Così lo descrive Padre Francesco Viotto, Superiore Regionale del Kenya: «Era martedì, 14 settembre 1998. Dopo cena p. Luigi, il diacono William Otieno e le 4 Suore Falmi s’incontrarono per valutare e pianificare l’attività pastorale della parrocchia. L’incontro fu lungo, molto partecipato e positivo. Erano circa le 22.30 quando terminò, e le Suore ritornarono alla loro casa.
Il generatore di elettricità fu spento, p. Andeni e il Diacono Otieno sedettero sulla veranda, godendosi la fresca aria e facendo commenti sull’incontro. Erano appena trascorsi 5-10 minuti quando, improvvisamente, udirono dei passi e videro vicino a loro tre uomini in uniforme militare e due di loro armati di carabina. "Stendetevi a terra" - ordinarono. Il Diacono si stese, il Padre con coraggio si alzò, andò verso di loro e chiese: "Chi siete? Donde venite? Che cosa volete?" A quanto sembra, essi lo colpirono con una "panga" e quindi gli spararono contro. Il Diacono, notando che nessuno badava più a lui, scappò e andò dietro la casa a chiamare il guardiano, che non trovò. Si udirono due nuovi colpi, seguiti da forti lamenti.
I tre assassini se ne andarono senza toccare niente. Il Diacono tornò indietro, e vide il padre appoggiato contro il muro, con la mano sinistra contro l’addome e che, gemendo, disse: "mi hanno ucciso". Poi, facendo uno sforzo straordinario, andò fino alla casa delle suore, che dista circa 300 metri, chiedendo aiuto.
Le Suore avevano udito gli spari, ma subito non riconobbero la voce del Padre contraffatta dal dolore. Appena capirono chi era che chiamava, aprirono la porta: p. Luigi entrò e crollò al suolo. Dopo pochi istanti si riprese e disse: "sto morendo". Poi continuò: "recitiamo insieme l’atto di dolore". Esse lo dissero, e continuarono con la Salve Regina.
Suor Matilde, l’infermiera, si rese immediatamente conto della gravità delle ferite, fece del suo meglio per tamponarle e ordinò di preparare subito la Land Rover per il suo trasporto all’ospedale di Wamba. Erano circa le 11 di notte.
La distanza dall’ospedale è di 70 km., ma la strada è molto dissestata, e l’automezzo procedette molto lentamente. P. Andeni soffriva terribilmente. Egli chiese a sr. Matilde e all’infermiera che gli erano accanto di continuare a pregare ad alta voce. Quando appena 6-7 km. li separavano ormai da Wamba, p. Andeni entrò nel riposo eterno.
A tutta velocità raggiunsero l’ospedale, chiamarono i medici che accorsero immediatamente, ma solo per constatare l’avvenuto decesso e prendere nota della gravità delle ferite: una lunga nel braccio e mano destra, procurata da una panga affilata; la mano sinistra praticamente recisa da una pallottola che aveva spappolato completamente il braccio e il polso; un altro proiettile, entrato dal dorso, aveva trapassato tutto il corpo uscendo davanti e causando un largo squarcio all’addome.
Il corpo di p. Andeni, composto in una stanza della casa dei Padri, fu tosto meta di un ininterrotto pellegrinaggio: tutti volevano accostarsi per pregare e deporre un fiore».
Luigi Andeni nasce a Barbariga (BS), il 29 novembre 1935, da Francesco e Parolini Maria. Entra nell’Istituto dei Missionari della Consolata a Rosignano Monferrato nel 1953. Emette la sua prima professione religiosa il 2 ottobre 1959 e viene ordinato sacerdote il 19 dicembre 1964.
Spende i suoi primi cinque anni di sacerdozio, in Italia, come animatore missionario. Nel settembre del 1970 raggiunge il Kenya e viene destinato alla diocesi di Marsabit. Mons. Cavallera lo invia a Moyale come aiutante di p. Pronzalino. Qui potrà dedicarsi allo studio dello swahili e avviarsi all’attività pastorale. È contento della sua destinazione e pieno di entusiasmo per il suo nuovo lavoro, e lo manifesta scrivendo a p. G. Motter, Vice Superiore Generale, nel mese di novembre: «Sono col rev. p. Pronzalino. Ci facciamo ottima compagnia nella ricerca di qualche proficua linea pastorale in questo ambiente completamente musulmano... farò del mio meglio per dare il mio modesto contributo alla crescita umana e cristiana dei nostri giovani catecumeni».
Dal 1972 al 1973 si incarica brevemente della missione di Sololo in attesa che questa venga affidata ai Padri Comboniani. Un’esperienza alquanto sofferta per la situazione d’incertezza circa il passaggio delle consegne. Tuttavia, durante gli esercizi spirituali, p. Andeni riconosce che il sentimento dominante del suo animo «è di profonda gratitudine al Signore, che mi ha aiutato e assistito, in modo per me straordinario, nella soluzione di tanti problemi e situazioni difficili». Viene, quindi, nominato Parroco di Archer’s Post dove lavorerà fino al 1979.
Nel settembre del 1975 parte per l’Italia per le vacanze e ne approfitta per partecipare ad un corso di aggiornamento teologico, organizzato dai vari Istituti Missionari, e che lo terrà lontano dall’Africa fino alla Pasqua del 1976. Da questo corso ricaverà la convinzione che «il successo nell’apostolato non consiste proprio nel fare, quanto piuttosto nell’approfondire il proprio essere cristiano e sacerdotale per dare una vera testimonianza di amicizia con Cristo. E nel nostro ambiente di Marsabit ciò è molto importante» (lettera a p. Baudena, Superiore Regionale del Kenya, - 6.11.1975).
Nel 1979 viene richiesto dai superiori per un altro periodo di lavoro in Italia. È una richiesta dura da accettare da chi ha già impostato un ampio lavoro pastorale e comincia a intravedere i primi segni positivi in risposta alle sue fatiche apostoliche. Tuttavia, cosciente di «appartenere ad un Istituto che ha il diritto e il dovere di essere aiutato nelle sue scelte coraggiose, per offrire sempre un autentico servizio alla Chiesa» e fra queste scelte vi è, prioritaria, la promozione vocazionale, e prende la dolorosa decisione: «Nella convinzione di fede che il Signore vuole in questo momento il mio servizio missionario nella Regione Italia, riaffermo la mia disponibilità per il rientro in Italia». (Lettera a p. Inverardi, Superiore Generale, 20.9.1979).
In Italia offre il suo servizio come animatore missionario dapprima nella casa di Rovereto e, dal 1983, in quella di Vittorio Veneto. Sulla scia dei suoi predecessori, continua il lavoro capillare di animazione nelle scuole, parrocchie, famiglie, nei ritiri, campeggi, ecc.. I risultati, come dice egli stesso, «non sono forse pari alla mole di lavoro fatto», ma quella era la realtà piuttosto difficile che si andava profilando nel campo dell’AMV. Ciononostante egli considera «validissima l’attività di animazione per tenere viva a tutti i livelli, la coscienza missionaria».
Non c’è niente di più difficile che lavorare nel settore vocazionale; come sempre si è detto: «è come succhiare un chiodo», eppure p. Luigi crede profondamente all’importanza di questo servizio, al punto da dire che «nessuno ha tanto a cuore il problema vocazionale come coloro che vi lavorano direttamente». E così, anche per lui, il lavorare per le vocazioni, l’assicurare altri missionari, rimane prioritario e urgente, più ancora della partenza per una data missione, partenza che naturalmente sogna e invoca.
Intervistato sulla sua esperienza missionaria in Africa, risponde: «Gioia e novità sono stati i sentimenti che hanno occupato il mio cuore appena arrivato in missione: gioia di essere giunto al traguardo, novità di trovarmi in un mondo totalmente diverso da quello lasciato alle spalle. Forte per me è stato l’impatto con l’ambiente musulmano, la cultura locale, la lingua e il clima tropicale. È stato stupendo constatare come questo mondo, pur così diverso, fosse ugualmente ricco di valori senza l’etichetta cristiana.
L’eroismo missionario della partenza si colorava ora di aspetti molto concreti: studiare la lingua locale, incontrare la gente dovunque: al mercato, nei villaggi, per strada, nella scuola. Il tutto visto come condizione indispensabile per un qualunque lavoro di annuncio del vangelo».
In dieci anni di lavoro, p. Andeni non ha visto alcun cambiamento sostanziale tra le popolazioni del deserto, ancora molto ancorate alle loro tradizioni e abitudini, «eppure all’interno di esse qualcosa è avvenuto: è visibile un profondo desiderio di istruzione a tutti i livelli; i giovani guerrieri sono pronti a buttare la ‘chuka’ e la lancia se si offre loro un lavoro redditizio; la strada che congiunge l’equatore con l’estrema fascia nord del Kenya, ai confini con l’Etiopia, ha permesso loro di muoversi e di venire a contatto con altre tribù dalla vita meno disagiata; gli avvenimenti politici e il fatto significativo della morte del primo Presidente e l’elezione del nuovo, hanno maturato in essi una certa coscienza politica. La Chiesa e le missioni giocano un ruolo importante nell’educazione e nella formazione di una coscienza civica e cristiana».
Formulando un giudizio complessivo sui primi dieci anni di lavoro in missione, p. Luigi narra: «Penso ai numerosi incontri nei villaggi, specie agli ultimi incontri di addio, nei quali ho avuto la misura della stima e apprezzamento che la gente ha verso il lavoro della missione nel campo caritativo e sociale. Trattandosi poi di un apostolato di primo approccio, non saprei dire a che profondità il messaggio cristiano sia stato recepito. Posso invece testimoniare una costante pratica religiosa e una soddisfacente vita sacramentale secondo l’insegnamento della Chiesa.
Il metodo pastorale è stato quello tradizionale nei suoi momenti di preevangelizzazione, catecumenato e vita cristiana. Senza dare valore assoluto ad alcun metodo, si avverte l’urgenza di una pastorale diversificata, rispondente ai bisogni di una popolazione che, nonostante l’incipiente sviluppo, è ancora nomade».
Destinato nel 1985, la partenza avverrà a gennaio del 1986. Intanto freme di gioia e confida in una lettera a p. M. Barbero, Superiore Regionale, il suo desiderio di tornare a lavorare nella pastorale. Desiderio che diviene realtà essendo destinato di nuovo alla Diocesi di Marsabit, nella missione di Suguta Marmar, dove lavorerà per dieci anni consecutivi. Una grande missione con otto centri principali e innumerevoli villaggi.
Qui p. Luigi dà il meglio di sé nel lavoro pastorale di evangelizzazione e promozione umana. Con generosità e spirito d’intraprendenza riesce a mettere insieme un esteso sistema di aiuto ai poveri, attività che esige un notevole onere finanziario mensile, causa di costante preoccupazione nella sua vita. Tale realtà lo porta a farsi povero con i poveri risparmiando in tutto e cercando di trarre sempre il massimo profitto da ogni piccola risorsa di cui dispone. Questo suo stile non rende certo facili le relazioni con gli altri suoi collaboratori pastorali.
Nel 1996 torna in Italia per "ritemprare" lo spirito e le membra durante l’anno sabbatico. Scrivendo per il "Da Casa Madre", afferma: «La rapidità dei cambiamenti nel mondo d’oggi impone un aggiornamento specie per noi che dobbiamo dialogare con popoli di cultura diversa dalla nostra e in una nuova lingua. C’è però un altro motivo più profondo che ci fa capire la necessità di questa pausa nella nostra attività missionaria. Il Padre Fondatore soleva dire che il missionario non deve essere solo "canale", ma anche "conca", cioè non solo un pastore, un ministro del culto, un lavoratore, ma anche e principalmente un uomo di Dio, un uomo di vita interiore. E questo tempo di rinnovamento ci viene in aiuto per ricuperare lo spirito di preghiera e le motivazioni di fondo che furono alla base della nostra scelta vocazionale di donazione a Dio e di servizio ai fratelli... Per molti di noi, che per anni abbiamo vissuto in missione, lontano dai confratelli, questa parentesi di vita fraterna ci fa gustare ancora di più quanto è bello essere Missionari della Consolata».
Da Roma scrive a p. F. Viotto, nuovo Superiore Regionale del Kenya, dicendosi contento del suo servizio a Sukuta, dove «mi sono sentito realizzato e di cui ringrazio il Signore» (18.5.1996) e offre la sua piena disponibilità per una nuova destinazione.
Effettivamente, a ottobre di quello stesso anno, prende servizio nella missione di Archer’s Post, dove aveva lavorato in precedenza. L’impatto con il clima è forte: da un clima fresco e salubre passa a uno torrido, dove il caldo e la malaria sono di casa. Naturalmente non parliamo di elettricità e telefono. Archer’s Post è sulla strada che porta al confine con l’Etiopia. Le strade polverose e sassose, sono un pericolo costante per chi deve viaggiare e gli incidenti sono frequenti. La siccità e l’aridità della terra rendono impensabile qualsiasi tipo di agricoltura, per cui la gente, a parte quel po’ di capre e pecore che possiede, vive per lo più di espedienti, facendo oggetti ornamentali da vendere ai pochi turisti di passaggio.
Qui è forte la tentazione della popolazione di dipendere dalla missione per aiuti di ogni genere e non solo nelle persone anziane e povere, ma anche nei giovani che si vorrebbe più autonomi. Padre Luigi si fa in quattro per aiutare come può, con la distribuzione periodica di cibo ai poveri e offrendo ai giovani la possibilità di frequentare le scuole medie e superiori o aprendo loro altre strade di vita, anche se ciò comporta il lasciare i loro villaggi e portarsi in altri distretti meno disagiati.
La presenza delle Suore Falmi permette l’assistenza medica ai villaggi e la gestione di un piccolo ospedale di 30 letti con dispensario. C’è pure l’asilo infantile con più di 200 bambini, a cui viene offerto cibo e vestiti, oltre naturalmente, un’educazione cristiana.
Padre Luigi si circonda di un buon numero di collaboratori, catechisti e impiegati che lo aiutano a portare avanti tutte queste attività di evangelizzazione e promozione umana. L’onere finanziario è grande, tale da scoraggiare l’impresario più ottimista. Ma non scoraggia lui che, pur attraversando "momenti di sofferta preoccupazione", ha una grande fiducia nella Provvidenza alla quale cerca di dare una mano chiedendo, con lettere circolari periodiche, il sostegno di tanti amici e benefattori che ha conosciuto in Italia.
A rendere meno agevole il suo lavoro umanitario e di evangelizzazione si aggiunge, poi, anche l’assillo dell’insicurezza e dell’incolumità personale. Frequenti sono, in questa regione, gli scontri tribali e le razzie di animali, con attacchi a mano armata. Sulle strade assolate avvengono spesso assalti e fatti di violenza contro i passanti. Situazione di violenza dovuta certamente alla povertà e mancanza di mezzi di sussistenza, ma anche e soprattutto a criminali manovre politiche in vista delle prossime elezioni presidenziali.
Così egli scrive, nel Natale del 1996, in una delle sue ultime lettere ad amici e benefattori: «Tutti questi fatti incresciosi che capitano in questa zona del Kenya ci convincono sempre di più che la vita missionaria di ieri come quella di oggi comporta sempre una somma di sacrifici che il Papa, con chiara intuizione, non dubita di chiamare testimonianza o martirio». Parole profetiche che due anni dopo, il 14 settembre 1998, si avverano per lui, quando la violenza omicida si abbatte sulla sua persona consentendogli di dare l’ultima testimonianza: il dono della vita per i fratelli.
I funerali di p. Andeni, si sono svolti nella chiesa di Maralal, cittadina-capitale del distretto Samburu e sede di uno dei cimiteri dove vengono accolti i Missionari della Consolata e dove sono già sepolti i p. Graif, p. Rabajoli e p. Musso. Erano presenti il Nunzio Apostolico, mons. Giovanni Tonucci, il Presidente della Conferenza Episcopale del Kenya e Vescovo di Embu, mons. Njue, l’Arcivescovo di Nyeri, mons. Kirima e, naturalmente, mons. Ravasi, Vescovo di Marsabit.
Attorno a loro c’era una corona di preti da tutta la diocesi e da molti centri IMC. La chiesa dei Santi Pietro e Paolo era colma all’inverosimile, con un sacco di gente che seguiva da fuori con l’aiuto degli altoparlanti. Presenti anche le autorità locali. Erano arrivate grosse rappresentanze da Archer’s Post e da Suguta Marmar. La commozione era palpabile, anche nei bambini. La cerimonia è durata quasi tre ore, con interventi significativi da parte del Nunzio, degli altri Vescovi presenti, del nostro Regionale, p. F. Viotto, e di rappresentanti dei vari consigli parrocchiali e autorità civili.
Mentre i rappresentanti delle comunità locali hanno chiesto perdono per quanto è accaduto, e pregato i missionari di non lasciarsi scoraggiare da questi avvenimenti, le autorità politiche hanno cercato di ridurre l’avvenimento ad un fatto di polizia, i Vescovi hanno, invece, chiaramente interpellato tutti, chiedendosi diversi perché.
Mons. Njue per primo ha incoraggiato la gente e soprattutto i missionari. "Non lasciatevi spaventare - ha detto - Voi siete chiamati ad essere profeti; non venite meno al vostro carisma. Noi, questa Chiesa, ha bisogno che voi continuiate a fare i profeti". Poi ha fortemente richiamato il Governo alla sua responsabilità: "quanta gente dovrà ancora morire prima che sia ristabilita la sicurezza nel paese?" I potenti applausi della gente alle sue interrogazioni hanno rivelato chiaramente quanto tutti sentivano e condividevano. Il Nunzio ha rivolto quattro perché: alla gente, alla Chiesa, a Dio e alle Autorità.
I quattro Vescovi, con toni e approcci diversi, hanno concordato nel sottolineare come la morte di p. Andeni rientri nel mistero del seme che deve morire per portare frutto e come il martirio faccia parte del bagaglio del missionario, rientri nel misterioso piano di Dio e nella logica di imitare Gesù fino in fondo. I Vescovi hanno poi esortato i cristiani a farsi carico, in modo non violento, della sicurezza dei loro missionari e delle missioni.
Nel 1965 hanno ucciso p. Stallone. Dissero che furono gli shifta. Chi sono gli shifta? Nell’81 è stata la volta di p. Graiff. Dissero che furono gli ngorokos. Chi sono gli ngorokos? Oggi è la volta di p. Andeni. Di chi sarà la colpa stavolta? Queste le domande poste con pacata amarezza da mons. Ravasi. Potenti applausi sottolineavano queste domande, rivelando la partecipazione commossa della gente.
La presenza di due nipoti di p. Andeni ha fatto sentire fortemente la vicinanza con la sua famiglia. La gente ha pregato per loro e li ha ringraziati per il dono di questo missionario generoso, integro e coraggioso. Alla fine della messa moltissimi sono passati a toccare la sua bara, pronta per il lungo viaggio verso l’Italia. Era un saluto ancora pieno di incredulità, un gesto di perdono e di affetto».
“Mi sembra di vederlo ancora all’opera nella sua missione: cappellino bianco calato in testa, mani salde sul volante dell’inseparabile 110 Land Rover, suora infermiera al fianco, medicine e cibarie nel cassone, è via... 135 chilometri per arrivare alla cappella più lontana... quattro ore di viaggio!
Ultimamente, alla normale preoccupazione per le forature, al rischio di rimanere impantanati, al problema di trasportare gli ammalati, alla possibilità che la macchina ti lasciasse a piedi, si era aggiunta una nuova tensione: il rischio di essere fermati per strada da qualche balordo con kalashnikov spianato, a caccia di soldi facili. Ma questo non ha mai fermato lui e neppure nessuno gli altri missionari.
È stato nell’89, quando l’ho sostituito per sei mesi nella sua amata missione di Suguta Marmar, che mi sono reso conto di come i missionari come lui abbiano la capacità di far diventare normale l’eccezionale e come abbiano una marcia in più che li aiuta a convivere in cosciente serenità col pericolo. La settimana che siamo stati insieme, io ero un pivellino appena uscito dalla scuola di swahili e arrivato da pochi mesi dall’Italia. Lui mi ha portato in giro per farmi conoscere tutti e tastare la mia abilità di guida su quei terreni insoliti.
Di ricordo in ricordo. Festa della Consolata, 20 giugno. Suguta Marmar, dove è rimasto parroco per dieci anni, era dedicata alla Madonna Consolata. Processione con fiaccolata la sera prima, messa solenne la mattina e grande pesca al pomeriggio. La pesca, attrazione della giornata, poteva andare avanti anche due giorni, fino a che tutto fosse finito. Un’occasione per poter distribuire ai poveri vestiti, utensili, quaderni e altri aiuti, senza offendere nessuno. E la sera, a conclusione, la grande lotteria con in palio un frigo, una TV di seconda mano, qualche bicicletta importata dall’India, una carriola, bidoni per l’acqua, un bel paio di scarpe, una macchina da cucire. Guardando all’animata assemblea era difficile indovinare chi si divertisse di più: la gente o lui che fingeva di fare il burberone.
Luigi Andeni potrebbe essere definito così: un burbero benefico. Qualche volta dimetteva poco cerimoniosamente qualche insistente questuante, ma aveva un’attenzione sopraffina ai bisogni della comunità e dei poveri. In tempo di fame faceva i salti mortali per avere sempre cibo a sufficienza da distribuire agli affamati. Quante lotte ha fatto con gli anziani affinché gli aiuti andassero davvero a chi aveva bisogno e non al parente del parente....
Era arrivato in Kenya il 20 settembre 1970. Aveva quasi 35 anni. Ha lavorato in varie missioni, ma è a Suguta Marmar che trascorse gli anni più belli della sua vita. Rinnova la missione, costruisce nuove chiese nelle distantissime cappelle, ha tra le sue collaboratrici le Suore di Madre Teresa, è attorniato da un buon gruppo di catechisti, promuove attività con la gioventù, con il dispensario mobile raggiunge anche i villaggi più remoti, promuove l’amicizia e il dialogo tra i Samburu e i Turkana, dà un grosso impulso allo sviluppo delle scuole...
Alla fine del 1996 gli domandano un nuovo trasferimento. Ha appena fatto i sessant’anni; ritorna ad Archer’s Post, sulla strada dell’est. E un posto molto più caldo e insalubre. Le distanze sono ancora maggiori che a Suguta. Lui ricomincia con il suo sorriso, finché una pallottola ferma per sempre il suo passo contadino...
È morto pregando. Durante tutto l’ultimo penoso tragitto fino all’ospedale di Wamba non ha fatto altro che pregare. Niente maledizioni, nessun desiderio di vendetta... ha pregato per essere pronto all’ultimo trasferimento»
(P. G. Anataloni).
Numerose sono le lettere che, con frequenza periodica, e il più delle volte in forma di circolare, p. Andeni ha scritto a parenti, amici e benefattori sparsi in tutt’Italia. In esse, più che parlare di se stesso, racconta la missione, ma attraverso i suoi occhi che colgono le realtà tristi della fame o della violenza, i bisogni della povertà, il lavoro di formazione o la gioia di qualche conversione, si delinea l’immagine di un uomo pienamente identificato con la sua missione, che ne vive fino in fondo le realtà di povertà e di miseria, che soffre nel non poter risolvere i problemi..., emerge la figura di un vero missionario, totalmente dato alla causa del vangelo, spinto da amore senza limiti verso gli uomini suoi fratelli. Alcuni esempi:
«L’apostolato ha varie difficoltà da superare per ottenere le conversioni e per servire le comunità cristiane. Andare a celebrare la messa abitualmente a 60 o 70 km. dalla chiesa parrocchiale non è una cosa facile se si considera che le strade spesso non sono che delle piste. In uno di questi viaggi, la scorsa settimana mi capitò l’imprevisto. A parte qualche escoriazione e tanta paura, non si ebbe alcun danno alle persone, ma la macchina ebbe il peggio; e questo non è poco» (27 maggio 1988).
«Queste disavventure materiali si dimenticano volentieri quando poi ti giunge la notizia che qualcuno si vuole assicurare il Paradiso all’ultimo minuto. La grazia singolare è toccata a Samuel, un vecchio samburu, che dietro istruzione e insistenza della suora volle ricevere il battesimo e l’unzione degli infermi».
«Non posso non ricordare con profonda riconoscenza al Signore un avvenimento quanto mai importante e significativo dal punto di vista missionario. E cioè l’accoglienza nella Chiesa cattolica di due coppie di sposi, l’una proveniente dagli Avventisti e l’altra dalla Chiesa protestante dell’Africa Orientale» (3.7.1986).
Padre Luigi sente profondamente la situazione di fame e miseria in cui versa la sua gente. In quasi tutte le sue lettere non dimentica di ragguagliare amici e benefattori sulle reiterate stagioni di siccità e quindi sul bisogno in cui versano i suoi cristiani.
«Sto ultimando la benedizione delle case, o meglio delle capanne di fango e paglia. Mentre recito le preghiere con loro, sono colpito dalla grande povertà di questa gente: tre pietre per il focolare, uno sgabello o due e, nell’angolo della capanna, il letto che spesso consiste in una specie di materasso sulla nuda terra. Non sempre è caldo in questa regione del Kenya: si dà anche qui la stagione fredda e umida, soprattutto durante le piogge. Lo sbalzo di temperatura tra la notte ed il giorno, unito alla scarsità di indumenti che vestono, è causa di numerose malattie broncopolmonari» (3 maggio 1986).
«Qui in Kenya, la siccità con tutte le sue conseguenze di fame e povertà è ancora una triste realtà. In tutto l’arco dell’anno, nella zona dove mi trovo, si sono visti due semplici acquazzoni con nessuna incidenza sulle coltivazioni.
Le nostre missioni sono fortemente impegnate negli aiuti umanitari per sfamare la gente ... La corruzione anche in Kenya è a livelli impensati e a farne le spese sono sempre i veri poveri. Di questi la missione cerca di prendersi cura; quest’anno abbiamo speso la somma di 25 milioni per acquistare fagioli, olio, latte in polvere, senza contare i camion di granoturco ricevuto da agenzie europee.
L’aiutare va bene, ma non il paternalismo: di qui l’iniziativa di coinvolgere gli stessi cristiani nello sforzo caritativo verso i più poveri (Natale 1993).
«Sebbene l’aiuto sarà sempre necessario, però crediamo che sia giunto il tempo di coinvolgere loro, di lasciare a loro la responsabilità di molte attività. Da qualche mese ho iniziato in chiesa una seconda colletta, una volta al mese. Per che cosa e per chi questa raccolta? Per i poveri della missione, i quali non sono i poveri del padre o delle suore, ma sono i nostri poveri.
La cosa ha suscitato non poco stupore. Ora un po’ meno. È poco quello che si raccoglie, circa un 100 mila lire, è sempre di più quello che aggiungo io per la distribuzione di cibo settimanale, però sono convinto che segni un passo avanti in quella crescita responsabile della comunità cristiana verso i suoi poveri e i suoi malati, a farsi carico della loro assistenza» (Archer’s Post, 29 aprile 1998).
«Ho avviato la costruzione di un asilo e il rifacimento di due scuole-cappelle (due chiesette usate anche come scuola). I bambini che frequentano questi asili sono di famiglie in maggioranza povere. Uno dei pericoli di questi ragazzi è che imparano presto a frequentare la strada vivendo di espedienti ed è molto difficile che poi tornino indietro. Bisogna prevenirli con la scuola, l’educazione ed un buon pasto caldo al giorno» (Suguta Marmar, 8 dicembre 1994).
«La Giornata Missionaria Mondiale è celebrata anche in missione con particolare rilievo. Quando ero in Italia, per questa circostanza ero solito fare numerose prediche in varie parrocchie sul significato di questa giornata. Qui in missione pare sia la gente stessa a fare la predica. È commovente vedere la generosità di questi cristiani: anche se poveri arrivano a dare 20 scellini, l’equivalente di una giornata di lavoro.
Essi sanno che questa offerta straordinaria andrà a Roma agli uffici che presiedono l’attività dell’evangelizzazione dei popoli, lieti di sapere che anche col loro contributo molti altri fratelli avranno la grazia di diventare cristiani. Per loro forse è più facile capire che se sono cristiani è perché altre persone hanno accettato di condividere il dono della fede con la testimonianza e col sacrificio della loro vita» (28 ottobre 1986).
«Il nuovo problema a cui intendo riferirmi è il banditismo con precise connotazioni politiche e tribali. Gruppi di banditi, armati di fucili, coltelli e di ogni genere di armi offensive, entrano in un dato villaggio e con violenza uccidono, feriscono, bruciano e distruggono, lasciando dietro morti, feriti e danni incalcolabili... Per parlare soltanto del Distretto Samburu, villaggi interi sono letteralmente distrutti, la gente scappata, gli edifici di scuole, botteghe, chiese, sono abbandonati.
Seguendo le direttive del nostro Vescovo, tra cattolici abbiamo fatto diverse liturgie penitenziali e di riconciliazione, evidenziando l’assurdità degli odii e lotte tribali in contrasto con il vangelo e l’insegnamento della Chiesa. In che misura i nostri cristiani abbiano recepito questo messaggio rimane tutto da dimostrare. Per cui il Natale, inteso come impegno a vivere il messaggio di pace e di perdono rimane una provocazione anche per le nostre comunità cristiane» (8 dicembre 1997).
«La vita dei cittadini e di noi missionari è continuamente esposta all’insegna del pericolo e dell’insicurezza. I Vescovi hanno ripetutamente alzato la voce di condanna contro tante situazioni di ingiustizia, ma pare che restino voci inascoltate. La preghiera sembra l’unica risorsa in tanta confusione» (Archer’s Post, 29 aprile 1998).
«... Alla sera, ritornando a casa incontrai alcuni cristiani di vecchia data che ricordavano con commozione e gratitudine i padri e le suore che li avevano battezzati: di molti io ho appena sentito il nome. Segno che anche qui la fede sta mettendo radici».
Suguta Marmar, dicembre 1991: «La diocesi di Marsabit dove ancora lavorano in maggioranza missionari esteri, il 22 settembre scorso ha vissuto uno dei momenti più belli della sua breve storia: l’ordinazione sacerdotale di tre sacerdoti samburu. E proprio uno di questi è stato destinato alla missione di Suguta» (3 maggio 1986).
Richiesto di scrivere un articoletto vocazionale per la rivista "SE VUOI", di orientamento per i giovani, scrive quello che può considerarsi il suo Testamento Spirituale:
Archer’s Post, 8 maggio 1997: «Sono un missionario non di prima leva. Sono in missione da oltre 30 anni, e sono lieto di condividere con voi qualcosa della mia vocazione. Dico qualcosa perché sono convinto che la vocazione, anche per chi "racconta" la sua, rimane sempre qualcosa di misterioso. Però quel tanto di comprensibile è sufficiente a motivare una donazione a tempo pieno. Per me come per tanti altri missionari, se ci fosse richiesto di dire cosa faremmo se dovessimo ricominciare da capo, la risposta sarebbe una sola: "ci faremmo nuovamente missionari"...
Era consuetudine che i missionari in partenza per le missioni passassero in seminario a salutare noi seminaristi e a condividere qualcosa della loro esperienza missionaria. Un certo padre Negro, originario della provincia di Cuneo, all’indirizzo di saluto disse queste brevi parole: "ho sentito che molti giovani, messi di fronte al passo del diaconato, tornano indietro!". E si interruppe non riuscendo a frenare le lacrime. Il fatto commosse molto... Dopo una quindicina di giorni, il Rettore, al momento degli avvisi, annunciava che il padre Negro era morto improvvisamente. La laconica notizia, oltre all’improvviso stupore, risuonò in me come un imperativo: tu andrai a prendere il suo posto!
Dopo questo fatto mi raccolsi in preghiera e sentii d’improvviso una serenità, una pace interiore, così insolita che non ebbi più dubbio di sorta sulla mia vocazione. La mia destinazione, guarda caso, fu proprio il Kenya, là dove lavorò e morì p. Negro, che io ho sempre considerato patrono speciale della mia vocazione. Da allora sono ancora missionario, lieto di spendermi per la causa del vangelo...
Per me la gioia più grande è stata la mia prima partenza per le missioni. Sì, perché la missione ha dato senso pieno alla mia vita. Alla mia età, in Italia, già vanno in pensione, io invece qui non mi pongo neppure il problema. Finché la salute me lo permetterà, tutta la mia vita è e sarà per la missione, ogni giorno, ogni minuto, sempre.
La missione ieri e oggi, domani e sempre ha bisogno di giovani a tempo pieno, proprio perché si tratta non di un progetto umano, ma del Padre. Come dice il Papa, la missione è ben lontana dall’essere compiuta! Anzi, guardando ai grandi e gravi problemi del mondo di oggi, la missione - egli afferma - è ancora agli inizi. E come se Gesù venisse nuovamente a dirci: "la messe è molta, gli operai sono pochi, vuoi darmi una mano?"
Tutte le vocazioni sono belle, ma quella missionaria per me è la più bella; parlo per esperienza, credetemi. Ciao a tutti!».