nei quali ho avuto la misura della stima e ap­prezzamento che la gente ha verso il lavoro della missione nel campo cari­tativo e sociale. Trattandosi poi di un apostolato di primo approccio, non sa­prei dire a che profondità il messaggio cristiano sia stato recepito. Posso in­vece testimoniare una costante pratica religiosa e una soddisfacente vita sa­cramentale secondo l’insegnamento della Chiesa.

Il metodo pastorale è stato quello tradizionale nei suoi momenti di pre­evangelizzazione, catecumenato e vita cristiana. Senza dare valore assoluto ad alcun metodo, si avverte l’urgenza di una pastorale diversificata, rispon­dente ai bisogni di una popolazione che, nonostante l’incipiente sviluppo, è ancora nomade».

Ritorno in Kenya

Destinato nel 1985, la partenza avverrà a gennaio del 1986. Intanto freme di gioia e confida in una lettera a p. M. Barbero, Superiore Regionale, il suo desiderio di tornare a lavorare nella pastorale. Desiderio che diviene realtà essendo destinato di nuovo alla Diocesi di Marsabit, nella missione di Suguta Marmar, dove lavorerà per dieci anni consecutivi. Una grande missione con otto centri principali e innumerevoli villaggi.

Qui p. Luigi dà il meglio di sé nel lavoro pastorale di evangelizzazione e promozione umana. Con generosità e spirito d’intraprendenza riesce a met­tere insieme un esteso sistema di aiuto ai poveri, attività che esige un notevo­le onere finanziario mensile, causa di costante preoccupazione nella sua vi­ta. Tale realtà lo porta a farsi povero con i poveri risparmiando in tutto e cercando di trarre sempre il massimo profitto da ogni piccola risorsa di cui dispone. Questo suo stile non rende certo facili le relazioni con gli altri suoi collaboratori pastorali.

Nel 1996 torna in Italia per "ritem­prare" lo spirito e le membra durante l’anno sabbatico. Scrivendo per il "Da Casa Madre", afferma: «La rapidità dei cambiamenti nel mondo d’oggi impo­ne un aggiornamento specie per noi che dobbiamo dialogare con popoli di cultura diversa dalla nostra e in una nuova lingua. C’è però un altro moti­vo più profondo che ci fa capire la necessità di questa pausa nella nostra at­tività missionaria. Il Padre Fondatore soleva dire che il missionario non de­ve essere solo "canale", ma anche "conca", cioè non solo un pastore, un ministro del culto, un lavoratore, ma anche e principalmente un uomo di Dio, un uomo di vita interiore. E que­sto tempo di rinnovamento ci viene in aiuto per ricuperare lo spirito di pre­ghiera e le motivazioni di fondo che furono alla base della nostra scelta vo­cazionale di donazione a Dio e di ser­vizio ai fratelli... Per molti di noi, che per anni abbiamo vissuto in missione, lontano dai confratelli, questa parente­si di vita fraterna ci fa gustare ancora di più quanto è bello essere Missionari della Consolata».

Ad Archer’s Post

Da Roma scrive a p. F. Viotto, nuo­vo Superiore Regionale del Kenya, di­cendosi contento del suo servizio a Sukuta, dove «mi sono sentito realiz­zato e di cui ringrazio il Signore» (18.5.1996) e offre la sua piena dispo­nibilità per una nuova destinazione.

Effettivamente, a ottobre di quello stesso anno, prende servizio nella mis­sione di Archer’s Post, dove aveva la­vorato in precedenza. L’impatto con il clima è forte: da un clima fresco e sa­lubre passa a uno torrido, dove il cal­do e la malaria sono di casa. Natural­mente non parliamo di elettricità e te­lefono. Archer’s Post è sulla strada che porta al confine con l’Etiopia. Le strade polverose e sassose, sono un pericolo costante per chi deve viag­giare e gli incidenti sono frequenti. La siccità e l’aridità della terra rendono impensabile qualsiasi tipo di agricol­tura, per cui la gente, a parte quel po’ di capre e pecore che possiede, vive per lo più di espedienti, facendo og­getti ornamentali da vendere ai pochi turisti di passaggio.

Qui è forte la tentazione della popolazione di dipende­re dalla missione per aiuti di ogni ge­nere e non solo nelle persone anziane e povere, ma anche nei giovani che si vorrebbe più autonomi. Padre Luigi si fa in quattro per aiutare come può, con la distribuzione periodica di cibo ai poveri e offrendo ai giovani la possibilità di frequentare le scuole me­die e superiori o aprendo loro altre strade di vita, anche se ciò comporta il lasciare i loro villaggi e portarsi in altri distretti meno disagiati.

La presenza delle Suore Falmi per­mette l’assistenza medica ai villaggi e la gestione di un piccolo ospedale di 30 letti con dispensario. C’è pure l’asilo infantile con più di 200 bambi­ni, a cui viene offerto cibo e vestiti, oltre naturalmente, un’educazione cri­stiana.

Padre Luigi si circonda di un buon numero di collaboratori, catechisti e impiegati che lo aiutano a portare avanti tutte queste attività di evange­lizzazione e promozione umana. L’onere finanziario è grande, tale da scoraggiare l’impresario più ottimista. Ma non scoraggia lui che, pur attra­versando "momenti di sofferta preoc­cupazione", ha una grande fiducia nel­la Provvidenza alla quale cerca di dare una mano chiedendo, con lettere cir­colari periodiche, il sostegno di tanti amici e benefattori che ha conosciuto in Italia.

A rendere meno agevole il suo la­voro umanitario e di evangelizzazione si aggiunge, poi, anche l’assillo dell’insicurezza e dell’incolumità per­sonale. Frequenti sono, in questa re­gione, gli scontri tribali e le razzie di animali, con attacchi a mano armata. Sulle strade assolate avvengono spes­so assalti e fatti di violenza contro i passanti. Situazione di violenza dovu­ta certamente alla povertà e mancanza di mezzi di sussistenza, ma anche e soprattutto a criminali manovre politi­che in vista delle prossime elezioni presidenziali.

Così egli scrive, nel Natale del 1996, in una delle sue ultime lettere ad amici e benefattori: «Tutti questi fatti incresciosi che capitano in questa zona del Kenya ci convincono sempre di più che la vita missionaria di ieri come quella di oggi comporta sempre una somma di sacrifici che il Papa, con chiara intuizione, non dubita di chiamare testimonianza o martirio». Parole profetiche che due anni dopo, il 14 settembre 1998, si avverano per lui, quando la violenza omicida si ab­batte sulla sua persona consentendogli di dare l’ultima testimonianza: il dono della vita per i fratelli.

I funerali

I funerali di p. Andeni, si sono svolti nella chiesa di Maralal, cittadi­na-capitale del distretto Samburu e se­de di uno dei cimiteri dove vengono accolti i Missionari della Consolata e dove so­no già sepolti i p. Graif, p. Rabajoli e p. Musso. Erano presenti il Nunzio Apostoli­co, mons. Giovanni Tonucci, il Presi­dente della Conferenza Episcopale del Kenya e Vescovo di Embu, mons. Njue, l’Arcivescovo di Nyeri, mons. Kirima e, naturalmente, mons. Ravasi, Vescovo di Marsabit.

Attorno a loro c’era una corona di preti da tutta la diocesi e da molti cen­tri IMC. La chiesa dei Santi Pietro e Paolo era colma all’inverosimile, con un sacco di gente che seguiva da fuori con l’aiuto degli altoparlanti. Presenti anche le autorità locali. Erano arrivate grosse rappresentanze da Archer’s Po­st e da Suguta Marmar. La commozione era palpabile, an­che nei bambini. La cerimonia è dura­ta quasi tre ore, con interventi signifi­cativi da parte del Nunzio, degli altri Vescovi presenti, del nostro Regiona­le, p. F. Viotto, e di rappresentanti dei vari consigli parrocchiali e autorità ci­vili.

Mentre i rappresentanti delle comu­nità locali hanno chiesto perdono per quanto è accaduto, e pregato i missio­nari di non lasciarsi scoraggiare da questi avvenimenti, le autorità poli­tiche hanno cercato di ridurre l’avve­nimento ad un fatto di polizia, i Ve­scovi hanno, invece, chiaramente in­terpellato tutti, chiedendosi diversi perché.

Mons. Njue per primo ha incoraggiato la gente e soprattutto i missionari. "Non lasciatevi spaventare - ha detto - Voi siete chiamati ad essere profeti; non venite meno al vostro carisma. Noi, questa Chiesa, ha bisogno che voi continuiate a fare i profeti". Poi ha fortemente richiamato il Governo alla sua responsabilità: "quanta gente do­vrà ancora morire prima che sia rista­bilita la sicurezza nel paese?" I potenti applausi della gente alle sue interroga­zioni hanno rivelato chiaramente quanto tutti sentivano e condivideva­no. Il Nunzio ha rivolto quattro per­ché: alla gente, alla Chiesa, a Dio e al­le Autorità.

I quattro Vescovi, con toni e ap­procci diversi, hanno concordato nel sottolineare come la morte di p. Ande­ni rientri nel mistero del seme che de­ve morire per portare frutto e come il martirio faccia parte del bagaglio del missionario, rientri nel misterioso pia­no di Dio e nella logica di imitare Ge­sù fino in fondo. I Vescovi hanno poi esortato i cristiani a farsi carico, in modo non violento, della sicurezza dei loro missionari e delle missioni.

Nel 1965 hanno ucciso p. Stallone. Dissero che furono gli shifta. Chi so­no gli shifta? Nell’81 è stata la volta di p. Graiff. Dissero che furono gli ngorokos. Chi sono gli ngorokos? Og­gi è la volta di p. Andeni. Di chi sarà la colpa stavolta? Queste le domande poste con pacata amarezza da mons. Ravasi. Potenti applausi sottolineava­no queste domande, rivelando la par­tecipazione commossa della gente.

La presenza di due nipoti di p. An­deni ha fatto sentire fortemente la vi­cinanza con la sua famiglia. La gente ha pregato per loro e li ha ringraziati per il dono di questo missionario ge­neroso, integro e coraggioso. Alla fine della messa moltissimi so­no passati a toccare la sua bara, pronta per il lungo viaggio verso l’Italia. Era un saluto ancora pieno di incredulità, un gesto di perdono e di affetto».

Una testimonianza

“Mi sembra di vederlo ancora all’opera nel­la sua missione: cappellino bianco ca­lato in testa, mani salde sul volante dell’inseparabile 110 Land Rover, suora infermiera al fianco, medicine e cibarie nel cassone, è via... 135 chilo­metri per arrivare alla cappella più lontana... quattro ore di viaggio!

Ultimamente, alla normale preoc­cupazione per le forature, al rischio di rimanere impantanati, al problema di trasportare gli ammalati, alla possibi­lità che la macchina ti lasciasse a pie­di, si era aggiunta una nuova tensione: il rischio di essere fermati per strada da qualche balordo con kalashnikov spianato, a caccia di soldi facili. Ma questo non ha mai fermato lui e nep­pure nessuno gli altri missionari.

È stato nell’89, quando l’ho sosti­tuito per sei mesi nella sua amata mis­sione di Suguta Marmar, che mi sono reso conto di come i missionari come lui abbiano la capacità di far diventare normale l’eccezionale e come abbiano una marcia in più che li aiuta a convi­vere in cosciente serenità col pericolo. La settimana che siamo stati insieme, io ero un pivellino appena uscito dalla scuola di swahili e arrivato da pochi mesi dall’Italia. Lui mi ha portato in giro per farmi conoscere tutti e tastare la mia abilità di guida su quei terreni insoliti.

Di ricordo in ricordo. Festa della Consolata, 20 giugno. Suguta Mar­mar, dove è rimasto parroco per dieci anni, era dedicata alla Madonna Con­solata. Processione con fiaccolata la sera prima, messa solenne la mattina e grande pesca al pomeriggio. La pesca, attrazione della giornata, poteva anda­re avanti anche due giorni, fino a che tutto fosse finito. Un’occasione per poter distribuire ai poveri vestiti, uten­sili, quaderni e altri aiuti, senza offen­dere nessuno. E la sera, a conclusione, la grande lotteria con in palio un frigo, una TV di seconda mano, qualche bicicletta importata dall’India, una carriola, bi­doni per l’acqua, un bel paio di scar­pe, una macchina da cucire. Guardan­do all’animata assemblea era difficile indovinare chi si divertisse di più: la gente o lui che fingeva di fare il bur­berone.

Luigi Andeni potrebbe essere defi­nito così: un burbero benefico. Qual­che volta dimetteva poco cerimonio­samente qualche insistente questuante, ma aveva un’attenzione sopraffina ai bisogni della comunità e dei poveri. In tempo di fame faceva i salti mortali per avere sempre cibo a sufficienza da distribuire agli affamati. Quante lotte ha fatto con gli anziani affinché gli aiuti andassero davvero a chi aveva bisogno e non al parente del parente....

Era arrivato in Kenya il 20 settem­bre 1970. Aveva quasi 35 anni. Ha la­vorato in varie missioni, ma è a Sugu­ta Marmar che trascorse gli anni più belli della sua vita. Rinnova la missio­ne, costruisce nuove chiese nelle di­stantissime cappelle, ha tra le sue col­laboratrici le Suore di Madre Teresa, è attorniato da un buon gruppo di cate­chisti, promuove attività con la gio­ventù, con il dispensario mobile rag­giunge anche i villaggi più remoti, promuove l’amicizia e il dialogo tra i Samburu e i Turkana, dà un grosso impulso allo sviluppo delle scuole...

Alla fine del 1996 gli domandano un nuovo trasferimento. Ha appena fatto i sessant’anni; ritorna ad Ar­cher’s Post, sulla strada dell’est. E un posto molto più caldo e insalubre. Le distanze sono ancora maggiori che a Suguta. Lui ricomincia con il suo sor­riso, finché una pallottola ferma per sempre il suo passo contadino...

È morto pregando. Durante tutto l’ultimo penoso tragitto fino all’ospe­dale di Wamba non ha fatto altro che pregare. Niente maledizioni, nessun desiderio di vendetta... ha pregato per essere pronto all’ultimo trasferimen­to»

(P. G. Anataloni).

La missione vista con gli occhi di P. Luigi Andeni

Numerose sono le lettere che, con frequenza periodica, e il più delle vol­te in forma di circolare, p. Andeni ha scritto a parenti, amici e benefattori sparsi in tutt’Italia. In esse, più che parlare di se stesso, racconta la mis­sione, ma attraverso i suoi occhi che colgono le realtà tristi della fame o della violenza, i bisogni della povertà, il lavoro di formazione o la gioia di qualche conversione, si delinea l’im­magine di un uomo pienamente iden­tificato con la sua missione, che ne vi­ve fino in fondo le realtà di povertà e di miseria, che soffre nel non poter ri­solvere i problemi..., emerge la figura di un vero missionario, totalmente da­to alla causa del vangelo, spinto da amore senza limiti verso gli uomini suoi fratelli. Alcuni esempi:

Difficoltà negli spostamenti

«L’apostolato ha varie difficoltà da superare per ottenere le conversioni e per servire le comunità cristiane. An­dare a celebrare la messa abitualmente a 60 o 70 km. dalla chiesa parrocchia­le non è una cosa facile se si considera che le strade spesso non sono che del­le piste. In uno di questi viaggi, la scorsa settimana mi capitò l’imprevi­sto. A parte qualche escoriazione e tanta paura, non si ebbe alcun danno alle persone, ma la macchina ebbe il peggio; e questo non è poco» (27 maggio 1988).

Gioia per le conversioni

«Queste disavventure materiali si dimenticano volentieri quando poi ti giunge la notizia che qualcuno si vuo­le assicurare il Paradiso all’ultimo mi­nuto. La grazia singolare è toccata a Samuel, un vecchio samburu, che die­tro istruzione e insistenza della suora volle ricevere il battesimo e l’unzione degli infermi».

«Non posso non ricordare con profonda riconoscenza al Signore un avvenimento quanto mai importante e significativo dal punto di vista missio­nario. E cioè l’accoglienza nella Chie­sa cattolica di due coppie di sposi, l’una proveniente dagli Avventisti e l’altra dalla Chiesa protestante dell’Africa Orientale» (3.7.1986).

Fame e povertà

Padre Luigi sente profondamente la situazione di fame e miseria in cui versa la sua gente. In quasi tutte le sue lettere non dimentica di ragguagliare amici e benefattori sulle reiterate sta­gioni di siccità e quindi sul bisogno in cui versano i suoi cristiani.

«Sto ultimando la benedizione delle case, o meglio delle capanne di fango e paglia. Mentre recito le preghiere con loro, sono colpito dalla grande povertà di questa gente: tre pietre per il focolare, uno sgabello o due e, nell’angolo della capanna, il letto che spesso consiste in una specie di mate­rasso sulla nuda terra. Non sempre è caldo in questa regione del Kenya: si dà anche qui la stagione fredda e umi­da, soprattutto durante le piogge. Lo sbalzo di temperatura tra la notte ed il giorno, unito alla scarsità di indumenti che vestono, è causa di numerose ma­lattie broncopolmonari» (3 maggio 1986).

«Qui in Kenya, la siccità con tutte le sue conseguenze di fame e povertà è an­cora una triste realtà. In tutto l’arco dell’anno, nella zona dove mi trovo, si sono visti due semplici acquazzoni con nessuna incidenza sulle coltiva­zioni.

Le nostre missioni sono fortemente impegnate negli aiuti umanitari per sfamare la gente ... La corruzione an­che in Kenya è a livelli impensati e a farne le spese sono sempre i veri po­veri. Di questi la missione cerca di prendersi cura; quest’anno abbiamo speso la somma di 25 milioni per ac­quistare fagioli, olio, latte in polvere, senza contare i camion di granoturco ricevuto da agenzie europee.

L’aiutare va bene, ma non il pater­nalismo: di qui l’iniziativa di coinvol­gere gli stessi cristiani nello sforzo ca­ritativo verso i più poveri (Natale 1993).

«Sebbene l’aiuto sarà sempre necessa­rio, però crediamo che sia giunto il tempo di coinvolgere loro, di lasciare a loro la responsabilità di molte atti­vità. Da qualche mese ho iniziato in chiesa una seconda colletta, una volta al mese. Per che cosa e per chi questa raccolta? Per i poveri della missione, i quali non sono i poveri del padre o delle suore, ma sono i nostri poveri.

La cosa ha suscitato non poco stu­pore. Ora un po’ meno. È poco quello che si raccoglie, circa un 100 mila li­re, è sempre di più quello che aggiun­go io per la distribuzione di cibo setti­manale, però sono convinto che segni un passo avanti in quella crescita re­sponsabile della comunità cristiana verso i suoi poveri e i suoi malati, a farsi carico della loro assistenza» (Archer’s Post, 29 aprile 1998).

«Ho avviato la costruzione di un asilo e il rifacimento di due scuole-cappelle (due chiesette usate anche come scuo­la). I bambini che frequentano questi asili sono di famiglie in maggioranza povere. Uno dei pericoli di questi ra­gazzi è che imparano presto a fre­quentare la strada vivendo di espe­dienti ed è molto difficile che poi tor­nino indietro. Bisogna prevenirli con la scuola, l’educazione ed un buon pa­sto caldo al giorno» (Suguta Marmar, 8 dicembre 1994).

«La Giornata Missionaria Mondiale è celebrata anche in missione con parti­colare rilievo. Quando ero in Italia, per questa circostanza ero solito fare nu­merose prediche in varie parrocchie sul significato di questa giornata. Qui in missione pare sia la gente stessa a fare la predica. È commovente vedere la generosità di questi cristiani: anche se poveri arrivano a dare 20 scellini, l’equivalente di una giornata di lavoro.

Essi sanno che questa offerta straor­dinaria andrà a Roma agli uffici che presiedono l’attività dell’evangelizza­zione dei popoli, lieti di sapere che an­che col loro contributo molti altri fra­telli avranno la grazia di diventare cri­stiani. Per loro forse è più facile capire che se sono cristiani è perché altre per­sone hanno accettato di condividere il dono della fede con la testimonianza e col sacrificio della loro vita» (28 ottobre 1986).

«Il nuovo problema a cui intendo riferir­mi è il banditismo con precise conno­tazioni politiche e tribali. Gruppi di banditi, armati di fucili, coltelli e di ogni genere di armi offensive, entrano in un dato villaggio e con violenza uc­cidono, feriscono, bruciano e distrug­gono, lasciando dietro morti, feriti e danni incalcolabili... Per parlare sol­tanto del Distretto Samburu, villaggi interi sono letteralmente distrutti, la gente scappata, gli edifici di scuole, botteghe, chiese, sono abbandonati.

Seguendo le direttive del nostro Ve­scovo, tra cattolici abbiamo fatto di­verse liturgie penitenziali e di riconci­liazione, evidenziando l’assurdità de­gli odii e lotte tribali in contrasto con il vangelo e l’insegnamento della Chiesa. In che misura i nostri cristiani abbiano recepito questo messaggio ri­mane tutto da dimostrare. Per cui il Natale, inteso come impegno a vivere il messaggio di pace e di perdono ri­mane una provocazione anche per le nostre comunità cristiane» (8 dicembre 1997).

«La vita dei cittadini e di noi missionari è continuamente esposta all’insegna del pericolo e dell’insicurezza. I Vescovi hanno ripetutamente alzato la voce di condanna contro tante situazioni di in­giustizia, ma pare che restino voci inascoltate. La preghiera sembra l’unica risorsa in tanta confusione» (Archer’s Post, 29 aprile 1998).

«... Alla sera, ritornando a casa incon­trai alcuni cristiani di vecchia data che ricordavano con commozione e grati­tudine i padri e le suore che li avevano battezzati: di molti io ho appena senti­to il nome. Segno che anche qui la fe­de sta mettendo radici».

Suguta Marmar, dicembre 1991: «La diocesi di Marsabit dove ancora lavorano in maggioranza missionari esteri, il 22 settembre scorso ha vissu­to uno dei momenti più belli della sua breve storia: l’ordinazione sacerdotale di tre sacerdoti samburu. E proprio uno di questi è stato destinato alla missione di Suguta» (3 maggio 1986).

Richiesto di scrivere un articoletto vocazionale per la rivista "SE VUOI", di orientamento per i giovani, scrive quello che può considerarsi il suo Testamento Spirituale:

Archer’s Post, 8 maggio 1997: «So­no un missionario non di prima leva. Sono in missione da oltre 30 anni, e sono lieto di condividere con voi qual­cosa della mia vocazione. Dico qual­cosa perché sono convinto che la vo­cazione, anche per chi "racconta" la sua, rimane sempre qualcosa di misterioso. Però quel tanto di comprensibi­le è sufficiente a motivare una dona­zione a tempo pieno. Per me come per tanti altri missionari, se ci fosse ri­chiesto di dire cosa faremmo se do­vessimo ricominciare da capo, la ri­sposta sarebbe una sola: "ci faremmo nuovamente missionari"...

Era consuetudine che i missionari in partenza per le missioni passassero in seminario a salutare noi seminaristi e a condividere qualcosa della loro espe­rienza missionaria. Un certo padre Negro, originario della provincia di Cuneo, all’indirizzo di saluto disse queste brevi parole: "ho sentito che molti giovani, messi di fronte al passo del diaconato, tornano indietro!". E si interruppe non riuscendo a frenare le lacrime. Il fatto commosse molto... Dopo una quindicina di giorni, il Ret­tore, al momento degli avvisi, annun­ciava che il padre Negro era morto improvvisamente. La laconica notizia, oltre all’improvviso stupore, risuonò in me come un imperativo: tu andrai a prendere il suo posto!

Dopo questo fatto mi raccolsi in preghiera e sentii d’improvviso una serenità, una pace interiore, così inso­lita che non ebbi più dubbio di sorta sulla mia vocazione. La mia destina­zione, guarda caso, fu proprio il Kenya, là dove lavorò e morì p. Ne­gro, che io ho sempre considerato pa­trono speciale della mia vocazione. Da allora sono ancora missionario, lieto di spendermi per la causa del vangelo...

Per me la gioia più grande è stata la mia prima partenza per le missioni. Sì, perché la missione ha dato senso pie­no alla mia vita. Alla mia età, in Italia, già vanno in pensione, io invece qui non mi pongo neppure il problema. Finché la salute me lo permetterà, tut­ta la mia vita è e sarà per la missione, ogni giorno, ogni minuto, sempre.

La missione ieri e oggi, domani e sempre ha bisogno di giovani a tempo pieno, proprio perché si tratta non di un progetto umano, ma del Padre. Co­me dice il Papa, la missione è ben lon­tana dall’essere compiuta! Anzi, guardando ai grandi e gravi problemi del mondo di oggi, la missione - egli afferma - è ancora agli inizi. E come se Gesù venisse nuovamente a dirci: "la messe è molta, gli operai sono po­chi, vuoi darmi una mano?"

Tutte le vocazioni sono belle, ma quella missionaria per me è la più bel­la; parlo per esperienza, credetemi. Ciao a tutti!».

giuseppeallamano.consolata.org