Missionari ad alta fedeltà

BARBERO P. ANTONIO (1928 - 1982)

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Note biografiche

Nato a Marene, in provincia di Cuneo, il 12 febbraio 1928, entrò nell’Istituto nel 1941, quando aveva tredici anni, e visse le tappe della formazione missionaria nelle seguenti case: Varallo Sesia, per gli studi ginnasiali; Cereseto Monferrato, per il liceo e la filosofia; Certosa di Pesio, per il noviziato; Torino per la teologia. Ordinato sacerdote il 20 giugno, festa della Consolata, de­1954, venne destinato al seminario minore di Benevagienna, dove attese per quattro anni alla formazione degli aspiranti come insegnante e poi come vicerettore.

Nel 1961 raggiunse il Canada. Qui prestò servizio nella nostra parrocchia della Consolata, a Montreal, attendendo in particolare alla pastorale giovanili. Quattro anni dopo, nel 1965, fu richiamato in Italia per la direzione spiritual del nostro seminario maggiore di Torino, passando poi a Bevera in qualità di superiore, fino a quando fu destinato allo Zaire, che raggiunse verso la fine del 1972 con il primo gruppo di confratelli colà inviati.

È nei dieci anni di vita missionaria in Africa che Padre Antonio ha saputo dare il meglio di se stesso. Per le sue qualità di intelligenza e di cuore, si trova proposto dagli stessi compagni quale capogruppo e poi superiore della nascente delegazione. Grazie alla sua guida illuminata e serena, furono felicemente superati i primi anni di adattamento al nuovo ambiente.

Svolgendo il compito di superiore, Padre Antonio fu anche esempio di laboriosità e di zelo apostolico, conquistandosi la fiducia e l’ammirazione dei vescovi locali, che gli affidarono la cura degli importanti centri di Doruma e Bangadi fino al 1976, anno in cui si trasferì a Isiro per organizzarvi la procura, che sarebbe poi divenuta sede della delegazione.

Nel 1979, all’apparire dei primi sintomi del male, fu costretto a rientra in Italia e sottoporsi a un primo intervento chirurgico, dopo il quale ebbe soddisfazione di ritornare sul campo di lavoro. Ma si trattò di un miglioramento effimero, che durò neppure un anno. Nel 1981 era nuovamente in Italia per partecipare al VII capitolo generale. La recrudescenza della malattia lo costrinse invece a sottoporsi a un nuovo quanto vano intervento, e la partecipazione effettiva al capitolo, per il quale offerse le sue sofferenze, si limitò ai giorni dell’elezione della nuova direzione generale.

Trascorse gli ultimi mesi della sua vita lavorando, sia pure a distanza, per le sue missioni e per i suoi confratelli, che aveva sempre desiderato raggiun­gere. Il 9 febbraio 1982 scorso, amorevolmente assistito dai suoi fratelli Padre Mario e Padre Masino, si spegneva nell’infermeria della Casa Madre, a 54 anni, di cui 31 vissuti nella consacrazione religiosa e 27 nel ministero sacerdotale.

TESTIMONIANZE

Il suo ricordo

L’undici febbraio 1982, alle 14,30, la chiesa di San Lorenzo, Fossano, è gremita all’inverosimile. L’ora è inconsueta, ma l’avvenimento pure: il vescovo di Fossano, mons. Severino Poletto, celebra l’Eucaristia di suffragio a P. An­tonio Barbero, assieme ad una ventina di missionari della Consolata e di sacer­doti della Chiesa locale.

P. Antonio Barbero, nato 1’11 febbraio 1928 in questa frazione del cu­neese, compie oggi 54 anni... e sosta ancora un poco accanto alla sua gente che ha tanto amato. Venuto all’Istituto giovanissimo, vi frequenta tutti i corsi fino a ricevere l’ordinazione sacerdotale, il 20 giugno 1954.

Svolge la sua attività prima a Benevagienna, poi nel Canada dove ha modo di qualificarsi nell’azione parrocchiale e giovanile; tutti gli vogliono bene. È quindi direttore spirituale nel nostro seminario di Torino, e poi passa l’ultimo periodo in Italia come superiore della casa di Bevera. La sua presenza tra i gio­vani allievi è bene accetta; sa entrare nel profondo. Molti tra di noi 1a ricor­deranno con immensa simpatia ed affetto.

Finalmente può realizzare il suo anelito missionario partendo per lo Zaire, il 2 agosto 1972. Guida la prima spedizione in quella nazione che ha raggiunto l’indipendenza attraverso sanguinose lotte, che coinvolsero tanti missionari fino all’effusione del sangue. In difficili condizioni, sa trovare le vie giuste. Verrà in eseguito nominato superiore delegato. È padre di tutti; gli africani gli vogliono bene e corrispondono alle sue preoccupazioni evangeliche.

Ottimista inveterato, can amabile spregiudicatezza, pipa in bocca e barba in pieno, apre strade già preparate con la dedizione personale che stimola gli altri senza avvedersene. Rifioriscano le cristianità dopo le bufere delle perse­cuzioni e dei Simba. Ma nel 1979 deve fare ritorno in patria e sottoporsi a dolorosi interventi che fanno temere per la sua vita. I dottori non davano spe­ranza, ma lui ne aveva tanta, e ritornò in Zaire il 20 giugno 1980, festa della Consolata.

Riprende a lavorare come se « nulla fosse successo ». Miracolo? Gioia di vivere? Coscienza di appartenere a Cristo e questo Crocifisso? Forse un poco di tutto questo; ma il male subdolo lo obbliga a rientrare il 7 giugno del 1981.

Avrebbe dovuto partecipare al capitolo che l’Istituto celebrava in quei giorni Roma, ma deve infilare le vie dell’ospedale. Tornato in Casa Madre lo vediamo presto girare, magari in pigiama: con la pipa in bocca, svolge pratiche per 1’invio di materiale allo Zaire; in camera prepara filmine con didascalie in lingua indigena per i catechisti ed i missionari. Cerca cooperatori laici. Riprende a guidar la macchina e non si sa mai dove sia. Fa conto di essere di nuovo in missione a Natale. Preferirebbe morire là, consapevole di ciò che l’attende. Ma è consigliato a non tentare l’impossibile. Intanto il male avanza. Per 18 giorni vien sostenuto con flebo; continua a parlare con tutti e di tutto fuorché di se stesso, si direbbe che nella vicenda lui proprio non c’entri. I suoi fratelli vengono a condividere l’ultima tappa: prima Padre Masino, poi, Padre Mario appena eletto superiore regionale del Kenya.

Infine tre giorni di coma, meglio dire agonia. Polso e temperatura normale. Occhi chiusi, respiro di chi non può più ne manco ingoiare la saliva. La vita si ferma alle 2 del 9 febbraio 1982.

Nella mattinata del 10, viene celebrata l’Eucaristia nella cappella del Fondatore, dove, nel 1954, era stato ordinato sacerdote. La presiede il superiore generale dell’Istituto, P. Giuseppe Inverardi. Sono all’altare una cinquantina e più di missionari e un certo numero di sacerdoti diocesani. La chiesa è stipatissima, come di rado si vede. Molti visi noti, molti ignoti; sono tutti amici di Padre Antonio: poveri malati in carrozzella. Padre Antonio aveva l’arte di farsi degli amici; dove passava, lasciava il ricordo gioviale e sereno di una vita che crede a quei valori che la fanno bella. Il padre generale commenta la lettera che ultimamente aveva inviato a Padre Antonio, non potendo essergli vicino. Un linguaggio di fede e di famiglia. È un « arrivederci ».

Alle 14 il furgone funebre preleva la bara e la porta alla chiesa di San Lorenzo: i parenti desiderano che Padre Antonio sia posto nel cimitero dove riposano i familiari. Molti sanlorenzesi passano a pregare vicino alla salma. Poi, il giorno 11, festa della Madonna di Lourdes e compleanno di Padre Antonio, tutti fanno ressa nella chiesa troppo piccola. E mons. vescovo, con parole di padre e di pastore, presenta all’omelia il grazie a Padre Antonio per il dono della su vita. Il seme che cade nel solco e muore, questo solo porta frutto.

Padre Mario trova parole di congedo e di ringraziamento appropriate e sentite; soprattutto chiede al Signore la grazia che vocazioni religiose e missionarie « vengano a prendere il posto del fratello ». Papà e mamma ascoltano attenti e commossi, nel primo banco, la parola del figlio. Ne hanno dati tre alla Chiesa. Adesso uno « è tornato a casa »; ma tutti si sentono missionari con lui.

Riposa in pace e grazie per averci insegnato che si può morire nel pieno della vita, con semplicità e luminosa speranza.

P. Giuseppe Mina

“Beato Antonio”

La notizia che ormai si temeva, ma che mai si avrebbe voluto ricevere, arrivò a Bangadi la sera del 9 febbraio 1982: Padre Antonio è morto! Il giorno dopo, di buona mattina, il gudu-gudu (tam-tam) della missione rimbomba per la vallata annunciando che una persona ci ha lasciato. Ma chi? Padre Antonio! Ognuno, alla sua maniera, esprime il suo sgomento.

A Bangadi padre Antonio era stato l’anello di congiunzione tra i padri Agostiniani belgi che si ritiravano per mancanza di personale e i Padri della Con­solata che a loro succedevano. Era stato il primo superiore della missione « con i Padri italiani ». Qui aveva passato solo due anni (ottobre 1976 - giugno 1978), ma due anni molto intensi, tanto che parlando con la gente del posto si sente ripetere « ai tempi di Padre Antonio », un Padre insomma di quelli che hanno lasciato il segno!

Il giovedì 11 febbraio, verso sera, quando il sole comincia a placarsi, ci troviamo per celebrare il santo sacrificio per lui e per i suoi cari. I bambini per i quali tra l’altro Padre Antonio aveva voluto la costruzione delle scuole, sono là in prima fila con i maestri, catechisti, fratelli, suore e un buon gruppo di cristiani che hanno saputo della celebrazione (molti in questo periodo sono lon­tani, in brousse, per la caccia e la pesca).

Presiede la concelebrazione il vescovo mons. Aiti, che nella omelia ci parla del Padre Antonio «beato», perché ha dato la vita per coloro che avevano fame e sete, che erano nudi e prigionieri: dal volto dei poveri che sono presenti con le loro stampelle e carrozzelle vedo che le parole penetrano profondamente nei cuori.

Nella preghiera dei fedeli, chi vuole esprimere la propria intenzione ne ha la possibilità: si prega per il padre che ci ha lasciato, per i suoi genitori, parenti ed amici, per noi stessi affinché sappiamo seguire il suo esempio. La preghiera dei fedeli è finita, siamo già all’offertorio, eppure una povera donnetta anziana, in zande, chiama ancora Padre Antonio perché ascolti anche lei...

Così, semplicemente ma sentitamente, abbiamo ricordato Padre Antonio, che fu tra noi e ci ha preceduti nel Signore. Conoscendo il suo carattere e il suo stile di vita, penso che dall’alto ci avrà sorriso e contraccambierà con qualche speciale aiuto: ne abbiamo bisogno!

P. Fedele Crippa

Caro Padre Antonio,

mi è più facile scriverti ora che quando eri in lotta con la malattia, quando sfidavi sorella morte in un tremendo e sfibrante « braccio di ferro ». Allora non sapevo proprio che dirti all’infuori dei soliti auguri di circostanza; il tuo co­raggio mi sembrava perfino sovrumano e, sono sicuro che, se negli ultimi tuoi mesi ti avessi incontrato di persona, ancora una volta saresti stato tu a darmi forza, a consigliarmi suoi problemi di ogni giorno con la praticità che ti carat­terizzava. Non avresti fatto altro che domandarmi di missioni, di persone, di situazioni: in una parola di... Zaire!

Da te ho capito cos’è la sete di missione, il mal d’Africa; e fino all’ultimo il mal d’Africa è stato più forte e ha umiliato il male fisico: quello che non per­dona e del quale abbiamo perfino paura di pronunciare il nome.

Il tuo comportamento durante i due anni di malattia mi ha fatto pensare a quella frase biblica, che prima consideravo un po’ come una domanda retorica e sublimante: dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Dov’è, o morte, la tua vittoria?

Antonio, il « braccio di ferro » è concluso, ma il vincitore sei tu; hai lottato e vinto anche per noi, che spesso cediamo le armi tanto facilmente. Grazie

Un tuo confratello dello Zaire

Sapeva ascoltare

Viene da chiederci quale sia stato il movente che ha fatto accorrere tanti gente al capezzale di Padre Antonio, durante le degenze negli ospedali e nell’infermeria di Casa Madre.

La larga partecipazione alla recita del rosario e alla messa di suffragio ha sorpreso tutti. Come mai Padre Antonio, lui così modesto e contenuto, parco di parole, mai chiassoso, ha saputo circondarsi di tanti amici? Già da seminarista non lo si vedeva mai ai primi posti; preferiva stare dietro, dopo gli altri. Rari erano gli interventi, evitava le discussioni accese. Si sarebbe detto che la sua delizia stesse nell’ascoltare. Ecco il segreto di tanti numerosi amici, che come anelli concentrici in uno specchio d’acqua, si sono stretti a lui, quando era ormai certo che se ne sarebbe andato.

La sua arte: ascoltare, meditare, ponderare e rispondere con un sorriso. Parole brevi, con voce pacata, sommessa. E così faceva presa sugli animi. La su modestia, il suo silenzio, il suo ascolto, suscitavano ammirazione, amicizia, amore. Saper ascoltare, soprattutto i piccoli e i sofferenti, come accadde quando venne a Torino per la teologia. Fu allora che incominciarono i primi contatti coi gli ammalati del Cottolengo, che si faceva subito amici e accompagnava a Lourdes con i pellegrinaggi dell’Unitalsi. Con loro pregava, meditava, soffriva, con dividendone il sacrificio e l’offerta.

Saper ascoltare per lavorare in profondità e senza rumore, come la rugiada nelle calde notti d’estate. Te ne accorgi solo dopo, quando camminando nel prato ti chini a cogliere un fiore.

P. Carlo Gabbia compagno di ordinazioni

... era buono

Sono una ragazza di 21 anni e Padre Antonio era il mio professore di religione in prima media dieci anni fa. Quando ho letto di lui sul giornale noi volevo credere e con la memoria sono andata a quel periodo felice della mi vita, a quei tre anni di scuola media dai Padri di Bevera.

Ricordo che Padre Barbero prima di partire dette a noi alunni la sua foto scattata col Papa Paolo VI. Disse a noi della nostra classe: « Quando tornerò tra cinque anni dalla mia missione, voi ragazze avrete il moroso, voi ragazzi i primi peli della barba ed io qualche capello grigio; vi ricorderò sempre e anche voi ricordatevi di me ».

Non ho più visto Padre Barbero da quella volta, altri sono stati i miei professori di religione, ma di lui mi ricordo in modo particolare perché era buono. Chissà se i miei compagni di allora si riconosceranno tali in questa mia lettera e se si ricorderanno del Padre; spero di sì. Ha fatto tanto bene e tutti gli dobbiamo riconoscenza. Questo è un saluto particolare a lui, da me e da tutti coloro che lo hanno conosciuto nelle classi a parlare di Dio e della sua mera­vigliosa missione.

Maria Assunta Ratti - Bevera

Al Capitolo

P. Antonio Barbero se n’è andato dopo essersi lasciato docilmente pilotare da Dio durante i mesi di attesa, consapevole e cosciente, della morte. Lo ricordo durante i giorni del capitolo generale e lo rivedo al suo posto in sala capitolare, con quel suo volto magro, raffinato dal cancro, e quella sua barba nera che lo incorniciava.

Lo osservavo di tanto in tanto perché, ovviamente, la relazione con un uomo per il quale la morte sta per arrivare suscita sempre un interesse particolare. Mi rendevo conto che il suo modo di vivere, di partecipare al lavoro in quei po­chissimi giorni che gli fu possibile, non era quello rassegnato di chi sa di andare alla deriva, ma rassomigliava all’attività di chi ha un saldo futuro davanti e una lunga vita. La sua espressione mi evocava qualche volta quella di Giovanni il Battista e qualche altra quella di Cristo. Senza mostrarlo e senza esprimerlo, gli si stava attorno per imparare da uno che fa l’esperienza di come si muore.

Si dice che il cancro abbatta le sue vittime e che anche la speranza più viva venga incrinata, quando il corpo è tutto sfibrato dalla sofferenza. Padre Barbero irradiava invece una serenità così spontanea, che si stentava a credere che per lui non ci fosse più nulla da fare. Non si notava quel disinteresse delle cose, quel senso di depressione o di mestizia, proprio di chi si sente morire. E nep­pure appariva quella certa artificiosità che si riscontra in chi tenta di non mo­strare ciò che lo prova intimamente, la sua angoscia, la sua paura della morte.

Concelebrava al mattino con i padri capitolari e da ciò si capiva che era un uomo che reggeva bene alla preghiera. Lì si riforniva di quella forza che ristorava lui e gli altri. Alla preghiera dei fedeli interveniva portandovi la brousse dello Zaire; non rimaneva seduto quando gli altri erano in piedi; gli si stava accanto, sbir­ciandolo di tanto in tanto per vedere se fosse più pallido del solito, per sugge­rirgli di non eccedere. Erano attenzioni che apprezzava e faceva capire che se fosse stato necessario le avrebbe seguite.

A colazione era piacevole, seppur commovente, rimanere con lui. Metteva insieme un pezzo di pane e una fetta di prosciutto e lo assaporava sorridendo. Diceva che i medici gli avevano restaurato lo stomaco in modo piuttosto dra­stico, riducendolo a poca cosa. Doveva rassegnarsi a mangiar poco e spesso. E si sorseggiava la sua tazza di caffè, mantenendo sempre viva la conversazione.
Si inoltrava in sala capitolare, la sua pipa in bocca, producendo qualche svo­lazzo di fumo. Costituiva quella pipa, accesa o spenta, un accessorio inseparabile. Le sedute capitolari erano laboriose e impegnative, ma Padre Barbero, per quel poco che poté; ci tenne a parteciparvi. Anche lui cercava, progettava, pro­poneva, contribuendo con l’apporto della sua esperienza di missione. Non erano interventi eccezionali, ma l’eccezionale era lui, che si lasciava coinvolgere come se non avesse mai dovuto morire.

Ho ritrovato in lui, vissuta al presente, la storia edificante che i predica­tori di un tempo non mancavano di narrarci, quando svolgevano il tema della morte. Si riferivano a San Luigi che, richiesto durante la ricreazione che cosa avrebbe fatto se avesse saputo di dover morire entro un quarto d’ora, aveva risposto che avrebbe continuato a giocare. Fu esattamente così per Padre Bar­bero, che sapendo di morire entro breve tempo, continuò a fare ciò che doveva, con naturalezza, senza apprensione o ribellione alla volontà di Dio.

Adesso che è morto, torna spontaneo il suo ricordo. La sua partenza lascia un senso di solitudine, di rimpianto e di nostalgia; ma anche di riconoscenza per ciò che ci ha insegnato.

P. Giovanni Bonzanino (Etiopia)

Amato dal Signore

Ci ha lasciati il 9 febbraio scorso, a 54 anni, nel pieno della maturità e dell’entusiasmo missionario. È partito da noi quasi in punta di piedi, con la serenità che gli è stata compagna per tutta la vita. Il Signore l’ha chiamato per la via della croce, con il male del nostro secolo, che accompagna passo passo verso la morte, mettendo a prova la forza della fede, la robustezza della spe­ranza, soprattutto la capacità di pronunciare il « sì » dell’amore alla misteriosa volontà del Padre.

Che cosa dire del Padre Antonio? Come sintetizzare la sua esistenza ter­rena, non lunga ma piena e intensa? Il corso della sua vita si può riassumere in queste parole: il Signore lo ha amato ed egli ha saputo credere e rispondere a questo amore. L’amore di Dio alle sue creature si manifesta nei doni che concede loro. Dio arricchì Padre An­tonio di splendide qualità umane, cristiane, sacerdotali e missionarie, che resero piena la sua vita, l’hanno fatto amare da tutti coloro che ha incontrato e gli hanno permesso di donarsi con serenità e bontà fino alla fine.

Il Signore lo ha amato dandogli la gioia di realizzare la sua vocazione mis­sionaria in tre continenti: in Europa, attendendo alla formazione di altri missionari in tre nostri seminari d’Italia: Benevagienna, Torino e Bevera; in Nord America, vivendo le sue prime esperienze pastorali nella parrocchia della Con­solata di Montreal, in Canada; e in Africa, nelle missioni dello Zaire, che egli raggiunse quando l’Istituto vi iniziava il suo servizio missionario, assumendo la cura pastorale prima nella grande missione di Doruma e poi in quella di Bàn­gadi. Superiore apprezzato e ben voluto dai confratelli e amatissimo dagli afri­cani, spese in Zaire una decina d’anni, fino a quando la malattia lo costrinse a rientrare in patria.

Fu una partenza dolorosa, ma non senza ritorno. Appena le condizioni di salute glielo permisero, ripartì. Fu costretto a rimpatriare dopo un anno per il riapparire dei sintomi del male e partecipò come poté al Capitolo Generale, sempre sostenuto dalla speranza di ritornare tra i suoi cristiani e i suoi con­fratelli. Ma non tornò più. Si accontentò di lavorare per essi fin che le forze glielo permisero, offrendo negli ultimi giorni le sue sofferenze e la sua vita.
Così Padre Antonio ha risposto all’amore del Signore: rendendosi dispo­nibile a tutto, non risparmiandosi nel lavoro, seminando ovunque bontà e se­renità e consegnandosi poi alla morte che il Signore gli aveva preparato. Ab­biamo seguito con amore e dolore il cammino da lui fatto verso la Casa del Padre, nei suoi ultimi mesi trascorsi nell’infermeria della Casa Madre. Quan­ta serenità, quanto pudore nel parlare di sé, delle sue sofferenze!

Il suo pensiero correva alle missioni dello Zaire, ne parlava con calore e si dava da fare per ottenere aiuti e collaborazione. Collaborò alla mostra-ven­dita che gli Amici delle Missioni di Torino organizzarono nel dicembre 1981 in favore del suo Zaire; e subito dopo scrisse loro una commossa lettera di rin­graziamento. Si era nella festa dell’Immacolata: due mesi prima della sua morte.

Fra i doni che Dio concesse al Padre Antonio c’è anche quello della sua famiglia, una magnifica famiglia cristiana. Ne teneva la fotografia presso il letto e non si saziò di contemplarla fin che morì. L’ultimo incontro con i ge­nitori ebbe il sapore di un doloroso congedo, sofferto e accettato da ambo le parti per amore del Signore. Avrebbe immaginato il Padre Antonio che i suoi funerali in Casa Madre sarebbero caduti il giorno del 57° anniversario di noz­ze di mamma e papà? Avrebbero immaginato i genitori che i funerali al pae­se natale, S. Lorenzo di Fossano, sarebbero caduti il giorno del 54° complean­no del loro figlio?

Altro passo altrettanto triste e sofferto: il distacco dalla sorella e dai tre fratelli, di cui due missionari della Consolata come lui: Padre Masino, che lasciò la Spagna per stargli vicino nelle ultime settimane, e Padre Mario, su­periore dei nostri missionari in Kenya, accorso appena in tempo per farsi ri­conoscere dal fratello morente; il suo fu l’ultimo volto umano che Padre An­tonio contemplò sulla terra.

Ora che ci ha lasciati, pur nel dolore e nella tristezza di averlo perso, sen­tiamo il bisogno di ringraziare il Signore per avercelo dato.

P. Mario Bianchi

Animo sereno

P. Antonio possedeva una serenità d’animo, frutto certamente di una vita costante, senza alti e bassi, di preghiera e sacrificio.

L’ho incontrato quando giovane sacerdote era a Benevagienna, assistente ai ragazzi aspiranti; durante le vacanze estive del 1957, io ero studente di terza teo­logia, lo sostituii per tutto il mese di luglio. I suoi ragazzi mi parlavano di lui.

Poi lo rividi durante le mie prime vacanze in patria, reduce dal Kenya; P. Antonio era Vicedirettore dei professi del seminario maggiore in Casa Madre. Era lui che sapeva equilibrare gli slanci e la depressione dei chierici in quel clima bur­rascoso del dopo concilio. E molti chierici devono a questa sua serenità d’animo la perseveranza nella vita missionaria.

Ricordo inoltre le visite di P. Antonio, da solo o con alcuni chierici, al Cot­tolengo: i suoi preferiti erano i più bisognosi e i più abbandonati; in un reparto mi pare quello di S. Lucia, tutti parlavano di lui, lavoravano per lui, erano più buoni perché lui lo voleva.

Questa serenità, che fu una costante della sua vita, era basata su una fede che traspariva nella sua vita spirituale e affascinava gli animi delle persone che incontrava sollevandole ad una vita più buona.

 P. A. Giordano

 

Profilo interiore

P. Antonio ha lasciato parecchi scritti spirituali, provenienti soprattutto dalle riflessioni maturate nel corso dei suoi Esercizi Spirituali annuali. Iniziamo da alcuni pensieri scritti nel diario spirituale al momento dell’Ordinazione (1954).

Dio costruisce la nostra santità valorizzando l’uomo.

Dio costruisce la nostra santità mediante la Grazia innestata col Battesimo nella  natura umana. E, Grazia, è la vita di Dio immersa in me.! È il Dio Santo che è venuto ad abitare la mia anima col Battesimo. Di conseguenza, farmi santo non è un dovere che io possa abbracciare o meno senza rendermi responsabile dinnanzi a Dio; ma è un comando esplicito di Gesù: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli”, a cui sono obbligato con titolo nuovo mediante la professione. Mi obbliga la mia triplice vocazione, sacerdotale, missionaria e religiosa e il fine dell’Istituto che ho abbracciato di mia volontà, la conversione degli infedeli. Le anime si salvano con la santità.

Non si tratta di apparire santi: il sale diluito, è un qualche cosa che dona sapore, ma che non si vede. Tutto poi è di mio personale interesse: avrò la pace del cuore nella proporzione con la quale mi dono completamente al Signore…

Sarai sacerdote nella misura in cui ti immergi in Cristo, in proporzione che egli diventa il tuo io…

Dovere: sacerdote  = sacrificio. Il sacrificio è legge di ogni successo. La gloria di Dio si nutre di sacrificio. Se cerchi il tuo individualismo, perdi la tua vera personalità e il tuo scopo stesso nel creato. Se perdi ti trovi… “chi ama la sua vita la perderà, chi la odia la troverà”, dice Gesù nel Vangelo.

Ciò che immolo nella natura sono le scorie, ciò che trovo è frutto della Grazia che mi uniforma a Dio. Farò con tutto il cuore ciò che con tutto il cuore non vorrei fare.

Finché c’è in noi un eccesso di prudenza per non perdere nulla dei miei diritti, finché la volontà ha capricci estranei all’unione con Dio – fantasia di sì e di noi – restiamo sempre allo stato di infanzia… e troviamo noi stessi, senza pace e senza gioia. La Madonna che ha formato il Gesù storico, formerà in me un altro Gesù».

Nel 1975, tutto immerso in mille attività che la missione richiede, scrive:

Gli uomini della missione devono essere contemplativi per captare la presenza di Dio, squarciando la nube dell’opaca debolezza, e trasmettere la parola del Padre ai fratelli: “Questi è il mio figlio diletto, ascoltatelo” (Mt 17,5). Devo essere contemplativo, come Cristo, per giungere a fare la Volontà del Padre, come faceva Lui. Devo lasciarmi scaldare dalla presenza di Dio: contemplare, per giungere ad essere nascosto con cristo in Dio. Se non sono un’anima contemplativa, il mio apostolato è vano, predico me stesso, non Cristo: il Salvatore. “Se tu rimane in me ed io in te, porti molto frutto”, dice il Signore. Io voglio essere riempito e preso dal Signore Gesù.

Signore, e adesso, fammi amare la Croce. Cerco l’incontro con Dio, ma, questo, lo so, avviene sulla croce. Debbo abituarmi a vivere la volontà di Dio come Gesù. La fiducia in Dio mi porterà ad incontrarmi con i fratelli con amore di tenerezza. Signore, fammi uomo di speranza, che vada incontro a te con l’amore alla croce…

Nel 1980, dopo il primo intervento chirurgico, scrive:

Convertimi al provvisorio, all’abbandono in Dio! Essere disposto a portare la croce, gloria di Dio, manifestazione della sua potenza e del suo amore. Dio, chi ama, prova, devo ricordarlo! Signore, aiutami nella prova.

 

Dopo la sua morte

Terminiamo con due testimonianze su P. Antonio Barbero, giunte dopo la sua morte.

La prima è del Vescovo di Dungu Doruma, Mons. Th. Van den Elzen: “Padre Antonio ha donato a noi e a tutti una testimonianza di fede, di speranza, di carità! Egli è stato uno dei migliori miei missionari. Nella gioia e nel dolore, soprattutto nelle sofferenze, di è mostrato un uomo di cuore grande, modellato secondo quello di Cristo. Noi abbiamo perduto un grande missionario, ma abbiamo acquistato un potente intercessore presso Dio” (10 Febbraio 1982).

L’altra testimonianza giunge da colui che sostituì P. Antonio come superiore dello Zaire: “P. Barbero, primo tra i nostri giunti in Zaire, ci aprì la strada. Tutti trovammo in lui un dolce amico e un amabile fratello e incoraggiante Superiore! In questo momento non ha importanza valutare quanto egli ha compiuto durante i suoi anni di permanenza; mi sempre doveroso dire invece che padre Antonio e lo Zaire sono divenuti una stessa cosa, un essere unico. L’amore che ebbe per queste terre è stato talmente grande che ha permeato tutto il periodo della sua malattia. Egli viveva per lo Zaire, respirava per lo Zaire, e moriva offrendo la sua vita per lo Zaire…” (Isiro, 9 marzo 1982).

giuseppeallamano.consolata.org