Festa del Beato Allamano - Omelia

16 FEBBRAIO 2008
Festa del Beato Allamano


Oggi celebriamo la festa del beato Giuseppe Allamano, Fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, morto il 16 febbraio 1926 e che Giovanni Paolo II ha dichiarato “beato” il 7 ottobre 1990. Questa festa appartiene a tutta la Chiesa, perché l’Allamano è stato proposto a tutti i cristiani come protettore e modello di vita. Tuttavia essa ha un significato speciale per noi figli spirituali dell’Allamano e per quanti ci sono vicini e condividono il nostro ideale missionario.
Come ringraziamento a Dio e alla Consolata per aver donato alla Chiesa il beato Allamano, e in segno di amicizia con voi, vi offro tre brevi riflessioni sullo spirito del nostro Fondatore, che certamente anche voi considerate come santo di casa.

1. Un sacerdote tutto diocesano e tutto missionario

Una prima cosa che impressiona in questo uomo è che è stato un sacerdote tutto integrato nella sua diocesi di Torino e, nello stesso tempo, tutto aperto verso orizzonti mondiali. Un giovane missionario dei primi tempi ha lasciato questo ricordo: «Quando veniva a trovarci stava a lungo in mezzo a noi e sembrava che non avesse altro da fare. Solo dopo ho saputo che dirigeva mezza diocesi». Mons. Pinardi, Vescovo Ausiliare della Diocesi di Torino, che ha conosciuto da vicino l’Allamano, per attestare il suo dinamismo apostolico, ha lasciato scritto: «Nessuna iniziativa d’azione svolta ai tempi dell’Allamano sfuggì all’irradiamento che partiva dal Convitto della Consolata».

Che l’Allamno sia stato uno dei sacerdoti più rappresentativi ed influenti del suo tempo, lo conferma la testimonia del can. Cappella, giovane sacerdote tra i suoi più validi collaboratori e che poi gli succedette come rettore al santuario: «Si può affermare, che nel periodo in cui tenne il Rettorato del Convitto e del Santuario della Consolata, [l’Allamano] fu certamente la figura più eminente del Clero Torinese».

Ed è vero: Si pensi che appena ordinato sacerdote, fu nominato Padre Spirituale del Seminario, poi Rettore del Santuario della Consolata e del Convitto Ecclesiastico, Rettore della casa di esercizi spirituali a S. Ignazio di Lanzo, incarichi che tenne per 46 anni, fino alla morte. Fu anche superiore o confessore di diverse comunità di suore; iniziatore della causa di beatificazione del Cafasso, suo zio materno; Giudice del tribunale ecclesiastico; consigliere ricercato da vescovi, sacerdoti, religiosi e laici, ecc. Come se tutto ciò non bastasse, il suo grande cuore di apostolo lo ha portato ad interessarsi dell’evangelizzazione dei non cristiani ed ha fondato nel 1901 l’Istituto dei missionari e, nel 1910 quello delle missionarie. Queste due fondazioni sono state come la perla di tutto il suo apostolato.

Come ha potuto un uomo fare tanto? Certamente era un grande lavoratore. Lui stesso lo diceva ai suoi allievi: «Più c’è lavoro da fare e più se ne fa». E riportava a conferma della sua convinzione il pensiero del Cafasso: «Ci riposeremo in Paradiso».

Ma non basta il suo dinamismo a spiegare la mole e la qualità delle sue opere. La vera ragione sta più in profondità, nel suo spirito. Era un santo sacerdote, che amava molto Dio e molto il prossimo. Voleva bene alla gente e cercava sempre di aiutarla, non solo nelle cose spirituali, ma anche per i problemi terreni. Ai suoi missionari l’Allamano, per incoraggiarli ad aiutare la gente, diceva: «Prima bisogna farli uomini per poi farli cristiani. Essi ameranno una religione che, oltre le promesse dell’altra vita, li rende più felici su questa terra».

Lui era di prima qualità e voleva che anche i suoi missionari e missionarie lo fossero. Era sua convinzione che alla base di qualsiasi apostolato ci deve essere la santità della vita. È preziosa una sua espressione, divenuta classica nel nostro ambiente «Prima santi e poi missionari».
 
2. Un maestro di preghiera.

Una seconda caratteristica dell’Allamano è la sua insistenza sulla preghiera. Parlando con le missionarie così si spiegava: «Avere lo spirito di preghiera, pregare molto e bene. L’altro giorno leggevo su antichi foglietti che ho conservato, foglietti di un predichino che ho fatto in seminario (ero giovane allora!) e incominciavo proprio così: Pregar molto e pregar bene. Vedete, quello che penso adesso lo pensavo già allora!». Le due semplici parole: “allora” e “adesso” costituiscono un arco di circa 40 anni, con la stessa convinzione sulla necessità della preghiera.

Non c’è dubbio che l’Allamano era lui stesso “uomo di preghiera” e voleva che quanti collaboravano con lui fossero “persone di preghiera”. Questo valeva anzitutto per i suoi missionari e missionarie, ma anche per tutti i sacerdoti e i laici che prestavano la loro collaborazione alle sue opere. Non aveva fiducia nelle persone che facevano consistere il loro apostolato soprattutto nel “muoversi”, nel “trafficare”. Diceva: «Un sacerdote se non fa molta orazione, non è vero Sacerdote. E un missionario? Che volete che possa fare uno che non conosca nemmeno il mezzo che l’aiuti a tenersi unito a Dio? ». Il primo ricordo che lasciava ai partenti era proprio questo: «Siate uomini di orazione […]. Altrimenti, se non sarete uomini di orazione, sarete strumenti inetti della grazia di Dio…Intanto faremo del bene in quanto saremo uniti con N.S.». Ecco la conclusione: «Abbiamo bisogno di pregare molto, anche ed appunto perché siamo missionari».

Questa insistenza dell’Allamano proveniva sicuramente dalla sua esperienza personale. Prima viveva e poi insegnava. Il suo domestico Cesare Scovero, un uomo semplice, che aveva vissuto con lui per circa 30 anni e che lo conosceva bene, interrogato dal tribunale ecclesiastico se l’Allamano era assiduo nella preghiera, poté rispondere con semplicità: «Era dotato di grande spirito di preghiera: Vivendo al suo fianco per tanti anni, ho constatato che pregava e con fervore in camera sua, nel santuario, nel coretti, ed anche durante i viaggi, e faceva pregare anche me quando lo accompagnavo». Credo che anche oggi l’Allamano ripete a tutti noi la sua convinzione: «[Nella preghiera] non c’è pericolo di esagerare».

3. L’Allamano vivo e presente

Aggiungo un terzo pensiero: noi non stiamo commemorando un morto, ma un vivo. L’Allamano stesso ha avuto coscienza di quanto avrebbe potuto fare dal cielo, dopo la sua morte. Lo ha detto più di una volta. Per esempio, ad un missionario partente che gli confidava il timore di non rivederlo più, ha risposto: «Ci rivedremo in Paradiso. Io, quando sarò lassù, vi benedirò ancora di più. Sarò sempre [a guardarvi] dal balcone». Ancora sul letto dell’ultima malattia, vedendo che la suora che lo assisteva era mesta, la rassicurava dicendo: «Il mio spirito non è di fare rumore. Ma dal cielo farò, farò. Per voi farò più di là che di qua». E nel suo testamento ha scritto ai missionari e alle missionarie: «Per voi ho dato tutto: impegno, salute, denaro, vita. Spero, morendo di diventare vostro protettore in Cielo».

Queste assicurazioni certo noi le riteniamo una promessa fattaci dal nostro padre, che sentiamo vivo e vicino. Siamo certi, però, che valgono per tutti coloro che sono in comunione spirituale con lui. L’Allamano, dal Cielo, è un valido protettore. Quante persone si rivolgono a lui e assicurano di sentirlo vicino. Scriveva una mamma dalla Corea, che aveva raccomandato all’Allamano la figlia ammalata: «Da quel momento abbiamo sentito che l’Allamano pregava per noi» e questa sensazione la rassicurava. Così ha potuto ringraziarlo perché la figlia era in via di guarigione completa.

Anche noi, ovunque ci troviamo, possiamo rivolgere lo sguardo del nostro spirito all’Allamano, nella certezza di essere in comunione con una persona viva che ci è familiare, e che la Chiesa ci addita come santo, modello di vita. Possiamo ritenere con certezza, perché lo sperimentiamo, che l’Allamano trascorre il suo Cielo interessandosi di noi e facendo del bene.

Conclusione

Termino queste riflessioni con una bella testimonianza che il suo domestico ha reso al giudice ecclesiastico, che lo interrogava sulla coerenza di vita sacerdotale dell’Allamano,: «Per quanto mi consta, l’Allamano aveva bensì spiccate doti naturali, ma prevalevano in lui le vere virtù sacerdotali. Secondo me, era un vero uomo di Dio che viveva di fede; non era infingardo, e cioè in lui non vi era soltanto apparenza esterna, ma intima convinzione che lo portava a fare tutto per amore di Dio e per il bene delle anime. Era quindi guidato solo da motivi soprannaturali».

 
P. Francesco Pavese imc
 
 
 

(A cura della Postulazione Generale).

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