Due Santi a confronto

 

SPIRITUALITÀ DI S. G. CAFASSO RECEPITA DAL B. G. ALLAMANO

Corso di spiritualità per missionari e missionarie

 

AllamanoeCafassoFinita

 

INTRODUZIONE

 

Il protettore speciale per il 2005 è S. Giuseppe Cafasso. Per questo motivo, le riflessioni di questi giorni di ritiro prendono lo spunto dalla spiritualità del Cafasso, con speciale attenzione al modo con cui è stata recepita, vissuta e proposta dal beato Giuseppe Allamano.

 

1. L’Allamano diventa erede dello spirito del Cafasso. La scoperta del Cafasso l’Allamano l’aveva iniziata quando era ancora chierico, in seminario. L’ha proseguita da giovane sacerdote, approfondendola maggiormente in seguito, soprattutto attraverso la partecipazione alla causa canonica di beatificazione, praticamente fino alla fine della sua vita. La scoperta del Cafasso, per l’Allamano non si è limitata ad un esercizio di conoscenza intellettuale, ma è stata una vera assunzione della spiritualità, conformandovi la propria vita.1

 

Come Rettore del Convitto, l’Allamano ha come ufficialmente ricevuto in eredità lo spirito del Cafasso, del quale era successore, ed ha cercato di trasmetterlo ai sacerdoti convittori. Sappiamo quanto bene ciò si sia realizzato.

 

A proposito, mi piace ricordare un emblematico dialogo tra un giovane sacerdote convittore, certo don G.B. Ressia, e l’Allamano. In occasione della ricognizione della salma del Cafasso al Santuario della Consolata, questo convittore, osservando da vicino l’Allamano, ha saputo cogliere l’intima e santa gioia, che gli traspariva sul volto e nei movimenti della persona. Mentre si accompagnava la salma al sepolcro, l’Allamano ha sussurrato a don Ressia: «Vedi che belle feste riceve il Venerabile». Il giovane sacerdote, senza troppo pensarci, ha commentato: «Da qui ad alcuni anni…faranno anche a Lei così»; e lo disse così forte che tutti i compagni si misero a ridere. Un altro convittore lo ha ripreso: «Hai osato dire questo al Sig. Rettore? Sembra che tu lo voglia far morire già ora». «No – è stata la risposta – ma solo che verrà un tempo che faranno anche a lui questa festa, questo onore». L’Allamano, però, divenne subito serio e disse al Ressia: «Non dire queste sciocchezze, non sai che per avere questi onori bisogna essere gran santi, come lo era don Cafasso, ed io non lo sono». E don Ressia di rimando: «E Lei è un santo sicuro”». Ma l’Allamano con insistenza: «Ti dico di non parlare così, che non va bene»2.

 

Qui voglio sottolineare che l’interesse per il Cafasso e il fatto di essergli succeduto come Rettore al Convitto ha condotto l’Allamano a farsi promotore della causa di beatificazione, avviandosi in un cammino molto impegnativo da tanti punti di vista, ma sicuramente arricchente per lui e per quanti hanno avuto la fortuna di essere da lui educati.

 

 

2. Il nipote è convinto della santità dello zio. L’Allamano, dunque, si è sinceramente convinto della santità dello zio don Cafasso. Come lui stesso ha deposto al processo di beatificazione: ne sentiva parlare con grande ammirazione dai parenti in casa, dai compaesani a Castelnuovo, dai sacerdoti più anziani quando era in seminario, prima come chierico e poi come direttore spirituale, e infine durante il ministero nel Convitto e al santuario della Consolata.

 

Convinto della santità dello zio, l’Allamano ha pensato che sarebbe stato un grande dono alla Chiesa di Torino e non solo, diffonderne la figura, la dottrina e la spiritualità. Quando era direttore spirituale in seminario, dietro consiglio di esimi sacerdoti, l’Allamano ha coraggiosamente incominciato a stendere una biografia del Cafasso, ma poi, per diverse ragioni, ha desistito. Aveva riempito 33 fogli, arrivando fino all’ingresso del Cafasso al Convitto. Lui stesso ha ammesso che la ragione principale che lo aveva convinto a non continuare era «il vedermi incapace di ben esprimere la stima e la venerazione che osservavo in quanti l’avevano conosciuto»3.

 

 

3. Iniziative dell’Allamano per far conoscere il Cafasso. Le iniziative intraprese dall’Allamano in favore della conoscenza del Cafasso sono state molte: dalla esumazione e ricomposizione della salma (1891), alla raccolta degli scritti ed all’edizione delle meditazioni e delle istruzioni (1892-1893), alle biografie scritte dal Can. G. Colombero (1895) e dal Teol. Robilant ed, in fine, alla traslazione della salma dal cimitero al Santuario della Consolata (1896). Il vero impegno è stato richiesto dal processo, iniziato il 16 febbraio 1895 presso il tribunale ecclesiastico di Torino e trasferito a Roma nel 18994.

 

Riguardo, in particolare, alle biografie del Cafasso, anche Don Bosco aveva promesso di scriverne una, che poi non ha realizzato, perché gli avevano portato via i documenti. Prima di morire, Don Bosco si è come giustificato con l’Allamano, incoraggiandolo a non desistere. Il Cafasso meritava una biografia subito. L’influenza di Don Bosco, ma soprattutto il sincero apprezzamento per il suo straordinario zio hanno convinto l’Allamano ad impegnarsi. Lo ha spiegato lui stesso: «Accolsi con riconoscenza il consiglio di D. Bosco […] e lo mandai ad effetto; ed ebbi davvero tante memorie che il Can. Colombero, Curato di S. Barbara, poté scrivere la prima vita del Cafasso»5. In effetti la biografia scritta dal Colombero uscì nel 1895, dopo complicate vicende. L’impronta della mano del Fondatore, assieme a quella del Camisassa, è evidente. Lo stesso autore, scrivendo all’Allamano, riconosce che il volume « è in gran parte opera sua»6.

 

E riguardo agli scritti del Cafasso, prima della biografia, erano state pubblicate le meditazioni, nel 1892 e, un anno dopo, le istruzioni che il Cafasso aveva tenuto durante gli esercizi spirituali al clero. Lo scopo di queste pubblicazioni è dichiarato nella prefazione al testo delle meditazioni, a firma dell’Allamano: «[…] Prive ora queste prediche del calore e della vita che traevano dall’accento e dal gesto del sacro oratore, esse non parranno più che una pallida figura di quelle mirabili Meditazioni, le quali […] scuotevano profondamente le stesse anime più fredde, e lasciavano un’impressione incancellabile in chi le udiva anche una sola volta»7.

 

Così concludeva: «Nutro fiducia d’aver fatto cosa gradita ed utile ai venerandi colleghi nel Sacerdozio […], e così di poter cooperare in qualche modo alla continuazione del bene fatto dal venerato mio zio nella sua missione provvidenziale a vantaggio del clero»8.

 

 

4. L’Allamano come educatore di missionari e missionarie. Come fondatore ed educatore, l’Allamano ha spontaneamente trasmesso ai suoi missionari e missionarie uno spirito che ormai faceva parte di se stesso, per cui possiamo affermare che nei nostri ambienti è molto radicata la spiritualità del Cafasso, però filtrata dall’Allamano.

 

Ad un attento esame, risulta che lo spirito del Cafasso è presente nell’Allamano più di quanto sembri a prima vista. Dopo Gesù e la Madonna, probabilmente il Cafasso è stato il modello che ha inciso più in profondità nell’identità dell’Allamano. Credo che questa affermazione risulterà evidente dalle meditazioni di questi giorni.

 

 

5. Schema e metodo delle riflessioni. Ho scelto i temi sulla base dei contenuti proposti dal Cafasso negli esercizi spirituali al clero. Ho omesso le meditazioni sul peccato e sulla morte, non perché non siano importanti, ma solo perché ho ritenuto le altre più pratiche secondo la nostra sensibilità spirituale. Ho stabilito l’ordine degli argomenti seguendo una logica di importanza.

 

Ogni tema occupa le due meditazioni quotidiane. Nelle singole trattazioni, in genere, prima espongo il pensiero del Cafasso e, subito dopo, quello dell’Allamano sullo stesso punto. Quando l’Allamano riporta il pensiero del Cafasso, lo faccio notare, con lo scopo di far risaltare il collegamento tra i due.

 

Ecco lo schema dei temi per ogni giorno:

 

1° giorno: Amor di Dio

2° giorno: Eucaristia

3° giorno: Maria SS.

4° giorno: Preghiera

5° giorno: Santità

6° giorno: Speranza.

 

 

I. AMOR DI DIO

 

Don Bosco ha scritto che «Ogni parola, ogni pensiero, ogni opera dalla sua [del Cafasso] più tenera età fino all’ultimo istante di vita fu un continuo e mai interrotto esercizio di [amor di Dio]».9

 

Il Cafasso, durante gli esercizi spirituali ai sacerdoti dettò alcune meditazioni molto ricche di contenuti sull’amor di Dio. L’Allamano ne era entusiasta e le indicava ai suoi missionari e missionarie come fonti di ispirazione: «Il Ven. Cafasso nella predica sull’amor di Dio dà tanti caratteri, e tra gli altri dice questi…vedete, ce n’è una pagina, andate a leggerla…Quell’uomo sì che capiva!...».10 «Leggete quel pezzettino delle Meditazioni del nostro Ven. Cafasso, quella dell’amor di Dio, dove parla della conformità alla volontà di Dio. Quel pezzettino vale un Perù».11

 

Il Cafasso ha quattro redazioni di meditazioni al clero sull’amor di Dio (tre sono sostanzialmente simili, e l’ultima consiste solo in un foglietto con alcuni pensieri), dalle quali si ricava questo schema del suo pensiero: l’amore è naturale alle persone umane. L’amore è doppio, verso Dio e verso il prossimo, entrambi importanti, ma quello per Dio è superiore. Le qualità dell’amor per Dio sono tre: 1. amore penitente; 2. amore sofferente; 3. amore unitivo. I contrassegni o i caratteri dell’amore unitivo sono: fare la volontà di Dio e desiderare di vivere alla sua presenza, in intima unione con lui.12

 

Seguendo questo schema, meditiamo prima sulle qualità dell’amor di Dio e poi sugli effetti positivi che esso produce in un apostolo, secondo la dottrina del Cafasso. Contemporaneamente poniamo speciale attenzione alle risonanze che questo modo di pensare del Cafasso ha prodotto nello spirito dell’Allamano e, di conseguenza, nelle sue proposte di vita ai missionari e missionarie. Il Fondatore ha pure parlato molto della “carità fraterna”, come indispensabile alla vita comune. E ciò ha la sua logica, se pensiamo alla risposta di Gesù: «Il secondo è simile al primo» (Mt 22,39) e al fatto che l’Allamano doveva formare missionari e missionarie che erano, nello stesso tempo, “religiosi”, con la caratteristica dello “spirito di Corpo” e “spirito di famiglia”. È giunto a dire in una conferenza agli allievi sull’Amor di Dio: «Carità di Dio – Carità del prossimo, formano quasi una cosa sola, quantunque siano distinte».13 In questa meditazione, però, valorizzeremo il pensiero del Fondatore sull’Amor di Dio, in quanto intendiamo collegarci con il Cafasso.

 

 

1. L’AMORE È CONNATURALE ALL’UOMO CON UNA PRIORITÀ

 

Sia il Cafasso che l’Allamano danno un’importanza decisiva all’amore nella vita umana e cristiana. Fa impressione sentire con quali accenti il Cafasso parla dell’amore, che è connaturale all’uomo. Da come sa descrivere i tratti dell’amore umano si vede che è una persona molto attenta alle relazioni intime tra le persone e molto sensibile. Essendo un santo e parlando a sacerdoti, dall’amore umano prende solo lo spunto, per assurgere subito e sempre al vero amore, quello per Dio, che è l’unico che si merita veramente questo appellativo. La stessa osservazione la possiamo fare per il nostro Fondatore. Si pensi, per esempio, a come parla dell’affetto di un figlio per la propria mamma, ma poi come sa portarlo al distacco proprio di un missionario.

 

 

a. G. Cafasso. Ecco il pensiero del Cafasso, che è quasi una premessa a tutto ciò che insegna sull’amore per Dio: «Vi è niente di più facile, e di più naturale al nostro cuore che amare talmente che S. Agostino chiamava l’amore la vita del nostro cuore: vita cordis amor est; egli deve amare assolutamente qualche cosa, ed appena travede [sic] in un oggetto qualche qualità amabile che naturalmente è portato ad amarla: apriamo però gli occhi, […], prima di consacrar a qualcuno il nostro cuore, e ricordiamoci che tra mille cose, che ce lo chiamano uno solo se lo merita: […]; se vogliamo amare senza averci un giorno a pentire della nostra scielta [sic], ecco l’unico al mondo che se lo meriti, che è il nostro Dio».14

 

In un’altra redazione della meditazione sull’amore, scrive: «Siamo nati per amare, viviamo per amare, morremo per amar ancora più. Tal è o fratelli, il nostro fine quaggiù, tale sarà come speriamo la nostra destinazione futura, ed eterna. Beata quella persona, dice Agostino, che avrà imparato, e saprà cotesta scienza di amare: Beatus qui te Deum novit».15

 

Il Cafasso non intende insistere sull’obbligo di amare Dio, perché poterlo amare è un privilegio, e in ciò si ricollega a S. Agostino: «Io non sto qui ad accennare il primo, e massimo comandamento di amare Iddio, perché direbbe S. Agostino, e che bisogno di comando, di amarlo, e che minacce, e che castighi se non si ama. E non è già il massimo de’ mali, e de’ castighi, e non è già la più grande delle disgrazie a non amarci».16

 

Il Cafasso valorizza il testo paolino di 1Cor 13, 1ss.: «Sappiamo quello che diceva l’Apostolo; quando io avessi il dono della profezia, l’intelligenza de’ misteri, quando io avessi tanta fede da far mutar luogo ai monti, ma se mi manca l’amore, la Carità: nihil sum: abbi pure quello che vuoi, ma se ti manca questo solo, che è l’amore, niente ti gioverà […]. Al contrario se vi è l’amore, vi è tutto: fa quel che vuoi, dice Agostino, solo che ami io non cerco più altro, non guardo a quello che fai: dilige, et fac quod vis».17

 

 

b. G. Allamano. Anche per l’Allamano l’amore è alla base della vita umana, cristiana e missionaria. Anche lui, nelle sue conferenze, tratta diverse volte dell’amore per Dio, della sua importanza, dei suoi caratteri, dei mezzi per ottenerlo, ecc. I suoi riferimenti al Cafasso sono abbondanti, ma segue anche altri schemi di pensiero. Ci sono, in particolare, due conferenze esplicite sull’amore di Dio. Una del 10 novembre 1912, agli allievi, intitolata “Carità verso Dio”, nella quale segue di S. Tommaso: «La carità, come dice S. Tommaso, è un’amicizia tra Dio e l’uomo, deve quindi avere tutti i caratteri della vera amicizia. Ora i contrassegni dell’amicizia, e come specie della carità sono: di preferire l’amato ad ogni altro; di compiacersi di lui e delle di lui doti; di volergli bene, di compatirlo nelle sue pene, di essergli grato dei benefizii che ci fa e di conformarsi in tutto a lui. Tante parti di amore».18 Partendo da questo schema, il Fondatore parla di amore di preferenza, di compiacenza, di benevolenza, di compassione, di gratitudine e di conformità.19

 

In una seconda conferenza del 23 settembre 1917 alle suore, intitolata “Esame sull’Amor di Dio”, il Fondatore commenta il brano evangelico di Mt 22, 34-40 e spiega che «Gesù ci fa un esame di coscienza sul come dobbiamo amare Dio: Toto corde; - tota anima; - tota mente; - ex tota virtute tua».20

 

Sia parlando agli allievi che alle suore il Fondatore ricorda, come ha fatto il Cafasso, il pensiero di Agostino: «S. Agostino andava stupito che N. Signore ci avesse dato il comando di amarlo, e diceva che sarebbe già stata grande degnazione sua se ce lo avesse permesso».21

 

Anche il testo paolino di 1Cor 13,1ss. è valorizzato dall’Allamano: «Sapete cosa dice S. Paolo: Se avessi dato tutto ai poveri…ect. Se parlassi la lingua degli angeli…ect. E non avessi la carità…sono niente, sarei come tymbalum tinniens et sonans…».22

 

 

2. AMORE DI DIO “PENITENTE”

 

a. G. Cafasso. Parlando a sacerdoti il Cafasso non si dilunga molto sull’amore “penitente”, ma lo presenta con lo scopo che il passato negativo venga totalmente risolto. Ecco il pensiero di fondo da cui il Cafasso prende le mosse: «Un’anima, un cuore, che ami , naturalmente, e quasi necessariamente deve piangere il tempo che non ha amato».23 E spiega: «Un amante qualunque, se veramente egli ama, è impossibile che non soffra, e non senta dentro di sé un cruccio, un disgusto, un crepacuore ogni qualvolta ricorda i torti, e le ingiurie che possa aver fatto un dì contro la persona amata. La cosa è naturale, necessaria da non poter essere altrimenti, poiché a misura che conosce nell’oggetto, che ama quelle doti, e qualità da meritarsi il suo amore, non può a meno che conoscere, e rimproverare a se stesso il male, che ha fatto nell’averlo disgustato. Cresce cotesta cognizione, cresce l’amore, e crescendo l’amore cresce in pari tempo il suo dolore, e cordoglio. […]. Ah! fosse pur vero che mai avessi offeso il Signore, pur troppo me ne ricordo e ricorderò sempre d’aver offeso Dio. Eccovi fratelli miei quella vita di dolore, ossia quell’amore di afflizione che deve condire i nostri giorni sino alla morte».24

 

È evidente che questi sentimenti devono essere messi in relazione a quanto il Cafasso insegna circa la confidenza, e cioè che non è necessario chiedere sempre perdono a Dio per le piccole cose. Il perdono tra due amici è già sottinteso.

 

 

b. G. Allamano. Pur non parlando esplicitamente di “amore penitente”, il Fondatore conosceva questo sentimento del Cafasso. Agli allievi, nella conferenza del 29 luglio 1917, ha raccontato questa sua esperienza spirituale significativa: «Le altre volte che facevo gli esercizi spirituali non mi fermavo tanto sull’inferno…pareva…mi sembrava far meglio meditare sul peccato veniale che sul mortale! E ho detto: forse è superbia questo e ho meditato profondamente peccato e inferno in regola! Quando vedo le preghiere di D. Cafasso che era un angelo in carne, eppure nelle sue preghiere domanda sempre perdono dei peccati suoi della vita passata. Che peccati poteva avere? D. Bosco diceva che lui teneva che non avesse neppure il peccato originale. Eppure a sentir lui pare un gran peccatoraccio. I Santi le piccole cose le credono cose grossissime».25

 

 

3. AMORE DI DIO “PAZIENTE”

 

a. G. Cafasso. Continuando la riflessione il Cafasso afferma: «Non basta che il nostro amore sia penitente, deve di più essere paziente, pronto cioè a soffrire, a sopportare ect. Chi non sa soffrire, non sa amare, dice l’assioma. L’amore esige naturalmente dei sacrifici. Quanti sacrifici non fa una madre per l’amore che porta ai figli. A quanti sacrifici non si assoggetta un infermo per amore della sanità, un altro per acquistare un po’ di roba. […]. Tale è parimenti la natura dell’amor divino, e non lusinghiamoci: chi non soffre non ama, chi vuole soffrire poco, ama poco, chi è pronto e disposto a soffrir molto stiamo certi che molto ama».26

 

Per il Cafasso il modo migliore per dimostrare a Dio che lo amiamo nonostante le colpe passate è «soffrire qualche cosa appunto per dare una prova, ed attestato a Dio dell’amor che gli portiamo».27 E porta l’esempio dei santi che dicevano «O patire, o morire», l’esempio degli apostoli, i quali «Ibant gaudentes a conspectu concilii quoniam digni abiti sunt pro nomine Jesu contumeliam pati (At 5,41)», ma soprattutto l’esempio di Gesù: «Ut cognoscat mundus quia diligo Patrem, surgite eamus (Gv 14,31). Qui non occorre più andar a scuola dagli amanti del mondo, né da’ Santi, e uomini Apostolici ma è lo stesso nostro divin Redentore, e Salvatore, che ce lo dice: perché il mondo sia sicuro che io amo il mio Padre, alzatevi e andiamo pure incontro, che sono pronto ad ogni sacrificio».28 «Si guardi la croce, e poi, chi può, non ami; qui può dirsi che tot linguae quot vulnera; tutto parla, tutto scuote, tutto ferisce di amore: fili prebe mihi cor tuum [Pr. 23,26], è questa, o cari, la voce, la domanda, l’invito che ci fa sulla croce quel sembiante divino, quelle braccia distese, e quel petto spalancato».29

 

 

b. G. Allamano. Anche il Fondatore è convinto che Gesù è primo modello di sofferenza come espressione di amore. Parlando dei mezzi per ottenere l’amore di Dio, indica appunto la meditazione sulla “Passione”: «[…] e come rimanere freddi pensando alla Passione?»30; e poi riporta il detto di S. Francesco di Sales: «Il Calvario è il teatro degli amanti».31

 

L’insegnamento del Fondatore sulla fortezza, sull’energia, sulla capacità di soffrire e di sopportare con costanza le avversità come espressione di fiducia e di amore verso Dio, soprattutto per un missionario, è molto chiaro ed insistente. Anche lui conosce e riporta il testo di S. Teresa: «O patire, o morire». 32 Incoraggiando a sopportare con pazienza le sofferenze, indica tre mezzi, il terzo dei quali è: «uno sguardo al Crocifisso che ha sofferto tanto per noi, e fare tanti atti di confidenza in Dio».33

 

Per la “Settimana Santa” del 1919, il Fondatore raccomandava alle suore la partecipazione allo spirito di distacco che ha dimostrato il Signore, il quale «nella Passione, non s’è neanche lasciato curare da sua Madre», e spiegava: «Il Signore è geloso dei nostri cuori. Stacchiamoli questi fili, e se non sappiamo staccarli per amore, stacchiamoli per forza. Il Ven. Cafasso diceva al Signore: Fate che io trovi il distacco dove sento più affetto; fate che io trovi le umiliazioni dove cerco la gloria; fate ch’io sia solo per Voi».34

 

 

4. AMERO DI DIO “UNITIVO”

 

Su questa qualità di amore, detto “unitivo”, sia il Cafasso che l’Allamano si soffermano più lungamente, perché esprime bene la loro esperienza personale di santi sacerdoti che vivono intensamente la loro comunione con Dio, compiono sempre la sua Volontà e progrediscono nella totale comunione di amore con lui. Da come ne parlano, emerge evidente l’entusiasmo del loro cuore. Davvero sembrano degli “innamorati”, non sentimentali, ma decisi e coerenti negli impegni.

 

 

a. G. Cafasso. Ecco il Cafasso: «Amor unitivo, unione dei cuori, e di volontà, unione di presenza e quasi famigliare convivenza».35 Il Cafasso concretizza questo amore unitivo in due modi: volere tutto e solo ciò che Dio vuole; e vivere uniti a Dio in tutto, stando alla sua presenza con il pensiero e con l’affetto.

 

In primo luogo, Cafasso spiega che l’amore unitivo consiste anzitutto nell’adesione totale alla volontà di Dio. La sua è una spiegazione lunga, ma piena di “fuoco interiore” e merita di essere letta per intero: «La volontà dell’uno è la volontà dell’altro, e se mai capita che uno la pensi diversamente basta il dirgli che così non la pensa, così non vuole l’amico per deporre il proprio sentimento; si azzarda nemmeno ad avanzare, a significare la propria volontà, per paura che non sia quella di chi si ama. L’amore si dice che fa simili tra loro gli amanti, simili nel sentire, nel volere, simili ne’ gusti, nelle voglie, simili perfino nei capricci, di modo che a ben considerare tale e tanta è la loro unione, armonia, e comunicazione che di due pare che non ne risulti che uno solo, un solo cuore, una sola volontà, uno stesso gusto, e diciamo così quasi una stessa persona. Oh!...benedetto mille volte quell’amore, che arrivasse a fare altrettanto di noi con Dio! Felici noi, se giungessimo a versare così il nostro cuore dentro quello di Dio, unire talmente i nostri desideri, la nostra volontà alla sua da formare ed un cuore, ed una volontà sola: volere quello che vuole Dio, volerlo in quel modo, in quel tempo, con quelle circostanze che vuole lui e voler tutto ciò non per altro se non perché così vuole Iddio. Dio è il mio tutto in questo mondo, e quello che lui vuole è pure il voler mio, io non ho volontà, non ho gusto, non ho desiderio, non ho mira, io ho tutto in Dio, disponga come vuole, la sua volontà sarà sempre la mia. Se il Signore vuole che io viva, io vivo, se vuole che io muoja, voglio morire.

E per dire tutto in breve, io voglio tutto e voglio niente: voglio tutto quello che vuole il mio Dio, voglio niente fuori di quello che vuole Dio: tutto mi piace se piace al mio Dio, niente mi dispiace se non quello che dispiace a lui».36

 

 

b. G. Allamano. L’Allamano circa l’adesione alla Volontà di Dio, come conseguenza e prima espressione del vero amore, è un maestro e un modello di prima qualità. Conosciamo bene questa dimensione della sua vita e del suo insegnamento. Ed anche in ciò si ricollega alla spiritualità dello zio. Così parlava agli allievi il 1° gennaio 1914, incoraggiandoli ad iniziare bene l’anno: «Uniformiamoci alla volontà di Dio, non solo in generale, ma nelle circostanze, non un filo, non una parola, non opera che non sia per voi [Dio]. Quella bella preghiera di Don Cafasso: “Non voglio altro che la vostra volontà; via da me ogni altro fine che non siate voi…o che sarei sciocco se buttassi così al vento tutte le mie fatiche…”. Leggetela quella preghiera…C’è oro! Eh, se si dice di cuore!».37 Basandosi su questo stesso schema, il 10 novembre 1918 diceva alle suore: «Per veramente staccarsi dalla propria volontà, bisogna attaccarci ad altro. Se ci attacchiamo alla terra… cinis est [è cenere]…; se ci attacchiamo a Dio…Deus est [è Dio]…Il nostro cuore non può stare in aria, bisogna che sia attaccato a qualche cosa […]. È così sapete!...Bisogna attaccarsi alla volontà di Dio».38 E nella stessa conferenza: «Il nostro Ven. Cafasso diceva che la conformità alla volontà di Dio è un atto d’amor di Dio».39

 

Nel manoscritto della conferenza del 10 novembre 1918 agli allievi sulla “Conformità alla Volontà di Dio”, annota: «Il nostro Venerabile scrisse: Unione di volontà di Dio è quanto dire: volere ciò che Dio vuole, volerlo in quel modo, in quel tempo, in quelle circostanze ch’Egli vuole; e tutto ciò volerlo non per altro se non perché così vuole Dio (Pred. Med. – Amor – Dio)».40 Sono alla lettera le parole del Cafasso precedentemente ricordate.

 

Per educare i figli e le figlie a vivere conforme alla volontà di Dio, il Fondatore ha usato bene la “pedagogia dei modelli”. Il modello per eccellenza è stato Gesù, ad iniziare dal testo di Eb 10,7: «Allora ho detto: Ecco io vengo – poiché di me sta scritto sul rotolo del libro – per fare , o Dio, la tua volontà»41. L’Allamano così commenta: «Queste parole sono il compendio di tutta la vita di N. Signore Gesù Cristo su questa terra»42. E poi spiega: «N. Signore Gesù Cristo sia cogli esempi che coi detti ci dichiara che non c’è altra strada per salvarsi che quella di fare la volontà di Dio, dell’eterno Padre. Su questa terra Egli ha sempre fatto la volontà di Dio, mai la propria […]. In tutta la sua vita ha sempre avuto davanti questa volontà. “Non veni ut faciam volontatem meam sed voluntatem eius qui misit me”. Diceva che questo era il suo cibo: “Cibus meus est ut faciam voluntatem Patris”: mangiava di questa volontà. Quae placita sunt ei facio sempre […] E poi tutta la vita di N. Signore è così: basta leggere il S. Vangelo per vederlo: a tutte le pagine si trova che faceva la volontà del suo eterno Padre»43.

 

Un secondo modello è la Madonna, soprattutto nel mistero dell’Annunciazione. Ai candidati al Suddiaconato, il 15 dicembre 1907, l’Allamano suggeriva: «Quando sarete là prostrati confessate convinti il vostro nulla […], però conosciuta la volontà del Signore dite colla Madonna: Ecce Ancilla Domini, fiat mihi secondum verbum tuum»44. Ovviamente il Fondatore si riferisce anche ad alcuni santi come modelli, tra i quali spicca il Cafasso.

 

Infine, aderire alla volontà di Dio, per l’Allamano, è staccarsi dalla propria e ubbidire alle disposizioni dei superiori. Questa è stata la sua personale esperienza che ha voluto trasmettere come via sicura di crescita spirituale45. «Vedete: facciamo presto a dire che operiamo per amor di Dio, ma esaminiamo un po’ se in questa o in quella occasione adempiamo proprio la volontà di Dio ed ubbidiamo colla testa e col cuore».46

 

 

c. G. Cafasso. Sempre nell’ambito dell’amore unitivo, il Cafasso spiega che, in secondo luogo, esso consiste nel vivere alla presenza amorosa di Dio, che significa pensare a lui e stargli spiritualmente vicino: «Ma non ci deve bastare ancora unire la propria volontà a quella del nostro Dio; fatti quasi uno solo con lui uopo è che a lui siamo uniti in tutto:uniti ne’ pensieri, giudicando di tutto come lui, stimando ciò che Egli stima, disprezzando ciò che Egli disprezza; uniti ne’ sentimenti amando ciò che Egli ama, cercando ciò che Egli cerca, temendo ciò che Egli teme; uniti nelle azioni, e negli interessi trattandoli come propri, e per gli stessi motivi, colla medesima intenzione. […]. Finalmente l’ultimo effetto a cui porta l’amore è di amare la presenza della persona amata. […]. Non vi è tempo né più dolce, né più breve di quello che si passa con un vero amico. […]. Ed eccovi con ciò segnati, […], i due ultimi caratteri dell’amor di Dio: pensare soventi a lui, e poi cercare, amare, godere della sua reale, e sacramentale presenza».47

 

Il Cafasso indica pure dei mezzi concreti per vivere la presenza di Dio: «[…] e per pensare soventi a Dio, procuriamo di addestrare, di accostumare il nostro cuore, e dirò anche le nostre labbra a frequenti giaculatorie, a’ sospiri, a’ gemiti, agli slanci verso questo buon Dio».48 E qui il Cafasso passa a parlare della presenza eucaristica e della necessità che il sacerdote esprima il suo amore a Dio con visite ed adorazione al SS. Sacramento.

 

 

d. G. Allamano. L’Allamano, nella già citata conferenza del 10 novembre 1918 alle suore, riferendosi al Cafasso, riprende lo stesso concetto: «L’amore sempre cerca di unirsi e in questa unione si trova la santità più perfetta e la felicità più completa. Amar uno e desiderare di star lontani è segno che non si ama; si cerca sempre di star vicino e non si scappa dall’amato. Così chi vuole bene a N. Signore cerca sempre di stare con Lui».49

 

Sappiamo, inoltre quanto il Fondatore abbia insistito perché fossimo sensibili alla presenza di Dio e perché facessimo del SS. Sacramento nel tabernacolo il centro dei nostri pensieri e affetti, come pure la meta di frequenti visite reali e spirituali. Anche per il Fondatore l’amore unitivo richiede che si instauri una comunione di “presenza” attuale e vicendevole tra Dio e l’anima. Ecco la conclusione della conferenza agli allievi del 9 aprile 1916 sulla “Presenza di Dio”: «Facciamo così: N. Signore è nel cuore, diriga tutto di lì, e noi pure indirizziamo tutto lì. Egli ci dà la benedizione e noi ritorniamo a lui tutto. Vedete se non sarebbe un Paradiso. Provate e vedrete [qui si vede che il Fondatore comunica la propria esperienza]; oculi mei sempre ad Dominum. Providebam Domino in conspectu meo sempre, sempre. Procurava che fosse sempre alla presenza di nostro Signore, lui davanti a me, ed io alla sua presenza. Queste cose bisogna tenerle vive, perché noi siamo un po’ materiali. Come è bello dire frequenti giaculatorie, se ancora troviamo un mezzo più intimo, tutto il resto si fa insieme. Siamo alla presenza di Dio; mai dimenticarlo».50

 

 

5. EFFETTI DELL’AMORE DI DIO

 

a. G. Cafasso. Secondo il Cafasso, l’amor di Dio produce degli effetti salutari in chi lo vive con verità. Elenchiamo quelli più evidenti. Un primo effetto è che l’amore di Dio rende leggere le fatiche: «Un altro utile non meno grande si è quello di rendere leggiere, e dolci le istesse nostre fatiche ed insieme rendere dolce, e quieta la nostra vita. Colui che ama, non travaglia, dice S. Agostino: qui amat non laborat, tanto è il piacere che prova l’amante nel servire, nel cercare l’oggetto amato che gli converte in delizia».51

 

b. G. Allamano. E il Fondatore: «I santi, così D. Cafasso, Don Bosco, anche in mezzo alle più dure mortificazioni, avevano sempre un aspetto allegro. Perché erano in pace con Dio: l’amore rende dolci tutte le pene».52 Parlando della pazienza, il Fondatore spiega che il terzo grado è di coloro che sopportano le difficoltà e i mali «con giubilo, con gioia». E spiega: «Non è che non sentano il male ma hanno tanto amore e pensano al Paradiso».53

 

 

c. G. Cafasso. Un secondo effetto dell’amore di Dio è che dà la pace e la gioia: «La carità, l’amore che lo infiamma [il cuore del sacerdote], non solo toglie il peso delle sue fatiche, ma in mezzo alle fatiche, ed a tutte le croci di questa valle di lacrime gli da giorni i più belli, ed i più tranquilli del mondo. Tutti a questo mondo cercano la pace, la tranquillità, eppur così pochi giungono a ritrovarla, e perché? Perché si sbaglia da principio la strada, si cerca dove non v’è. […]. Se vogliamo adunque […] trovar la pace, trovar quiete tra le tempeste di questa vita mortale ecco il solo, e l’unico mezzo: cacciar dal nostro cuore tutto ciò che sa di mondo […] per darlo poi a Dio, ma darlo intieramente, darlo senza riserve, darlo irrevocabilmente».54

 

 

d. G. Allamano. Anche per l’Allamano l’amore, che si esprime nell’adesione alla volontà di Dio, produce felicità nel cuore. Occorre, però, staccarci dalle cose del mondo, perché il cuore non sta in sospeso, ma deve aderire a qualche oggetto amato: «E anche la santità più completa sta qui, perché se uno vuole solo quel che vuole il Signore…piova o ci sia il sole, stia bene o sia ammalato, abbia tribolazioni o no…, è sempre contento. […]. Ricordatevi, distacchiamo il nostro cuore (fa lo stesso cuore o volontà), distacchiamolo dalla stima del mondo, rinneghiamo noi stessi, e attacchiamolo solo a Dio. Se non lo attacchiamo a Lui, è inutile staccarlo dal resto. “Il mio cuore è tutto per Voi e non avrà pace finché non riposerà in Voi” (S. Agostino). […] Se farete questo in tutto, farete la vita più felice in questo mondo e avrete pace».55

 

 

e. G. Cafasso. Un terzo effetto dell’amore di Dio è che supera il puro dovere e rende generosi: «[…] carattere adunque del nostro amore verso Dio ha da essere la generosità; e perché il nostro amore possa esser tale voi sapete che non dobbiamo limitarci al puro dovere, a quel tanto cioè che siamo tenuti, ed obbligati verso Dio, lo che ci renderebbe giusti e niente più, ma se vogliam meritarci la qualità di generosi, è necessario varcar questo limite, e andare al di là, e v’andrà certamente l’Ecclesiastico quando ami il suo Dio. Il vero amante non mercanteggia colla persona amata, non sta contando i passi che fa per lei».56 Notando che talvolta la gente manifesta compassione per un sacerdote generoso e gli suggerisce di aversi cura, il Cafasso commenta: «oh! Anime semplici, e superficiali, ringraziamole della loro compassione, […ma] non sanno quel che si dicono, perché non vedono quel fuoco, che arde in quel petto, e che è niente in paragone di quello che vorrebbe fare; si logora la sanità, si abbrevia la vita, se volete sarà vero, ma non vedete che gli rincresce d’averne una sola da spendere pel suo Dio, ne vorrebbe avere cento da dargli, ed allora solo è contento quando la spende per Iddio, tale è […] la disposizione di un sacerdote che arda d’amore, tali sono i suoi giorni»».57

 

 

f. G. Allamano. L’Allamano ha compreso questo atteggiamento interiore dello zio, che non si è risparmiato, fino a dare la vita. Sentiamo questo commento, mentre parlava del desiderio che i santi hanno del Paradiso: «E così i santi tutti desideravano di essere sciolti per andare in paradiso. Il nostro Ven. Cafaso cercava il modo di uccidersi. Ma uccidersi senza fare male. Uccidersi da buon moralista colle fatiche e penitenze. E cominciò a non più mangiare. E così diceva Mons. Bertagna: Don Cafasso è morto tisico? No. Come è morto? È morto di sfinimento».58 Il Fondatore ha incoraggiato tante volte a non accontentarsi del puro necessario, ad essere generosi con il Signore, fino a dare la vita. La sua dottrina più esplicita la troviamo nelle conferenze sulle tre classi. Lì spiega i gradi di impegno: di chi è svogliato, di chi si accontenta e di chi non rifiuta nulla a Dio. «La terza classe è quella dei generosi che non escludono niente. Così dobbiamo essere noi, dobbiamo dire al Signore: io non voglio fare nessuna detrazione, sono un olocausto».59 In altra occasione, parlando di quelli della terza classe, osserva: «Danno tutto a Gesù: e questi sono quelli che sono più felici su questa terra; godono e si danno tutti al servizio del Signore in mezzo a tanti fastidi, e così sono sempre allegri».60 L’insistenza del Fondatore di appartenere alla classe dei generosi è in vista di tendere sinceramente ad una vita di santità missionaria. Per lui la molla che avrebbe fatto scattare questo impegno sarebbe stato solo l’amore sincero verso Dio. E ciò tanto più per i missionari: «per santificarsi […] come missionari ci vuole una qualità di amore in grado superlativo».61

 

 

g. G. Cafasso. Un quarto effetto dell’amore di Dio è che rende dolce la morte. Il Cafasso afferma: «Ma non bastano ad un amante del Signore le contentezze di questa vita, per grandi che già sieno, maggiori le saranno riservate al punto di morte, e nella futura eternità. Che consolazione non sarà per un’anima di Dio, per un buon sacerdote, allorquando trovandosi sull’ultimo di sua vita, sul finire de’ suoi dì, e pensi che va a trovare, andrà ad unirsi al suo Dio: quel Dio, che amò così di cuore, quel Dio che sospirò tanto tempo, quel Dio, di cui zelò cotanto l’onore, e la gloria, quel Dio che formava la sua delizia, quel Dio insomma che era tutto suo, con cui si può dire che era una cosa sola, un cuor, un’anima sola. Oh dolce pensiero sarà mai questo in quelle ore, oh che morte felice, che termine consolante de’ suoi dì, oh che bel passaggio da questo mondo all’eternità».62

 

 

h. G. Allamano. L’Allamano ha immaginato come si sarebbe trovato durante la sua morte. È curioso il racconto che inventa, parlando agli allievi, della sua sepoltura. Da esso emerge che, in punto di morte, è sicuro di sentirsi sereno, per il solo motivo che, durante la vita, è sempre stato in comunione di amore con Dio. Immagina che il suo corpo sarà deposto davanti alla statua della Madonna del Duomo, quella a cui ha voluto «più bene, dopo la nostra Consolata, quantunque è poi sempre la stessa Madonna. […]. Essa mi sorriderà». Immagina ancora che lo porteranno davanti all’altare del SS. Sacramento: «Voglio un po’ vedere se il Signore allora vedendomi, si compiacerà e vorrà darmi uno sguardo»,63 tanto è sicuro della compiacenza di Gesù! Parlando del Cafasso, l’Allamano riporta un pensiero interessante: «Il Ven. Cafasso diceva al Signore: Vi ho già amato così poco in questo mondo, perché dovrò ancora aspettare nell’altro?».64

 

 

6. L’AMORE DI DIO IN UN APOSTOLO

 

Uno degli effetti dell’amore di Dio,evidenziati sia dal Cafasso che dall’Allamano, riguarda l’idoneità della persona ad essere apostolo. L’amore di Dio rende l’apostolo credibile ed efficace, più apostolo.

 

 

a. G. Cafasso. Il Cafasso così si esprimeva parlando ai sacerdoti: «Di più l’amore non solo da il merito alle nostre azioni, e fa grandi le cose piccole, ma d’ordinario è quello ancora, da cui dipende il frutto delle nostre fatiche verso de’ prossimi: è vero che il Signore può operare, ed alle volte opera indipendentemente dalla nostra virtù, la sua parola, la sua grazia non è legata ai nostri meriti, nò; ma d’ordinario nell’ordine consueto della sua provvidenza s’adatta al personaggio, di cui si serve; ed in questo caso come farà frutto, come potrà riuscire ad eccitare amore negli altri, se lui ne è privo: qui non ardet, non incendit, diceva S. Gregorio. […]. Se vogliamo […], se ci sta a cuore di dar frutto ne’ nostri Ministeri, di guadagnar qualche anima, procuriamo che il nostro cuore sia come una fornace di amore, allora ci sarà facile con parole, con sospiri, con preghiere infuocate infiammare anche gli altri; con fuoco alla mano si può dar fiamma anche ad una selva».65

 

 

b. G. Allamano. Per l’Allamano l’amore di Dio è la condizione perché ci siano affidato il servizio apostolico: «Quando il Signore voleva affidare la Chiesa a S. Pietro, l’ha interrogato tre volte: Mi ami tu? […]. Lo interrogò tre volte, perché amare a farsi santi è la stessa cosa e voleva gli desse prova d’amore. Questo lo dice anche a noi; per avere la custodia delle pecore dobbiamo amare moltissimo. Vedete ci vuole il superlativo; un amore di terzo grado». Ed è qui che il Fondatore aggiunge quelle parole già ricordate: «come missionari ci vuole una qualità di amore in grado superlativo. Non dico che bisogna far miracoli, ma…».66 Ricalcando da vicino il pensiero del Cafasso, in altra occasione il Fondatore aveva detto agli allievi: «Noi Missionari [di carità] ne abbiamo uno specialissimo bisogno per poter poi infonderla negli altri».67 In breve, per ‘Allamano: «Un missionario deve aver carità, zelo per la salute delle anime; deve essere pronto anche al sacrificio di se stesso».68 Le virtù apostoliche sono: «1)Una fede vivissima, […]; 2) Amore ardentissimo a N. Signore; 3) Grande amore alle anime fino al sacrificio, fino a essere pronti a dar la vita se è necessario».69 Infine: «[lo zelo] Donde viene? Dall’amore di Dio e solo dall’amore di Dio: noi andiamo ad essere Missionarii per amore di Dio, non per capriccio. Questo zelo è effetto dell’amore: vediamo Gesù languire per le anime e vogliamo soddisfarlo. “Zelus est effectus amoris” (S. Agostino)».70

 

 

Conclusione

Come conclusione può essere utile rileggere la preghiera che il Cafasso pone all’inizio della meditazione “sopra l’amor di Dio”, come pure la sintesi che ne fa alla fine: «Amabilissimo mio Signore, io credo fermamente alla vostra divina presenza e prostrato a’ vostri piedi vi prego o Signore ad aumentare la mia fede, sicché possa in questa sera maggiormente conoscervi per maggiormente amarvi: ah! mio Dio io non vi domando beni di questo mondo, ma la grazia solo di amarvi, di amarvi grandemente: sì datemi o Signore il vostro amore, ed io sarò un Sacerdote il più contento di questo mondo. Vergine Maria che siete la madre del bell’amore, sì voi ottenetemi un cuore, che sia tutto fuoco, tutto carità. Angeli e Santi tutti del Cielo pregate, intercedete per me».71

 

Gli fa eco l’Allamano. Parlando alle suore dell’amore di Dio, dice: «Il Signore desidera che glielo domandiamo. Domandarlo alla Madonna, che è la Madre del bell’Amore. Domandiamolo ai Santi che si sono distinti nell’amore di Dio».72

 

Questa è la sintesi del Cafasso: «Ed eccovi […] spiegata la maniera pratica, e vera di amare Iddio: lo ripeterò brevemente: pentirci sovente d’aver offeso Iddio, guardarci ben bene dall’offenderlo in qualche cosa, procurarne in tutto i suoi interessi, soffrire volentieri per lui, conformar la nostra volontà alla sua, finalmente amare la sua presenza, la sua amabile compagnia. Felici noi se ameremo così in vita nostra finiremo per andarlo ad amare un dì e più ardentemente per sempre nella beata eternità».73

 

 

II. EUCARISTIA

 

 

Il biografo del Cafasso, l’Abate Luigi Nicolis di Robilant, riporta questo giudizio globale dei testimoni: «Naturale frutto dell’ardente vero amore di Dio che ardeva nel cuore del Santo, era la sua dolcissima devozione verso Gesù Sacramentato; devozione della quale, per distruggere i dannosi resti di servile timore e di freddezza lasciati dal rigorismo, egli era impareggiabile apostolo. Gli insegnamenti che intorno ad essa con volto raggiante e parole ardenti il Santo dava in conferenza e sul pulpito, basterebbe a dimostrarla eroica. Perciò […] esporremo […] com’egli attendesse alla celebrazione del Santo Sacrificio e a quelle visite quotidiane a Gesù prigioniero d’amore, che con tanta insistenza inculcava agli altri».74

 

Le testimonianze sulla pietà eucaristica del Cafasso sono molte ed edificanti. Ne riportiamo alcune dalla biografia: «Celebrava da santo» (Bargetto); «Le molteplici occupazioni non valsero mai a far tralasciare al Santo la visita giornaliera al SS. Sacramento» (Varelli); «[durante le Quarantore] Io lo guardavo ed ero quasi fuor di me per la meraviglia nel vederlo con un’aria così bella che m’incantava» (Pavesio); «Servendo alla Benedizione solenne, tantissime volte io lo contemplavo a lungo e non mi saziavo di guardarlo, restandone alla mia volta rapito» (Bargetto); «Essendomi a lui presentata un Sabato Santo con l’intenzione di fermarmi a Torino per le vacanze di Pasqua, quantunque si celebrassero al paese in quel triduo le Sante Quarantore: come, mi disse Don Cafasso, una solennità così grande al nostro paese, e voi ve ne restate qui? – Se potessi esentarmi dal mio uffizio, io vi volerei, per ricevere tutte le grazie che quell’Amore immenso si degna d’impartire ai suoi devoti; e voi ne venite via! Bel modo di ricevere un Re che si degna di venire in casa vostra, stare lontano da lui in compagnia d’altri. Là, tornate subito e presto, prima che si faccia notte, e fate maggior conto dei tesori che Gesù tanto desidera versare in abbondanza su tutti» (Benedetta Savio); «Una sera della Quarantore, i miei occhi caddero sul volto del Servo di Dio, e più lo osservavo, e più mi sentivo una voce ripetere al cuore: È un santo!» (Ellena).75

 

Le testimonianze sulla pietà eucaristica dell’Allamano sono altrettanto numerose ed edificanti. Dal processo di beatificazione emergono affermazioni come queste: «Dimostrava il suo fervore verso la SS. Eucarestia col modo con cui celebrava la santa Messa. Aveva un modo di celebrare pacato, tranquillo, senza movenze appariscenti; portava un’esattezza impeccabile nel compimento delle cerimonie, e dimostrava nello stesso tempo un garbo da vero santo» (Mons. E. Bosia); «Il Servo di Dio dimostrava la sua vivissima devozione al SS. Sacramento anche solo col modo con cui faceva la sua genuflessione dinnanzi al SS. Sacramento. Il contegno che teneva in chiesa, quanto nella celebrazione della santa Messa dimostrano quanto viva fosse la sua fede nella presenza reale» (Can. E. Bertolo); «Il Servo di Dio era dotato di grande pietà eucaristica; lo dimostrava col contegno che teneva davanti al SS. Sacramento, e particolarmente con la genuflessione fatta in modo inappuntabile. […] Ho notato che nella celebrazione della Messa sembrava un angelo; era edificante il suo contegno in ogni cerimonia e nell’attendere alla santa orazione» (Mons. E. Vacha); «Il Servo di Dio ebbe un’anima fervorosamente eucaristica.[…] Verso la fine [della vita], fu lui a chiedere con sollecitudine il Santo Viatico, che ricevette con grande fervore ed edificazione. Ricordo che prima di ricevere il Santo Viatico, volle domandare perdono a tutti; poi si raccolse in completa intimità, e dopo la comunione volle rimanere solo, per sfogare gli ardori del suo animo, e testimoniare la sua riconoscenza al Signore» (Can. G. Cappella); «Sentii sempre dire che il Servo di Dio era un’anima profondamente eucaristica, ed io ebbi occasione di constatarlo personalmente durante la lunga convivenza che ebbi con lui. Posso accertare che la S. Messa era il centro della sua giornata sacerdotale. […] Il suo fervore eucaristico poi lo dimostrava nelle raccomandazioni che faceva a noi, per la devota celebrazione della S. Messa, in modo che fosse di edificazione ai fedeli, e di esempio ai convittori. […] Fu un vero apostolo della Comunione quotidiana […], prevenendo le disposizioni che furono poi emanate più tardi, da S. Santità Pio X di s.m. Questa sua pietà eucaristica cercava di trasfonderla nei Convittori, onde a loro volta se ne facessero apostoli in mezzo alle popolazioni alle quali sarebbero stati destinati ad esercitare il loro ministero sacerdotale» (Mons. N. Baravalle); «Ritengo che il Servo di Dio si possa legittimamente chiamare una perfetta anima eucaristica; cercava pure di rendere tali tutti gli allievi affidati alle sue cure. […] Quando noi dell’Istituto s’andava alla Consolata – e ciò accadeva assai frequentemente – lo trovavamo sovente nei coretti del Santuario, raccolto in preghiera per la visita al SS. Sacramento. […] Sua preoccupazione continua era che i Missionari potessero celebrare quotidianamente la Santa Messa. Allo scopo studiò a lungo un sistema di altare portatile resistente alle intemperie, fornito di tutto il necessario perché i Padri potessero, pure in carovana, celebrare la S. Messa» (P. T. Gays)76.



Il Cafasso, durante gli esercizi spirituali ai sacerdoti e durante le missioni al popolo, non ha tenuto meditazioni esplicite interamente sull’Eucaristia, pur parlandone in diversi contesti. In quel periodo i temi di questo genere di predicazioni erano altri. Non abbiamo quindi la possibilità di seguire compiutamente e con ordine il suo pensiero e la sua spiritualità eucaristica. Riportiamo gli elementi che possediamo, seguendo una certa logica, collegandoli poi con quelli analoghi dell’Allamano. Illustreremo più diffusamente il pensiero del Fondatore, il quale ci offre molta materia su questo tema.

 

 

1. L’EUCARISTIA: MESSA - ULTIMA CENA - CALAVRIO

 

a. G. Cafasso. Parlando alla gente nella “Meditazione sulla Passione”, il Cafasso ricorda l’ultima cena e poi dice: «Ma prima che ce ne partiamo da quel posto in cui si trovava Gesù coi suoi Apostoli, lasciate che vi dia almeno un tocco sull’opera la più grande che abbia fatto un Dio in terra. Era come terminata quella cena coi suoi Apostoli, quando ché Nostro Signore ha preso un po’ di pane, ed alzando gli occhi al Cielo [N.B.: questo particolare non c’è nei Vangeli; il Cafasso lo prende dal Canone romano], l’ha benedetto, l’ha diviso, e poi ne ha distribuito una parte a tutti quanti dicendo: Prendete e mangiate questo è il mio corpo: hoc est corpus meum. E così farete voi dopo di me: hoc facite in meam commemorationem. Che miracolo, mia cara gente, anzi quanti miracoli in un solo: un Dio che si dà come cibo agli uomini, poche parole lo fanno discendere dal cielo in terra, l’umanità tutta intera di Gesù Cristo è contenuta in quelle poche specie: lì nessuno s’accorge, nessun segno di sua presenza. O santa fede, cosa mai ti dai a credere? Fortunato chi sa all’occasione avere questa gran fede!».77

 

Il Cafasso considera l’Istituzione dell’Eucaristia come massima espressione di amore di Gesù per l’umanità: «Ma quello che fa stupire di più, e che ci deve confondere si è che si sia determinato a tanto [cioè ad istituire l’Eucaristia] allora punto che gli uomini più si portavano male con lui, mentre un Giuda macchinava di tradirlo, mentre gli Ebrei lo cercavano a morte, mentre all’indomani sapeva di dover morire giustiziato su d’un patibolo, e mentre ancor prevedeva che tanti se ne sarebbero abusati con tante irriverenze».78

 

 

b. G. Allamano. Anche per l’Allamano, la Messa è l’attualizzazione della redenzione avvenuta sul Calvario: «Io vorrei che faceste grande stima della Messa…È certo che nella celebrazione della Messa si ricorda la Passione di Nostro Signore. S. Tommaso lo chiama un memoriale della morte del Signore. E nostro Signore stesso l’ha detto hoc facite in meam commemorationem, prima di andare a patire […]. Anche S. Paolo lo dice, mortem Domini annuntiabitis donec veniat, dunque è sempre il pensiero della Passione, ed è perché bisogna ricordarla spesso la Passione del Signore. […] È proprio il Calvario»79.

 

Per il Fondatore, inoltre, la celebrazione eucaristica ed è la massima espressione ed il centro del culto della Chiesa: «Certamente la prima, la più eccellente e potente orazione è la Messa. In essa parliamo all’Eterno Padre con Gesù; è Gesù che si offre e prega per noi; e soddisfa ai nostri debiti. Guai al mondo se non vi fosse la Messa. Al Sacrificio della Messa tendono come a centro tutte le altre orazioni dei sacerdoti, specialmente il S. Breviario»80.

 

Nella pedagogia dell’Allamano assume un valore speciale la comprensione dei quattro fini connessi con la celebrazione della S. Messa: «Ravviviamo bene la nostra fede. Se non fosse della Messa che si celebra continuamente, il mondo dopo tanti peccati non potrebbe più sussistere. Ora la Messa si celebra sapete per quattro fini specialmente. 1) l'onore che si deve a Dio dalle creature, e noi non saremmo capaci, ci vorrebbe un altro Dio, ebbene N. Signore lo rende lui stesso, e perciò l'eterno Padre riceve un onore Divino. Assistendo alla S. Messa voi potete dire: “O mio Dio, io vi rendo quell'onore che voi meritate”. 2) Dobbiamo ancora domandare perdono delle offese che gli abbiamo fatte; ma il nostro è debole, per quanta volontà abbiamo di non più offenderlo, è poco per placare una maestà infinita. Ebbene nella S. Messa Lui, N. Signore domanda perdono per noi, e l'Eterno Padre lo accetta per condonarci le offese. 3) Il terzo scopo della Messa è di impetrare grazia. Quando domandiamo noi non abbiamo nessun merito per essere esauditi, nella S. Messa N. Signore intercede per noi, ed è impossibile che non venga esaudito. Vedete l'importanza di ascoltarla bene per ottenere il perdono e le grazie di cui abbiamo bisogno. Questo è il terzo. 4) Ve n'è ancora un altro: il 4°. […] dobbiamo ringraziare Dio di tutti i benefizi che ci ha fatti. Quanti nella vita! Ricordatevi di questi quattro fini: l'importanza del S. Sacrificio, come dobbiamo essere desiderosi di ascoltare tante Messe quante più possiamo»81.

 

Riguardo il pensiero dell’Allamano circa la Messa, c’è da aggiungere questo aspetto interessante, che non ho trovato nel Cafasso, benché egli avesse una spiccata devozione all’Addolorata: vivere la Messa, proprio come se si fosse sul Calvario con Maria! Emerge il senso mariano dell’Eucaristia. La pietà mariana ha portato facilmente il Fondatore a comprendere in profondità la partecipazione di Maria alla Redenzione e, quindi, il suo speciale coinvolgimento nel mistero eucaristico. E ciò non solo perché è stata lei a formare il corpo di Gesù offerto sulla croce, ma anche perché ha partecipato, fisicamente e spiritualmente, allo strazio del calvario.

 

Ecco alcune interessanti espressioni del Fondatore. Iniziamo dal suo proposito da seminarista: «Voglio assistere alla Messa in compagnia di Maria SS. Sul Calvario, ed accostarmi alla Comunione con gli stessi sentimenti di Maria SS. al Verbum caro factum est»82. Nell’omelia tenuta il 6 dicembre 1914 per l’inaugurazione della cappella delle suore, dice: «Figuratevi in ogni Messa, come è vero, di assistere alla scena del Calvario, con Maria desolata, e pregare Gesù a versarvi sull’anima il suo preziosissimo Sangue. Durante la Messa si ottengono tutte le grazie»83.

 

Nella conferenza del 7 novembre 1915 su “Il Santo Sacrificio della Messa”: «La S. Messa è certo la più gran cosa e per essere degna bisognerebbe che Dio stesso la celebrasse. È lo stesso sacrificio della Croce; il sacerdote è solo ministro secondario; Gesù è la vittima e il primo ministro: è Lui che si offre, che domanda perdono, che ringrazia, che impetra grazie! Dobbiamo figurarci di assistere al Calvario con la Madonna e S. Giovanni»84.

 

 

2. L’EUCARISTIA: PANE VIVO - COMUNIONE

 

a. G. Cafasso. Nella meditazione durante le missioni al popolo, dopo aver detto che nell’Eucaristia è «un Dio che si dà come cibo agli uomini», il Cafasso, continua: «S’accostiamo a comunicarci? Ebbene è un Dio quello che andiamo a ricevere».85

 

Trattandosi, però, di un discorso alla gente, il Cafasso insiste sulla necessità di ricevere degnamente la Comunione. In questo contesto il suo discorso è piuttosto rovente, rispecchiando ancora un clima di una certa durezza, al quale peraltro lui aveva contribuito ad imporre una moderazione. Merita comunque ascoltare anche questo risvolto del pensiero del Cafasso, perché indica la sua illimitata stima per l’Eucaristia: «Ma guai a quella lingua, a quella bocca che col peccato mortale sulla coscienza avrà tanta temerità d’accostarsi […]. Sapete cosa va a ricevere una persona, che in cattivo stato s’accosta alla comunione? Riceve un Dio egualmente sì, ma riceve un Dio pieno di furore, e di collera, lo riceve per sua rovina, per sua condanna, e quella comunione invece di giovarle sarà la sua sentenza di morte, e morte eterna, sarà il sigillo di sua dannazione: Qui manducat, et bibit indigne, judicium sibi manducat et bibit».86 Detto questo, il Cafasso si riprende e aiuta gli ascoltatori con parole di speranza: «Che il Signore ci preservi tutti quanti, ma se avessimo qualche comunione, che ci facesse pena in nostra vita, non lasciamo passare queste belle giornate senza dimandarne perdono, senza piangere un sì grande peccato, […] e seguitiamo frattanto il nostro divin Redentore».87

 

 

b. G. Allamano. L’Allamano, pur insistendo sulle disposizioni per ricevere degnamente la Comunione, usa termini meno drastici del Cafasso. Nel periodo di tempo che trascorse tra i due si è verificato un cammino nella comunità ecclesiale, che ha modificato la sensibilità generale al riguardo. Il Fondatore è, come il Cafasso, un paladino della Comunione ben fatta. Praticamente trasmette agli allievi e alle suore l’esperienza spirituale che aveva maturato fin da seminarista. Egli non guarda tanto alla dignità della persona che riceve l’Eucaristia, quanto alla forza che promana dall’Eucaristia stessa in favore della persona. Inaugurando la cappella alla Consolatina il 6 dicembre 1912, dice alle suore: «Ma Gesù si pose stamane in questo S. Ciborio anche per farsi cibo delle anime vostre; anzi questo è il fine principale della sua dimora. Da quest'altare Egli vi ripete: venite comedite panem meum: venite e mangiate il mio pane, che è pane di vita; ego sum panís vitae»88 E il18 settembre 1921, in occasione dell’inaugurazione della nuova cappella in Via Coazze: «La S. Comunione è cibo […]. Il Signore stesso ha detto: Ego sum panis vitae, io vi do la vita. Ricevendo la Comunione le piccole miseriucce si cancellano. Il Signore è un buon medico e desidera sempre di farci del bene. Mai lasciare la S. Comunione; anche se si abbia un po’ di mal di capo, si faccia lo stesso; se non posso concentrarmi non farà niente, farò quel che posso»89.

 

È caratteristica l’insistenza del Fondatore perché l’Eucaristia sia un “pane desiderato”: «Se ci svegliamo di notte, ed al mattino appena alzati, immaginarci che il Signore ci dica, come a Zaccheo: Festinans discende, quia hodie in domo tua oportet me manere; e discesi in Cappella, al più presto possibile, dire al Signore: Mane, astabo et videbo – stamane starò e ti vedrò, ti conoscerò, o Signore. Queste sembrano piccolezze, ma servono molto; siamo tanto materiali che abbiamo bisogno di queste cose»90.

 

Infine, per il Fondatore, l’Eucaristia è un “pane da mangiare ogni giorno”. Nella conferenza del 21 settembre 1919 su “La S. Messa”: «La S. Messa è ordinata alla S. Comunione. Il celebrante si comunica sempre nella S. Messa; senza questa Comunione il Sacrificio non sarebbe completo. E voi che vi comunicate infra Missam [durante la Messa] ringraziate il Signore, perché prendete più parte al Sacrificio. Non è necessario questo, ma uno si unisce di più»91. E nella conferenza alle suore del 14 novembre 1915 su “Come assistere alla S. Messa”, c’è un testo mirabile al riguardo, che esprime molto bene il suo pensiero: «Giunti alla Comunione si fa o reale o spirituale. Messe se ne possono sentir tante, ma Comunioni sacramentali se ne può fare una sola! Eppure non mangiate mica una volta sola! Ma pazienza! Le facciamo spirituali…»92.

 

 

3. L’EUCARISTIA: PRESENZA REALE

 

a. G. Cafasso. Su questo aspetto il Cafasso si è dilungato maggiormente, inserendo il discorso nella meditazione sull’Amor di Dio. Nel pensiero del Cafasso, amare Dio significa anche desiderare e gustare la sua “presenza”, in particolare la presenza per eccellenza che è quella eucaristica.

 

Merita leggere le parole dirette del Cafasso: «Oh quanto è dolce conversar col Signore […]; proviamo e poi sapremo dire quanto sia affabile, soave e dolce il Signore con chi tratta con lui: noi possiamo trattar con lui ogni mattino allorquando l’abbiamo nelle nostre mani, noi possiamo conversar assieme mentre l’abbiamo sacramentalmente dentro di noi; ma questi tempi […] sono troppo brevi per un cuore che ama, con un Dio così amabile; io crederei cosa ottima che un’anima amante, tanto più un Sacerdote, si scegliesse un tempo ogni giorno per recarsi a visitare, a parlare, a conversare col suo Gesù Sacramentato. Oh!...quanto gusto non darà questo buon Sacerdote al suo Dio!».93

 

Più avanti, il Cafasso passa a descrivere di che cosa parlerà il sacerdote con Gesù Sacramentato, durante le visite, in un modo così intenso da sembrare «due d’accordo […] che concertino la riuscita di un affare»: «Oh! Tratta questo buon Sacerdote del suo luogo, che brama in paradiso, tratta della salvezza di un’anima, di cui teme, tratta di uno scandalo, che lo fa gemere, tratta di una virtù che desidera, tratta delle sue fatiche, tratta dell’ultima sua ora, del suo passaggio all’eternità; oh! Che momenti preziosi, che santi colloqui, che importanti conferenze lasciatemi dir così; io lascio pensar a voi […] a calcolare le grazie, i favori che sarà per riportarne, la pace, la gioja che lo accompagnerà; quanti lumi alla mente, quante inspirazioni, quante voci secrete al cuore, quanti ajuti, e favori, quanta copia di benedizioni alle sue parole, alle sue industrie, alle sue fatiche».94 Questo brano della meditazione del Cafasso può farci capire di che cosa un santo parla con il Signore, quando sosta davanti al tabernacolo. Diventa così un modello per noi.

 

Infine, il Cafasso trova che le visite private all’Eucaristia di un sacerdote sono di edificazione alla gente: «Ma vi è ancora un altro bene non piccolo di queste visite, ed è la gran impressione che fa nel popolo: è vero che noi andiamo a celebrare, interveniamo a tante altre funzioni, ma queste cose dicono che sono del nostro mestiere, e non ne fanno gran caso; […] ma se ci vedono così a frequentar la Chiesa fuori d’ora, a soli, in tempo che potessimo divertirci, non potranno fare a meno anche i maligni di pensare, e credere che noi abbiamo fede, che sappiamo chi abita in quel luogo, che siamo persuasi di quello che diciamo a loro: questa è una predica che ne vale cento altre, poiché è certo che gli esempi valgono più che le parole».95

 

 

b. G. Allamano. Per l’Allamano il tabernacolo è il centro della casa, il che significa: della comunità. Al piccolo gruppo di allievi alla Consolatina, il 28 luglio 1901 così scrive: «N. S. Gesù Sacramentato deve essere contento della corte che Gli fate e delle frequenti visite reali e spirituali. Il S. Tabernacolo è il centro della casa, ed ogni punto deve tendere come raggio colà. Quante grazie deriveranno su di voi e sui venturi missionari!»96.

 

Nel suo manoscritto della conferenza sull’Eucaristia del 13 giugno 1915, leggiamo: «La nostra dovrebbe essere una vita Eucaristica; la nostra mente ed il nostro cuore dovrebbero essere continuamente occupati del SS. Sacramento, non solo prima e dopo la Comunione, e nelle visite al SS., ma anche lungo il giorno durante lo studio, il lavoro... E non è il SS. il centro verso cui come raggi noi tendiamo? E Gesù dal tabernacolo che regge questa Casa, come tutte le Stazioni delle nostre Missioni»97.

 

Notiamo che il Fondatore, proprio su questo aspetto della presenza reale nel tabernacolo, ha espressioni veramente toccanti, che risentono della sua esperienza personale. Ascoltiamone alcune di seguito, per gustare anche noi la ricchezza spirituale del Fondatore e anche il calore del suo cuore: «Entrando, uno sguardo al tabernacolo, fare bene la genuflessione con una giaculatoria, coll’occhio verso il tabernacolo…Vi dico quello che sento…Vedete: a me piaceva tanto quando non c’era la tendina davanti al tabernacolo: pareva di essere più vicino al SS.»98.

 

«Quando ricevete nostro Signore nella S. Comunione, tenetelo nel vostro cuore, non lasciatelo più andar via. Il Signore è in Cielo e anche nel tabernacolo; e dal tabernacolo dirige tutta la casa. E’ lui il direttore; voi l'avete solo per voi. Il Signore nel SS. Sacramento è cibo, amico, vittima. Egli è nostro amico, quindi trattiamolo come amico; egli ci vuol bene e anche noi vogliamo bene a lui. Aver fede, pensare che è lì presente. Fare bene le genuflessioni, mandar via tutto quello che può distrarre. […] Quando si fugge una persona non si è amici; tra amici ci vuole unione. Quando andate via di chiesa dite al Signore che venga con voi, e non fate neanche un solo passo che non siate alla sua presenza»99.

 

«Vorrei farvi tutti devotissimi di N.S. Sacramentato. Vorrei che i vostri occhi fossero così fissi, cosi penetranti, che vedessero Gesù là entro... non è mica impossibile... ci vuol fede! - Quando si entra in Chiesa, subito lo sguardo al Tabernacolo - Lasciar parlare N.S.: sei un po' pigro, tenace di volontà, non fai proprio tutto per Me. Certuni vogliono sempre pregar loro, non lasciar parlare il Signore»100.

 

Per il Fondatore è importante, come lo era per il Cafasso, visitare il SS. Sacramento. Al tabernacolo bisogna ritornare sia di persona che con il cuore. Ecco la sua pedagogia: «E quando giunge il momento della Visita, essere contenti, pronti, non essere un po' scontenti che finiscano le altre occupazioni. Appena entrati in chiesa e presa l'acqua benedetta, subito gettare uno sguardo al S. Tabernacolo e penetrarvi sino al fondo; far bene la genuflessione dicendo: Adoramus Te, Christe, et benedicimus tibi; Vi adoro ogni momento... Sia lodato e ringraziato..., o qualche altra giaculatoria. Giunti al posto, se non sappiamo cosa dire, diamo uno sguardo a noi (per riconoscere la nostra miseria, la nostra debolezza, il nostro nulla), uno sguardo a Gesù (che è il nostro tutto), domandiamogli la sua grazia, ringraziamolo delle già ricevute»101.

 

«I nostri due amori: il Crocifisso e Gesù Sacramentato. Avere un tabernacolo ed è proprio vivo come in cielo […]. Almeno facciamo volentieri la visita, tenetela cara. Animarci a farla bene, andarci volentieri, fare silenzio prima di entrare: “pensieri del mondo, state fuori”, e vivere di fede […]. La visita alle 11, ¾ ed alla sera deve essere un piacere…dovreste stare come con un amico, poi stare bene, con fede e amore»102.

 

Visitare il tabernacolo significa anche adorare l’Eucaristia. Il Fondatore insegnava anche come fare l’adorazione. Su tutti evidenziamo questo testo, preso dalla conferenza del 27 dicembre 1908, per il suo significato di intensa spiritualità: «Siate dunque tanto divoti di Gesù Sacramentato, ... che avuto questo avete tutto... lo vedrete poi in Africa... Voglio che questa sia la divozione dell'Istituto... dev'essere di tutti... dei sacerdoti... ma voglio che sia nostra in modo speciale... voglio che siate tanti Sacramentini... potessimo avere anche noi l'Adorazione perpetua... vari Istituti l'hanno, anche quello della B. Barat... almeno la voglio assolutamente dal momento di mia morte a quello della sepoltura, voglio un po' vedere se il Signore non mi porterà subito in Paradiso, se non ci sono ancora... ricordatevelo anche che siate in Africa...»103.

 

Non potendo fare le visite frequenti come si vorrebbe, il Fondatore ha insegnato a ritornare con il cuore al tabernacolo, ovunque uno si trovi. Si tratta delle cosiddette visite spirituali. Su di esse il Fondatore ha molto insistito. Forse, assieme alle comunioni spirituali, le riteneva il mezzo più efficace per vivere il mistero eucaristico, al di fuori delle celebrazioni: incontrare spesso Gesù Sacramentato con il cuore, nel tabernacolo della propria cappella, oppure ovunque si vedesse una chiesa, anche da lontano, o addirittura solo pensata. Merita ascoltare di seguito le sue parole: «Mi raccontavano di là (i missionari) che il Sig. Prefetto, anche in ricreazione dava ogni tanto uno sguardo che si rivolgeva verso il tabernacolo, un momentino non era con la compagnia. Anche noi, scappare qualche volta col pensiero al tabernacolo»104.

 

«Partendo dalla chiesa, riterrete qui il vostro pensiero, per cui stando in qualsiasi angolo della casa, ed in ogni occupazione, penserete a Gesù che abita tra voi e solo per voi; gli manderete sospiri […]. Ecco la vostra amicizia con Gesù»105

 

«(durante il viaggio per S. Ignazio) Passando per i singoli paesi salutate Gesù Sacramentato che vi abita, forse in più posti, e dite un requiem ai defunti dei rispettivi Cimiteri. Così non dissipati arriverete al Santuario: Quivi salutate Gesù che vi aspetta […]. Siate come tante farfalle attorno a Gesù lucerna lucens et ardens»106.

 

«Il secondo metodo [per vivere la presenza di Dio] è quello di considerare Gesù nelle chiese: oh sono tante! Qui sopra poi è tutto per noi. […]. Quando i nostri missionari partivano da Torino e non potevano più fare la visita a Gesù Sacramentato, che facevano? Pensavano: da quella parte lì c'è Malta, e perciò c'è Gesù Sacramentato in qualche chiesa, e così facevano la visita. Questa non è una cosa immaginaria, perché Gesù è realmente presente nelle Chiese, e la distanza per lui non conta. Qualche volta è bello fare il giro di tutte le chiese di Torino... sono tante»107.

 

Nelle esortazione del Fondatore, moltissime volte si incontra l’espressione “uno sguardo al tabernacolo”. Con queste parole intendeva il rapporto di fiducia, l’intesa con il Signore. Era sicuro che, parlando così con Gesù sacramentato, si risolvevano tutte le cose. Per esempio, per l’esame di coscienza: «Ma per far bene l'esame, sapete cosa si richiede? Postici alla presenza di Dio (basta uno sguardo al tabernacolo, e dire: Signore, son proprio qui davanti a Voi!)»108.

 

Per superare le distrazioni nella preghiera, oppure per vincere le tentazioni: «Quando ci vengono distrazioni nell'orazione, non rompiamoci il capo per iscacciarle, ma rivolgiamoci con calma a N.S., diamo uno sguardo al S. Tabernacolo dicendo: Signore! Non voglio io far tutto per la vostra maggior gloria?»109. «Similmente quando vengono certe malinconie e tentazioni; davanti al S. Tabernacolo bisogna esser generosi, passarvi sopra»110.

 

 

Conclusione

Non c’è dubbio che il Cafasso era entusiasta dell’Eucaristia. Come conclusione di queste riflessioni, sentiamo le sue parole alla gente, espressione del suo cuore: «Siamo in chiesa davanti ad un’ostia consacrata, là vi è un Dio che ci sta ad osservare, un Dio in corpo ed anima, un Dio tal quale un dì si trovava su questa terra, un Dio come regna adesso glorioso in paradiso. S’accostiamo a comunicarci? Ebbene è un Dio che andiamo a ricevere, a trovare! Si va a sacramentar un ammalato, ebbene è un Dio che si va a confortare quella povera anima negli ultimi giorni di sua vita; si porta il Sacramento in processione, ebbene un Dio che cammina per le nostre contrade benedicendo le nostre case, le nostre campagne. Ed oh! Quante belle cose avrei a dirvi su questo punto, se il tempo me lo permettesse; il gran benefizio che sia stato questo per noi, il grande amore che c’abbia mostrato con ciò Iddio; si era protestato le tante volte che tutta la sua consolazione era di trattenersi con noi: deliciae meae esse cum filiis hominum, vedendo vicina l’ora di separarsi visibilmente da noi, perché doveva essere consegnato alla morte, ha pensato di non lasciarci, e di trattenersi continuamente con noi in questa maniera ben meravigliosa».111

 

Anche l’Allamano era un innamorato dell’Eucaristia. Ascoltiamo queste sue meravigliose parole: «La S. Messa, la Comunione e la visita, […] queste tre cose devono essere i nostri tre amori»112; «Il nostro cuore deve essere eucaristico. Dovremmo essere sacramentine, almeno col cuore»113. «È tale la nostra fede in Gesù Sacramentato? Così intima, viva e continua. Eppure Gesù è veramente con noi là nel S. Tabernacolo; e vi sta giorno e notte, e vi dimora solo per noi, come padre, padrone, amico... Pensa continuamente a noi per ajutarci... Lo crediamo? Sì, ed operiamo secondo questa verità, vivendo sempre sotto i suoi occhi, e tutto per Lui? Noi siamo più felici di quelli che vissero al tempo di Gesù in terra, perché essi lo possedevano in istato di infermità, noi di gloria; essi lo avevano solo ad intervalli, noi continuamente. Noi felici come i beati, perché non differenza sostanziale fra loro e noi. Quindi tanti innamorati del SS. che amano fare il paradiso p. [presso] il Tabern. Gesù vi è come vittima, cibo ed amico; vittima nella S. Messa, Cibo nella S. Comunione, ed amico nelle Visite al SS.»114.

 

 

III. MARIA SANTISSIMA

 

 

All’inizio della “Meditazione sulla Madonna Ss.ma”, durante le “Missioni al popolo”, il Cafasso si pone una domanda e fa una preghiera. La domanda è questa: «Chi è Maria?». E risponde a due livelli, uno della dottrina teologica e l’altro del cuore: «Chi è Maria? Maria è la madre d’un Dio, la principessa del paradiso, la Regina del Cielo e della terra. […]. Chi è Maria? Oh!...lasciate che ve lo dica con tutta l’allegrezza del mio cuore, Maria è la nostra cara madre, la nostra consolazione, la nostra speranza».115 Da qui si capisce il perché il Cafasso dia tanti titoli alla Madonna, per indicare la sua vicinanza a noi: «[Maria è per il sacerdote] la più tenera delle madri, l’amica, la compagna, la maestra, la confidente».116

 

Rifacendosi al Cafasso, anche il Fondatore risponde alla stessa domanda, senza peraltro porsela:«Come pure D. Cafasso diceva spesso, specialmente in confessionale, “Ricordatevi che avete anche una seconda Madre, Maria, che vi ama molto più che non la prima; s’intende però che non le prende il posto”. […]. In una madre si ha fiducia, le si vuole bene».117

 

Entrambi, zio e nipote, parlano della Madonna allo stesso modo di come vivono la loro pietà mariana, cioè a due livelli: quello teologico della fede, dicendo esattamente di lei quanto insegna la Parola di Dio, la tradizione di fede della Chiesa e la dottrina teologica; e poi il livello dell’amore filiale, che si fonda sull’esperienza della vita e lascia parlare il cuore.

 

In queste riflessioni seguiamo lo schema del Cafasso, come risulta dall’istruzione degli esercizi spirituali al clero, intitolata: “Il sacerdote devoto di Maria”, completandolo con altri suoi insegnamenti mariani e ripensandolo attraverso la comprensione che ne ha l’Allamano.

 

 

1. STIMA PER MARIA SS.

 

a. G. Cafasso. Per il Cafasso questo è il punto di partenza per maturare la pietà mariana: «Una condizione essenziale che si richiede e che forma il primo passo che deve fare il sacerdote per divenire veramente devoto di Maria, è questa, che cerchi e si studi di concepire, di formarsi di questa Madre un’idea, il più grande concetto, il più alto, il più sublime possibile. È impossibile che una persona porti un grande affetto per un’altra, senza avere per essa grande stima.».118

 

Nella spiegazione della “dignità quasi infinita” di Maria si nota tutto l’entusiasmo del Cafasso per lei. Sono la testa e il cuore che parlano assieme. Indubbiamente è l’esperienza personale del santo ad esprimersi: «Chi sia Maria, l’altezza della sua vocazione, la sublimità del suo stato, il grado delle sue virtù, l’ampiezza della sua gloria, la potenza del suo braccio, non ci è dato di capirlo quaggiù; bisognerebbe conoscere chi sia Iddio per sapere ciò che in Maria abbia operato questo medesimo Iddio. È un mistero questa gran Donna, e Iddio solo, che ne fu l’autore, la può comprendere e potrebbe lodare degnamente».119

 

Citando S. Bonaventura, il Cafasso afferma che «nemmeno Dio avrebbe potuto andar più in là e farla più grande […]: perché l’essere di madre è relativo alla qualità del figlio, onde, per darsi una madre maggiore, dovrebbe darsi un figlio più grande, il che non è solo impossibile, ma intrinsecamente ripugna».120 Ed ecco la conclusione: «Finché saremo quaggiù, non ci è dato di arrivare a comprendere l’altezza di Maria; solo in paradiso vedremo, studieremo, ammireremo per secoli eterni questo portento della divina potenza, questo arcano di quell’infinita sapienza; ma frattanto finché venga quel dì, alziamo le nostre voci insieme con quelle della nostra Madre a lode e gloria di quel Dio che così grandemente l’ha voluta esaltare: Magnificat anima mea Dominum…quia fecit mihi magna qui potens est».121

 

 

b. G. Allamano. Sappiamo quanto il Fondatore stimasse la Madonna. Per lui la Maria non era «un santo qualunque». 122La presenza di Maria nella sua vita era fondamentale. La stessa convinzione trasmetteva ai suoi figli e figlie. Per esempio, ecco come parlava alle suore il 29 agosto 1920: «Domani incomincia la novena della Natività poi quella del Nome di Maria; poi quella dell’Addolorata, poi quella della Mercede che è la Madonna degli schiavi, perciò un po’ nostra. Tutte in questo mese».123 Sembra un’espressione quasi ingenua, tanto più se si pensa che il Fondatore parlava solo di “novene” alla Madonna. Domandiamoci: come può una persona avere una memoria così viva e presente nei confronti della Madonna, se lei non fosse l’oggetto del suo apprezzamento e amore più totale?

 

 

2. LA STIMA FAVORISCE L’AMORE

 

a. G. Cafasso. Dalla stima sorgerà necessariamente l’amore. Qui il Cafasso si trova a suo agio e dà libero sfogo al cuore: «Quando l’ecclesiastico sia giunto a formarsi di Maria una idea, un concetto di questo genere, sarà facile a divenirne devoto. Ah! Un ecclesiastico che abbia il cuore ripieno di questa Madre, quante cose io mi prometto, io spero, io aspetto da lui! […] Che bel vivere quando la vita si spende sotto le cure e tra le carezze d’una tenera Madre. Nessuno più contento di questo figlio, nessuno più allegro, nessuno più confidente, più generoso, più amante di lui».124

 

Dopo aver descritto come si comporta un figlio tra le braccia della madre, così conclude: «Eccovi, fratelli miei, in questi pochi tratti il quadro, il ritratto del sacerdote devoto di Maria, e per spiegarmi ancora meglio, ecco l’ecclesiastico divenuto il bambino di questa tenera Madre. Maria, dopo Dio, è tutto per lui, non ha egli un oggetto che lo consoli, lo appaghi, lo incateni, lo sostenga tanto come il pensiero e l’affetto di questa Madre».125

 

Nelle missioni al popolo il Cafasso si è soffermato a spiegare il “perché” la Madonna ci ama tanto: «Ma e chi sa, qualcuno può dirmi, chi sa il perché la Madonna ci voglia poi tanto bene; eh!...mia cara gente, il perché è facile indovinarlo, e tra tanti altri motivi questi due i principali possono essere: primo perché gli costiamo così cari al suo Figlio, gli costiamo il sangue e la vita; secondariamente perché questo figlio istesso moribondo sul momento di spirare per noi ci ha raccomandati a Lei. […]. Era lì per finire i suoi dì per noi, era moribondo sulla croce quando ché voltandosi alla sua madre come la cosa più cara che avesse al mondo ci ha raccomandati a Lei con quelle belle parole: mulier ecce filius tuus; che è stato un dirle: Madre, me ne muojo, vi lascio, me ne parto da Voi, e sapete perché? Per riscattare tante povere anime che tutte erano in perdizione, io ve le lascio a Voi in mia vece, ve le raccomando al vostro cuore, ricordatevi solo che costan care, costano il sangue, e la vita del vostro figlio»126. Il discorso del Cafasso continua sullo stesso tono, carico di molta affettività. Pur tenendo presente che parlava al popolo, con lo scopo di scuoterlo e infervorarlo, non si può rimanere indifferenti di fronte ad espressioni così cariche di amore. È un Cafasso che si rivela come un uomo molto fine e sensibile!

 

 

b. G. Allamano. L’amore dell’Allamano per la Madonna è altrettanto forte e le sue espressioni sono altrettanto intense ed affettuose. Le conosciamo bene, ma ci fa piacere riascoltarne alcune. Per esempio, il suo legame personale con la Consolata risulta intenso anche da una semplice espressione come questa, tirata fuori improvvisamente, mentre trattava di tutt’altro argomento: «Oggi non ho visto la Madonna: stamattina, quando sono venuto via, era ancora chiusa; stasera sarà già chiusa; ed io non ho visto che la Madonna del Duomo, perché ho celebrato là la Messa cantata. Ho visto quella del Duomo, ma…non è la mia…».127

 

Ecco, tra le tante, una testimonianza significativa al riguardo: «Accennava spesso a quel suo posto preferito “dal quale si vede così bene la Consolata e le si è tanto vicini!”. Dopo averci un giorno parlato della Consolata, concludeva: “Che volete!…è una devozione che va al cuore. Se avessi da fare la storia delle consolazioni ricevute dalla Madonna in questi quarant’anni che sono al santuario, direi che sono quarant’anni di consolazione. Non è che non abbia avuto da soffrire; lo sa Iddio quanto! Ma lì, ai piedi della Consolata, si è sempre aggiustato tutto».128

 

Spiegando la pietà mariana secondo la dottrina del Monfort, diceva: «Il B. Luigi M. Grignon della devozione alla Madonna dice: che bisogna ci facciamo schiavi volontari della Madonna, “farci schiavi della Madonna” – come S. Francesco Zaverio che si faceva schiavo del Signore. […]. A noi piace di più essere figli. O schiavo libero».129

 

Il Fondatore giungeva a dettagli molto semplici, che però indicavano delicatezza. Per esempio, alle suore, parlando del mese di Maria, diceva: «Per essere devoti della Madonna bisogna usare mezzi esterni ed interni: […] A vedere baciare un’immagine della Madonna qualcuno dice: Roba da vecchi! No no, bisogna amare e rispettare tutto».130

 

L’intensità di fede e di affetto verso Maria, che il Fondatore intendeva trasmetterci, risulta da espressioni come questa: «Dunque questo mese [maggio del 1915] siamo tutti d’accordo per aumentare sempre più la devozione alla Madonna; e poi dopo continuare poi. Le pie pratiche, l’angelus, il Regina coeli, e le altre recitate con affetto, tutte e sempre, il Rosario con cuore, con entusiasmo».131

 

Si tengano presenti anche le varie espressioni con le quali il Fondatore indicava il nostro legame con la Consolata, come, per esempio: “figli prediletti”, la Consolata “nostra”, “vostra” e soprattutto “consolatini”: «Vi farei un torto a parlarvi di fare bene la novena della Consolata, il cuore stesso ci deve insegnare. Noi siamo Consolatini, figli prediletti della Consolata»132.

 

Oltre che dalla sua vita personale, l’intensità dell’amore dell’Allamano per la Madonna, risulta proprio da questo modo unico di esprimersi e di educare i suoi missionari e missionarie.

 

 

3. PENSARE E PARLARE SPESSO DI MARIA

 

a. G. Cafasso. Ecco un principio generale del Cafasso: «Quando si ama, è naturale che si pensi all’oggetto amato, se ne parli sovente e con gusto, si studia il modo di vederlo e di goder della sua presenza più che sia possibile».133 Il Cafasso enuncia questo principio, valido per ogni rapporto di amore tra due persone, ma poi lo applica alla relazione tra il sacerdote e la Madonna, con parole che meritano di essere ascoltate: «Così volete voi sapere se quell’ecclesiastico sia molto o poco devoto di Maria? Ponete mente ai modi che tiene, alle impressioni che mostra quando ne contempla le immagini, quando parla di Lei o ne sente parlare; penetrate ancora, se vi fosse possibile, nel suo interno per vedere e scoprire gli affetti, le tendenze e le mire: se lungo il giorno sa portarsi e frequentemente a Maria; se nelle angustie e vicende di questa vita confida nell’aiuto di Lei; se nell’esercizio del suo ministero, sul pulpito, al confessionale e nei discorsi familiari sa cogliere le occasioni più minute e più opportune per parlare di questa Madre, e si veda che questo non lo fa con arte, per sforzo ed apparenza, ma naturalmente, con gioia, con trasporto: se tanto vi risulta, conchiudete pure che egli è un vero figlio di Maria».134

 

In altre parole, il Cafasso dichiara che la presenza di Maria nella vita dei sacerdoti è sommamente importante, come del resto lo è anche nella vita dei cristiani. Per il Cafasso l’amore a Maria è il presupposto indispensabile per crescere nella santità: «A misura che andrà crescendo in lui [nel sacerdote] questo amore, questa devozione, crescerà nello stesso tempo tutto il corredo delle altre virtù, diverrà più staccato dalla terra, più zelante, paziente, umile e puro. E quindi quando avvenga di sentir parlare d’un sacerdote, che sia devoto di Maria, non cercate più altro, state certi che non può a meno che essere buono e forse di una bontà non comune».135

 

 

b. G. Allamano. E l’Allamano si trova su questa identica posizione, ma pedagogicamente pone attenzione ai suoi missionari e missionarie: «Presto siamo in maggio e dobbiamo passarlo bene; siamo figli di Maria Consolata. […]. Se devono essere divoti di Maria tutti, tanto più i Sacerdoti, tanto più i Missionari».136

 

Quando l’Allamano vuole ridurre in “unità” le espressioni della pietà mariana, pensa alla “Consolata”. Alle suore diceva: «Per voi quando si parla di Madonna, si sottintende sempre la “Consolata”».137 Gli inviti a vivere la pietà mariana sotto il segno della Consolata sono innumerevoli. Per tutti, risentiamo questo del 10 giugno 1915: «Farei torto a voi coll'invitarvi a fare bene la novena in preparazione alla Festa della Consolata, e così ad indicarvi come dovete farla. Basta sapere che ci avviciniamo a festeggiare la nostra cara Mamma per dire tutto. Non è infatti la SS. Vergine sotto il bel titolo di Consolata la nostra Madre, e noi i suoi figli? Sì, Madre nostra tenerissima, che ci ama come la pupilla de' suoi occhi, che ideò il nostro Istituto, lo sostenne in questi anni spiritualmente e materialmente, sia qui in Casa-Madre come in Africa, ed è sempre pronta a tutti i nostri bisogni, per cui io posso dormire i sonni tranquilli... Quasi le facciamo torto a rivolgerle quelle parole: Monstra Te esse Matrem; Essa piuttosto potrà rivolgere a noi: monstra te esse filium. Siamo figli della Consolata, e figli prediletti, ma praticamente ci dimostriamo sempre tali, con invocarla sovente, con onorarla in tanti modi possibili, e con ricorrere a Lei colla confidenza di figli tenerissimi. Procuriamo di ascoltarne i comandi ed anche i desiderii, che sono di farci buoni e santi».138

 

Pur con la battuta già ricordata (“a noi piace di più essere figli”), il Fondatore, in certo modo, fa sua la dottrina del Grignon di Monfort, che propone e spiega: «questa schiavitù consiste in questo: nel fare tutte le cose nostre con Maria SS., in Maria SS., per Maria SS., e da Maria SS. Dunque […] tutta l’esistenza dice che consiste in questo: nel fare tutte le proprie azioni “con, in, per, da Maria SS.”». E poi commenta: «In conclusione: facciamo tutto per la Madonna, in onore di Maria che è la dispensatrice di tutte le grazie:. Ecco questo è il pensiero dominante: tutto quello che farò intendo sia per la Madonna, io sono il suo schiavo».139

 

In definitiva, come per il Cafasso, anche per l’Allamano chi intende impegnarsi per una vita di perfezione deve farlo con Maria: «E bisogna che abbiamo l'intenzione di crescere sempre più nella divozione alla Madonna. Nessuno si fa santo se non è devoto della Madonna. Tutti i cristiani per vivere da buoni cristiani devono essere devoti alla Madonna e tutti i santi lo furono fino dai primi secoli. E tanto più i religiosi. Questo è il carattere distintivo di tutti i santi. Leggetene pure tutte le vite. E questa divozione serve non solo per vivere da buoni cristiani, ma anche per salire a perfezione è necessario essere divoti della Madonna».140

 

 

4. NON OFFENDERLA, NÉ DISGUSTARLA

 

a. G. Cafasso. Il Cafasso recensisce altri due segni che fanno capire se uno è devoto della Madonna, e sono questi: «che si guardi di offenderla, e che si sforzi d’imitare il suo Divin Figliolo».141 Lui lo dice del sacerdote, ma vale per tutti. E poi passa a descrivere, separatamente uno dopo l’altro, questi due segni.

 

Il primo è fondamentale perché tocca l’impegno di evitare ogni peccato: «E anzitutto guardarsi bene dall’offenderla, dal disgustarla e non solo in cose gravi e mortali […], ma anche in cose meno notabili e leggere. […] Tra due cuori che si amino veramente, tra due persone che facciano professione di amarsi, sono un gran male anche le più piccole inavvertenze, uno scherzo inopportuno, una parola sfuggita, un tratto mal misurato, la mancanza d’un qualche riguardo alle volte possono dar luogo a guai, a dissapori, a sospetti. […] O Sacerdote, che aspiri a divenire un vero figlio di Maria, io ti darei per regola d’aver sempre presente questo pensiero: cioè non fare mai una cosa che il cuore ti rimproveri possa dispiacere a Maria, di più non negarle mai nulla di ciò che ella possa gradire e desiderare da te».142 Questo criterio è davvero molto saggio e pratico! È evidente che deriva dall’esperienza di un santo.

 

Anche ai laici il Cafasso raccomanda di non disgustare Maria, perché sarebbe un’assurda risposta al suo amore: «Mia cara gente, io non chiamo tanto da Voi, meriterebbe ancora di più, ma io mi contento che le vogliate bene, che la amiate, almeno che non la offendiate: e che disgusto sarebbe per Lei, se ad onta di tanto amor, di tanta affezione che ha a noi, si vedesse poi mal corrisposta, e invece d’esser amata, fosse disgustata, fosse offesa!143

 

Come continuazione dell’impegno di non offenderla e non disgustarla, è anche importante l’atteggiamento filiale di “consolare” Maria addolorata. Il Cafasso, al dire dell’Allamano, che cita la biografia, era molto sensibile verso il mistero dei dolori di Maria: «Tra le devozioni alla SS. Vergine il nostro Venerabile aveva speciale quella dell’Addolorata (V. Vita)».144

 

Probabilmente questo atteggiamento di consolare la Madonna il Cafasso l’ha attinto anche dal suo rapporto con il santuario torinese. Questa è anche l’idea del suo biografo, il quale, appena dopo aver affermato che la devozione del Cafasso per l’Addolorata era speciale, continua: «L’anima di don Cafasso […] doveva di sua natura sentirsi attratta a partecipare alla devozione dei torinesi verso la Consolata. E che così fosse difatti, lo provano le deposizioni [processuali]. «L’icona del suo oratorio privato era un bel quadro della Consolata [Bargetto]». «Ogni sabato si recava a visitarla nel suo Santuario [Berti]». «Nella novena della sua festa vi andava a pregare, ed invitava i Convittori ad imitarlo; nella festa interveniva abitualmente alla processione; né si contentava di andarvi, ma vi mandava i Convittori allora presenti in Convitto [Allamano]».145

 

 

b. G. Allamano. Questo sentimento di non disgustare, ma anzi di consolare la Vergine Addolorata è proprio anche dell’Allamano, che lo comunica a suoi missionari. Ed anche l’Allamano lo ricollega alla propria comunione speciale con la Consolata, pensando che prima di essere consolata, la Madonna era addolorata. Ecco il suo schema per la conferenza della “Funzione della Desolata” del Venerdì Santo 1910: «Noi poi che siamo figli della Consolata abbiamo speciale dovere di consolare la nostra Madre perché sia veramente da noi consolata. Non è per nulla che portiamo sì bel nome. Per amore, per riconoscenza e per lo stesso nostro interesse».146

 

Così ha raccomandato di vivere il mese di maggio nell’anno 1911: «In una madre si ha fiducia, le si vuol bene. […]. Ma non basta amarla, bisogna fare qualche cosa di più particolare. Vedete, per onorare la Madonna ci sono […] delle cose da non fare e delle cose da fare. […]. C’è una sola cosa che spiace a Gesù, ed anche una sola cosa che spiace a Maria SS. – il peccato. […]. Non basta però fuggire il peccato mortale, bisogna fuggire anche il veniale. […]. Evitiamo anche […] quei capricci, quelle cose, quelle miserie, facciamo in modo di diminuirli sempre più, fino a non commetterne più nessuno apposta».147

 

 

5. IMITARE IL SUO FIGLIO GESÙ

 

Conosciamo la convinzione del Cafasso, in sintonia con la spiritualità di S. Francesco di Sales, sulla necessità di avere Gesù come primo e decisivo modello per la nostra vita. Sappiamo pure che l’Allamano ha fatto spontaneamente sua questa convinzione, proponendola con accenti personalissimi. Ciò che è interessante è che sia il Cafasso che lAllamano, subito dopo Gesù, indicano la Madonna come modello da imitare. Entrambi vedono in Maria come rispecchiata la figura di Gesù. Tuttavia, c’è un’accentuazione diversa tra i due: il Cafasso insiste sul fatto che Maria ci riconosce come figli se noi rispecchiamo in noi stessi le virtù del suo Figlio; mentre l’Allamano insiste sull’imitazione di Gesù e di Maria.

 

Anzitutto, Gesù è il modello per eccellenza. Oltre a quanto si può dire al riguardo parlando del cammino di santità proposto dal Cafasso e dall’Allamano, che entrambi si riferiscono al tsto di Mc 7,37: «Bene omnia fecit», ascoltiamo anche questi incoraggiamenti, incominciando dal Cafasso stesso.

 

 

a. G. Cafasso. «La seconda condizione, il secondo mezzo, non meno essenziale [il primo era: non disgustarla], perché possiamo piacere a Maria, è di renderci vere copie, veri ritratti del nostro esemplare il divin suo Figlio. […]. Egli ci lasciò in sua vece a possedere, ad occupare il proprio luogo dentro il cuore di Maria, sicché Ella guardandoci, amandoci, adoperandosi per noi, ci tenesse in conto di lui medesimo. […]. E quale sarà dunque tra i sacerdoti il vero devoto, il vero Figlio di Maria? Uno solo, e non altri, ed è l’ecclesiastico che si rende conforme a questo originale, l’ecclesiastico che forma in se stesso una copia, un ritratto di questo gran figlio di Maria. […]. Sicché, per così esprimermi, ogniqualvolta Maria di lassù lo rimiri, possa con verità sentirsi ripetere: - Mulier, ecce filius tuus: Madre, eccovi il vostro figlio, studiatelo, miratelo; Voi lo vedrete ed egli è proprio lo stesso perché a Lui propriamente rassomiglia; egli pensa, opera come il vostro Figlio; come Lui ritirato, attento, ubbidiente, affezionato a Voi; come Lui applicato unicamente agli interessi dell’Eterno suo Padre […]: in his quae Patris mei sunt oportet me esse».148

 

È quanto mai geniale e profondo questo modo di collegare l’amore per Maria alla necessità di imitare Cristo, suo figlio. Il Cafasso definisce Maria anche “maestra” del sacerdote per tutte le virtù, perché lei è la copia più fedele del figlio e mette in guardia il sacerdote poco devoto di Maria con queste parole molto forti: «io non spero gran cosa da un tale sacerdote, perché se non ha un gran cuore per la Madre, non può avere un gran cuore per il Figlio, per la gloria di Lui, per la salvezza delle anime».149

 

 

b. G. Allamano. La convinzione dell’Allamano che Gesù è il “modello” per eccellenza da imitare non c’è bisogno di illustrarla, tanto è evidente. Si può dire che lì sta il cuore della sua proposta per la santità missionaria. Invece notiamo la sua insistenza di prendere anche Maria come modello. All’inizio del mese di maggio del 1907, egli si domanda: «Che cosa faremo noi per passarlo bene?». Ed ecco la risposta immediata: «Bisogna imitarne le virtù e fare qualche pratica». Poi la conferenza si svolge sostanzialmente tutta sull’imitazione dell’ubbidienza di Maria e conclude: «I divoti di Maria non si dannano, ma i veri divoti, quelli che ne imitano le virtù. Facciamoci dunque generosi, buoni, santi Missionari».150 Notiamo che per il Fondatore i “veri” devoti di Maria sono quelli che la prendono come modello.

 

Il Fondatore in diverse occasioni porta Maria come modello da imitare. Per esempio, per la festa delle “Presentazione” del 21 novembre 1915: «Veramente la Madonna durante i tre anni che stette nel Tempio condusse una vita nascosta; fu il modello di un’anima che vive alla presenza di Dio. Pregava, lavorava, ubbidiva, faceva tutto secondo la regola. Esercitava la carità con tutte le sue compagne, e specialmente conduceva una vita interna con Dio: Tutte le persone che sono in comunità devono imitare la Madonna negli anni che Ella passò nel Tempio». 151 Così pure, per la “Visitazione di Maria SS. “, il 2 luglio 1916: «Ma quello che è certo è che S. Francesco [di Sales] voleva che [le sue suore] esercitassero le virtù principalmente che ha esercitato la Madonna quando è stata a visitare S. Elisabetta. Certo che la Madonna, le ha esercitate tutte le virtù in quei tre mesi, che ha passato là, ma l’umiltà e la carità principalmente. […]. S. Francesco voleva dire: fate anche voi quello che faceva la Madonna».152

 

Ripeto che il Cafasso insisteva sull’idea che la Madonna ci possa riconoscere come imitatori di Gesù e anche suoi, essendoci maestra di virtù. L’Allamano sottolinea piuttosto l’importanza di imitare anche la Madonna, oltre che il suo figlio Gesù. Sono due accentuazioni che possono essere utilmente associate, perché si arricchiscono a vicenda.

 

 

6. MARIA “COMPAGNA” E “MODELLO” DEGLI APOSTOLI

 

a. G. Cafasso. Ecco il pensiero di fondo del Cafasso: «L’altro frutto speciale [oltre al “vero spirito della nostra vocazione”] della nostra devozione a Maria sarà la sua assistenza e benedizione alle nostre fatiche, al nostro ministero. […]. L’ecclesiastico si prenda adunque Maria come compagna indivisibile in tutto il suo ministero: al confessionale con Maria, sul pulpito con Maria, con Lei in chiesa, con Lei fuori chiesa, in casa, fuori casa, coi sani, cogli ammalati; insomma non dia mai il segnale delle sue battaglie senza l’aiuto, la invocazione di questa Madre. Un’Ave Maria, una aspirazione, un bacio, anche uno sguardo solo, ma con fede, ad un’immagine di Maria, sia sempre il primo colpo, l’inizio dei suoi assalti e poi non tema».153

 

 

b. G. Allamano. Il Fondatore ha assimilato bene questa idea del Cafasso e, in certo senso, con la spiritualità del Monfort, l’ha ampliata, inserendola nello stile di vita del missionario. Sentiamolo nella conferenza agli allievi del 1 giugno 1916, a chiusura del mese di maggio: «E prima di tutto far tutte le nostre azioni in unione a Maria SS. Il Ven. Cafasso diceva che la Madonna bisogna prenderla come nostra socia in tutto. Socia in tutto. Prendiamola anche come modello di tutte le nostre azioni; questo vuol dire fare tutto con Maria SS.: prenderla per socia, per modello. In Maria assuefacciamoci a raccoglierci a poco a poco in noi stessi come in un oratorio con Maria, come una lampada che arde sempre alla sua presenza. Dunque quello che facciamo, facciamolo non solo ad imitazione della Madonna, ma anche nella Madonna. Terzo poi, fare tutte le proprie azioni per Maria SS., ossia fare tutto per la Madonna, per amore della Madonna. Tutto fare per farle piacere, come lo vuole lei, per piacere a lei. Dunque se vogliamo fare piacere a N. Signore in tutte le nostre azioni, bisogna che le facciamo che piacciano, e per piacere alla Madonna. In tutte le cose bisogna che ci domandiamo: Come le farebbe la Madonna? Facciamo tutto nelle sue mani, ed essa presenta tutto a N. Signore che è come padre, ed essa glielo presenta come se fosse roba sua e non nostra. E la Madonna certamente non vorrà scapitarne, e perciò aggiusterà tutte le nostre cose in modo che piacciano a N. Signore. È una devozione che serve molto. In conclusione: facciamo tutto per la Madonna, in onore di Maria che è la dispensatrice di tutte le grazie. Ecco questo è il pensiero dominante: tutto quello che farò intendo sia per la Madonna, io sono il suo schiavo».154

 

Il Fondatore si è riferito al Cafasso in diverse altre circostanze. Per esempio, alle suore: «Don Cafasso diceva ai suoi sacerdoti: Quando andate a predicare, associatevi con la Madonna. Andate a predicare tutti e due, e dite così: Io farò la voce, Tu farai la predica. Egli diceva che la Madonna era la sua socia. Tra tutti e due facevano tutto. Diceva che l’aiutava a far del bene. Otteneva la grazia, perché la predica si imprimesse nei cuori. Io veramente volevo togliere questa parola “socia”, eppure è lui che l’ha detta».155

 

Ancora alle suore, il Fondatore esprime un pensiero molto bello su questo tema, che racchiude diversi aspetti del nostro rapporto con Maria, sia per la vita personale, che per il nostro apostolato. E anche qui si aggancia sia al Cafasso che al Monfort: «Per meritarci la grazia di perfezionarci, facciamo tutto quello che dice il B. Monfort: eleggere la Madonna per nostra madre, farci schiavi della Madonna. Essa ci tratterà bene. Bisogna far tutte le cose da Maria, con Maria, in Maria, per Maria. […]. Don Cafasso diveva sempre: Quando andate a predicare, prendete sempre assieme la Madonna. Far tutto con Maria, tutto in unione a Maria, , come se fosse Lei che lavorasse dentro di noi. Non andiamo mai a N. Signore se non per mezzo di Maria. Se egli volesse direttamente darvi qualche cosa, ditegli: No no, datemelo per mezzo di vostra Madre. Mettiamo tutto nelle mani della Madonna. […]. Prendete tutto dalla Madonna; quando saremo poi tutti suoi, allora non ci mancherà poi più niente».156

 

C’è un aspetto molto conosciuto, che accenno soltanto, dal quale emerge il rapporto del Fondatore con la Consolata, riguardo al suo ministero. Mi riferisco al suo modo di definirsi “custode”, “tesoriere” e “segretario” della Consolata. Si immaginava veramente in piena collaborazione con lei per ogni sua opera apostolica. Questa convinzione è maturata presto in lui. Si pensi che già, il 12 agosto 1882, l’Allamano scriveva al chierico Luigi Boccardo, per risolvere una questione di morale: «La cara Consolata nel cercarmi a suo Custode e Segretario mi pose per condizione di soddisfare a tutti i suoi conti e rispondere a tutte le sue relazioni, e da Regina che è del gran numero di miserabili non mi dà poco da fare»157 Commentando questa espressione, P. C. Bona scrive: «La coscienza di essere dispensatore privilegiato delle tenerezze materne della Consolata si rafforza con il passare degli anni».158 Per quanto riguarda l’origine dell’Istituto, si pensi alla sua convinzione che la Consolata era addirittura la “Fondatrice”. Più di Così!

 

 

7. MARIA VICINA IN PUNTO DI MORTE.

 

Un delicato desiderio del Cafasso come dell’Allamano era di avere la Madonna vicina in punto di morte. Merita di essere ancora ricordato un aspetto legato alla nostra spiritualità mariana. Il Fondatore diceva: «Desideriamo che Maria SS venga ad assisterci in punto di morte. I Santi lo desideravano. Il Ven. Cafasso diceva: Ah se potessi averla accanto al letto di morte!... E l'ha avuta».159 Di fatto il Cafasso, nella meditazione sulla morte del giusto, rivolge questa implorazione alla Madonna: «Oh!...fosse un po’ vero, o cara Madre, che nelle mie agonie […] vi vedessi con questi miei occhi a comparire; oh che speranza mi darebbe un’occhiata di quei vostri occhi, una parola sola che sortisse da quelle labbra […]».160

 

Ancora il Fondatore: «Se la Madonna mi dicesse: Vuoi sentirla la mia voce? – No, no, direi, la sentirò poi in Paradiso: Se vuol venire ad assistermi in punto di morte, bene; questo lo desidero».161 Sr. Emerenziana Tealdi depone al processo: «Soleva il Servo di Dio ricordare che il Beato Cafasso era solito recitare un’Ave Maria per ottenere la grazia di vedere la Madonna in punto di morte; ci suggeriva di fare altrettanto per avere anche noi quella grazia segnalatissima».162

 

Concludo con la testimonianza della nipote Pia Clotilde: «Ricordo le parole rivoltegli dal Card. Gamba poche ore prima della sua morte: “Canonico, la Consolata che ella ha servito per quarantatre anni, è sulla soglia del Paradiso che lo attende”. Ed egli sorrideva guardandone l’effigie».163

 

 

Conclusione

Come conclusione di queste riflessioni, leggiamo due preghiere personali, una del Cafasso e l’altra dellAllamano.

 

Preghiera del Cafasso prima di iniziare la meditazione sulla Madonna durante le missioni al popolo: «O Maria, tocca a voi in quest’oggi a venir nel mio cuore, sulla mia lingua, parlo volentieri di Voi, e me ne vedete il cuore, ma ho paura, anzi sono sicuro di non parlare secondo i vostri meriti, ho paura che le mie parole invece d’esaltare che oscurino invece la vostra grandezza, la vostra gloria. Ma fate Voi, o cara Madre, fate voi dove non possono arrivare le mie poche forze, comunque sia la mia fatica, sarà sempre grande il frutto che abbiamo a sperare, se voi dal Cielo, l’accompagnerete colle vostre preghiere, colla vostra protezione, come spero».164

 

Preghiera dell’Allamano a Dio e alla Consolata trascritta dalle suore al termine della conferenza del 10 giugno 1915: «(Preghiera del Ven.mo Padre) Vi ringrazio, mio Dio, di avermi creato, fatto nascere da parenti buoni e cristiani, di avermi fatto ricevere il Battesimo, una buona educazione. Vi ringrazio di avermi lasciato passare l’infanzia in questi tempi burrascosi senza vedere tanto male; vi ringrazio dei Sacramenti, delle tante grazie ricevute, dell’Ordinazione sacerdotale. Ringrazio più voi, o Maria, che il Signore di essere già da 35 anni vostro custode. Che cosa ho fatto in questi 35 anni? Se fosse stato un altro al mio posto, che cosa avrebbe fatto? Ma non voglio investigare; se fossi tanto cattivo,non mi avreste tenuto per tanti anni: è questo certamente un segno di predilezione. Se ho fatto male, pensateci, aggiustate voi, e che sia finita; accettate tutto come se l’avessi fatto perfettamente. Non voglio sofisticare, prendete le cose come sono; mi avete tenuto, dunque dovete essere contenta. – E mi pare che la Madonna abbia sorriso».165

 

 

IV. PREGHIERA

 

 

Al dire di quanti li hanno conosciuti, sia il Cafasso che l’Allamano erano veri “uomini di Dio”, con una vita di intensa preghiera. Quando pregavano entrambi entravano in una tale comunione con Dio che sembravano “angeli”. Del Cafasso, un testimone ha lasciato detto: «Mentre pregava don Cafasso appariva assorto in Dio da sembrare più angelo che uomo» (Motta).166 Dell’Allamano, un testimone ha affermato: «Ho notato che nella celebrazione della Massa sembrava un angelo; il suo contegno era edificante in ogni cerimonia e nell’attendere alla santa orazione»(Mons. E. Vacha).167

 

Zio e nipote, oltre a sembrare angeli, erano due santi attivi: lavoravano molto e pregavano molto, capaci di integrare armonicamente preghiera e lavoro, perché la loro personalità era unificata.

 

Del Cafasso, infatti, ha potuto dire il sacrestano. Bargetto: «Quante volte, dovendo recarmi per commissioni nella sua camera lo trovai inginocchiato a pregare».168 Il Cafasso stesso ha detto: «Finalmente dopo aver pregato, e prima e nell’atto di faticare, la preghiera deve essere ancora il nostro sollievo. […] Chi non ha il cuore pieno di Dio […], quando ha lavorato, per rifocillarsi per respirare si va a gettare nel mondo, tra il tumulto, le conversazioni, i divertimenti; ma l’uomo apostolico va a trovare Dio, va a riposarsi in Dio».169

 

Dell’Allamano, il domestico Scovero la lasciato questa testimonianza: «Ho già riferito come il Servo di Dio fosse dotato di grande spirito di preghiera. Vivendo al suo fianco per tanti anni, ho constatato che pregava e con fervore in camera sua, nel Santuario, nei coretti, ed anche durante i viaggi, e faceva pregare anche me quando lo accompagnavo».170

 

Il Cafasso e l’Allamano sono per noi due testimoni e maestri di preghiera. Impostiamo questa meditazione partendo da un’espressione del Fondatore detta verso la fine della vita: «Aver lo spirito di preghiera, pregare molto e bene. L'altro giorno leggevo su antichi foglietti che ho conservato, foglietti di un predichino che ho fatto in seminario (ero giovane allora!) e incominciavo proprio così: Pregar molto e pregar bene. Vedete, quello che penso adesso lo pensavo già allora!».171

 

E questo “molto e bene” è stato anche il contenuto essenziale della sua proposta ai missionari e alle missionarie riguardo la preghiera: «Ricordatevi che avete il proponimento [in comune per alla fine degli esercizi spirituali del anno 1921 - 1922] di pregare molto e bene. Sono due parole che bisogna ricordare sovente, massime in questi giorni [di carnevale]. Ricordatevelo e pregate sempre bene».172

 

 

1. GESÙ MODELLO DI PREGHIERA

 

Secondo la loro “forma mentis”, sia il Cafasso che l’Allamano trovano che Gesù è il primo e vero modello di preghiera, come lo è di ogni altra virtù. Ciò vale per la qualità e quantità della preghiera, come pure la sua proporzione in rapporto al lavoro.

 

a. G. Cafasso. Il Cafasso ha trattato questo tema durante gli esercizi spirituali ai sacerdoti, nella meditazione sulla «Vita pubblica di Gesù» Ad un certo punto, egli fa questa considerazione: «Ad esempio di questo divin Redentore abbia l’uomo Apostolico, il Sacerdote, i suoi tempi fissi per la preghiera, un po’ di meditazione, di lettura, qualche visita, un po’ d’adorazione al Sacramento, la Recita del Rosario, la rivista della giornata, e andate dicendo». E per chi obietta che non ha tempo, né salute, né voglia di pregare, subito risponde: « […] e non aveva da fare il Redentore, eppure che faceva: lasciava tutti, abbandonava ogni cosa, e si ritirava a solo per raccogliersi, e pregare, e con ciò species tibi datur…forma prescribitur [ti dà l’esempio] del come devi far tu».173

 

E più avanti spiega che il Redentore «all’improvviso, all’impensata di tutti nel parlare, nel predicare, e nello stesso conversare or alzava il capo al Cielo, or ne dava uno sguardo, or gemeva, or sospirava; internamente poi, e tra se e se chi sa quante volte con impeti di cuore, con voli, e slanci di fede si portava al Padre, con lui conversava, e trattava alla domestica, e famigliare; questo sì che è proprio pregare».174

 

Lo stesso tema è sviluppato anche nell’istruzione sulla “Orazione” propria del sacerdote. Modello insuperabile è sempre Gesù: «Il divin Redentore, Capo e Maestro di tutti i sacerdoti, ogni qualvolta poteva godere qualche momento di respiro dalle continue sue fatiche, come leggiamo nel Vangelo, si ritirava e pregava».175

 

 

b. G. Allamano. Anche per il Fondatore, il modello più convincente di intensità nella preghiera e di equilibrio tra lavoro e preghiera è Gesù.

 

Seguendo quasi alla lettera lo sviluppo della meditazione del Cafasso sulla vita pubblica di Gesù, fa queste riflessioni: «N. Signore si preparò alla Sua Celeste missione colla preghiera nella casa di Nazaret e prossimamente con quaranta giorni nel deserto. Durante poi le sue fatiche apostoliche si ritirava di tanto in tanto a pregare, e vi passava anche le notti intiere: erat pernoctans in oratione Dei. […]. E durante il lavoro apostolico sollevava sovente gli occhi e la mente al Suo Eterno Padre. Perché così fece Gesù, che essendo Dio era sempre unito al Padre, quindi non aveva bisogno di tali esterne dimostrazioni di preghiera? […] (V. Pred. cit.). Gesù aveva più a fare che noi…, doveva in tre anni compiere la Sua missione ben più alta ed estesa della nostra, eppure si ritira e prega, e con ciò non teme di perdere tempo o sottrarlo al maggior bene delle anime per cui era venuto dal Cielo, e di cui era sitibondo. No Gesù non la pensa così».176

 

 

2. PREGARE MOLTO (SEMPRE)

 

Entrambi, zio e nipote, parlano della fedeltà alle pratiche di pietà, stabilendo per esse «tempi fissi».177 Ma questo non basta, perché Gesù ha detto di «pregare sempre, senza mai cessare» (cf. Lc 18,1).

 

 

a. G. Cafasso. Il Cafasso, dopo aver incoraggiato a seguire Gesù che si ritirava a pregare, così continua: «Inoltre, in aggiunta a questi tempi o meno determinati per la preghiera, ad imitazione sempre di questo grande Maestro, dobbiamo procurare nel corso della giornata, prima di mettersi a dar mano a qualche opera, nell’esercizio medesimo del nostro Ministero e fino dopo d’aver faticato di tener rivolto il nostro cuore a questo Dio appunto col mezzo, e colla pratica dell’orazione. Già voi m’insegnate che non è necessario per questo star tutta la giornata in ginocchio, ne recitare continuamente preghiere vocali, lo faceva nemmeno il divin Redentore, e sarebbe impossibile, ma ci vuole che il nostro cuore si porti soventi a Dio, tenga una via aperta, e mantenga una continua relazione con Lui, sicché capitando un bisogno, trovandosi in un cimento, abbisognando di qualche lume sia un momento portarsi a lui, parlargli, farci intendere senza che ci voglia né fatica, né tempo, come appunto faceva il divin Redentore. […]. Ecco in questo piccolo quadro un Sacerdote, ed un uomo di preghiera: se ha qualche ritaglio di tempo lo gode, lo consacra a sì fatto oggetto; se no saprà trovare il modo di conciliar l’uno con l’altro: con aspirazioni, con sguardi, con slanci del suo cuore sa supplire, e mantener viva la sua relazione con Dio, e non occorre che altri glielo dica, lo ecciti, e gli insegni; sa farlo da se, e con facilità, con prontezza, con destrezza, lavorando, camminando, anche conversando, ridendo, e nel farlo vi prova un contento, una gioia, una soddisfazione, che chiunque lo vedesse, lo potesse conoscere, direbbe: lasciatelo pregare, che è un uomo fatto per questo».178 Chi non vede, in questa descrizione, l’immagine del Cafasso stesso? Qui non siamo nel livello della dottrina, ma della comunicazione di esperienza personale.

 

Il Cafasso riprende il tema nell’istruzione sull’orazione, con parole altrettanto incisive. Spiegando che il sacerdote è “uomo di preghiera”, afferma: «Ama l’orazione, la gusta almeno con la volontà e non sa allontanarsene, non sa lasciarla. Osservatelo in casa, in chiesa, perfino nelle contrade, voi lo vedrete pregar continuamente: se studia, prega: se lavora, prega: se si diverte, prega: se mangia, se dorme, prega. – Ma come può essere? È dunque sempre in ginocchio? – Non è necessario questo: egli prega, perché quel che fa, qualunque sia la cosa, lo fa con quel fine, cioè a dire per l’onore, per la gloria del suo Dio, pensa a Lui, si slancia verso di Lui, parla con Lui. E non crediate già che fatichi; per lui è una delizia una gioia più che un peso il pregare; non crediate d’allontanarlo e farlo desistere, perché ovunque, in tutto, senza che voi lo sappiate o vi accorgiate, egli prega, egli tratta e conversa col suo Signore».179

 

Anche qui una comunicazione di esperienza di vita. Si noti anche il “tono caldo” di questa esperienza. Il Cafasso si dimostra un uomo pieno di affetto interiore per Dio, un santo felice, con la gioia profonda dentro. Notiamolo perché anche nell’Allamano c’è lo stesso tono caldo e felice. È il livello della santità!

 

 

b. G. Allamano. Per il Fondatore non basta pregare qualche volta, ma occorre avere un atteggiamento continuo di preghiera. Sentiamolo dalla sua voce: «Non basta pregare in certi tempi determinati, mattino, sera, prima del pranzo e della cena, bisogna pregare sempre: oportet semper orare: coi sospiri e giaculatorie, lungo tutto il giorno, e svegliandosi di notte…».180 E più avanti: «Lo spirito di preghiera:. “Oportet sempre orare”, non sempre colle mani giunte e in ginocchio, ma lungo il giorno, in ricreazione, non passar la giornata con la testa in aria».181 «Sempre pregare non vuol mica dire stare sempre inginocchiati, sempre…Indica qualunque modo di queste orazioni che vi ho dette. Anche mentre si lavora si può sollevare il cuore a Dio». Chi non risente lo spirito del Cafasso in queste espressioni? Sono del Cafasso, ma sono diventate ugualmente dell’Allamano!

 

E continua nella stessa conferenza: «Il Ven. Cafasso diceva: Il mestiere delle persone consacrate a Dio è pregare. - Bisogna che siamo persone di orazione, che tutto quel che facciamo l'indirizziamo a Dio».182 In altra occasione: «S. Paolo dice che bisogna pregare in tutti i posti183, non solo in chiesa, dappertutto; e poi dice che bisogna pregare sempre: Oportet sempre orare…184 Oh! Anche mentre dormiamo? Sì, e lo dice anche la Sacra Scrittura che si può dormire e vigilare. Si fa così: ci si addormenta pregando».185

 

Il Fondatore chiarisce la natura delle pratiche di preghiera: «[…]; ma questi sono atti di preghiera, non abiti che formano lo spirito di preghiera. Eppure Gesù ha detto: oportet semper orare, et non deficere: bisogna pregare sempre giorno e notte e senza interruzione; che vuol dire essere come investiti dello spirito, come l’abito riveste tutto il corpo Come ciò ottenere? [….] Si pone la vera intenzione di pregare non solo in Chiesa, ma dovunque: in omni loco; di pregare vocalmente e mentalmente, con giaculatorie e aspirazioni. Il tutto più frequentemente possibile, usando pure industrie per scuoterci e ricordarcene. Allora nel tempo che ci sfugge o che non possiamo tenere la mente a Dio basta il riferire [sottolineatura mia] tali azioni a Dio, e tutto resta preghiera secondo il detto ben interpretato: chi lavora prega».186

 

In definitiva, sia il Cafasso che il Fondatore puntavano non tanto sul recitare molte formule di preghiera, quanto sull’avere lo “spirito di preghiera”, il che significa, oltre alla fedeltà a tutte le pratiche stabilite, per usare le loro parole, “portare il cuore sovente a Dio”, “tenere una via aperta”, “mantenere viva la relazione con Dio”, “ pensare a Dio”, “slanciarsi verso Dio”, “indirizzare tutto a Dio”, “sollevare il cuore a Dio”, “riferire le azioni a Dio”.

 

 

3. PREGARE BENE

 

Ovviamente non basta pregare “molto”, ma occorre anche pregare “bene”. Questo principio, riferito alla preghiera, è collegato alla concezione che sia il Cafasso che l’Allamano avevano della perfezione cristiana: il bene fatto bene! (di cui diremo in altre meditazioni).

 

 

a. G. Cafasso. Il Cafasso affronta questo aspetto nell’istruzione ai sacerdoti sull’orazione. Prima di tutto si rivolge a coloro che dicono di non saper pregare e così li incoraggia: «Non sai pregare? Entra qui S. Agostino, ebbene guarda, mettiti ai piè della Croce, prostrati davanti a questo Dio, o poi pensa o dì quello che tu vuoi, perché tutto è preghiera; sia che adori, sia che ammiri questo Dio, sia che lo lodi, lo ami, lo ringrazi, ti rallegri con Lui, tutto è orazione, è preghiera davanti a Lui: adoremus, admiremur, laudemus, amemus, gratias illi agamus, gratulemur. – Che campo! Quale materia da trattare col Signore!».187

 

Il Cafasso descrive una triplice categoria di sacerdoti riguardo al modo con cui pregano: quelli «volontariamente distratti, divagati e non badano a ciò che dicono; di questi non parliamo, poiché sono ben lontani dal compiere il proprio dovere di pregare». Una seconda categoria è di quelli che pregano, «ma si vede che lo fanno a stento e scarsamente, ed appena possono dir compiuto il puro e stretto obbligo materiale non vi pensano più; e questo dico che non basta». Infine c’è la terza classe dei quali descrive l’identità spiegando che cosa significhi essere “uomo di preghiera”: «[…] uomo di orazione vuol dire un uomo del mestiere». E poi spiega ciò che significa l’espressione “del mestiere”, ma ne riparleremo più oltre.188

 

 

b. G. Allamano. Il Fondatore non si limita ad indicare l’obiettivo di pregare molto, ma insegna anche “come” si deve pregare, cioè: “bene”.189 A volte scende anche a particolari molto pratici. In ciò si nota che , come educatore, comunica la propria esperienza.

 

Come punto di partenza, è necessario sentire la responsabilità di dover pregare bene: «Bisogna pregare bene, perché pregando male s’insulta nostro Signore, perciò è meglio non farlo. Perché borbottare davanti a N. Signore? […]. Per dire male una preghiera, una giaculatoria, o far male un segno di croce è meglio non farlo perché si manca di rispetto al Signore».190 Fatta questa premessa, il Fondatore indica dei modi o mezzi per pregare bene.

 

Il primo modo per pregare bene è quello di prepararsi prima: «Ci son di quelli che si lamentano di essere distratti nel tempo delle preghiere: e non pensano che è perché non si preparano prima di mettersi a pregare e non rimuovono tutto ciò che impedisce loro di stare attenti».191 Su questo aspetto giova ricordare quanto il Fondatore diceva circa la presenza di Dio, che fa evitare la dissipazione e tiene collegate tra di loro le pratiche di preghiera, che altrimenti sarebbero come oasi, al di fuori delle quali tutto è arido.192

 

Il secondo modo per pregare bene è quello di fare attenzione a quanto si dice, evitando il più possibile le distrazioni. Questo è il modo più sviluppato dal Fondatore: «Per pregare bene bisogna mettere attenzione alle parole, al senso, a Dio: ad verba, ad sensum, ad Deum.193 Attenzione alle parole: non tralasciarne, perché il demonio si fa delle gorbe [ceste] di pezzettini di parole. Attenzione al senso: quando pregate pensate a quello che dite […]. Attenzione a Dio: pensate che parlate al Signore. […].».194 «Dunque guardate che adesso dovete pregare meglio e soprattutto pregare colla mente e col cuore, e per giungere a questo bisogna stare attente a quel che si dice. Quando recitiamo le Litanie della Madonna perché non stare attenti!?...Quando si dice: Stella mattutina, perché non dire alla Madonna: Maria, sii la mia stella? E così in tutte le altre. Ah, se si sta attenti! Bisogna far le cose con fede, non lì…così…».195

 

«Non basta con la lingua, se no, facciamo come diceva là il Signore del popolo d’Israele: “Populus hic labiis me honorat, cor autem eorum longe est a me”. Questo popolo mi onora ma soltanto con le labbra, e il loro cuore è lontano…da me. Non basta formulare tanti Pater noster soltanto con le labbra, ma la preghiera suppone l’attenzione del cuore, se no, che vale che diciamo Pater noster a N. Signore?...Se preghiamo solo lì così…è inutile, peggio, che inutile. Quindi ci vuole attenzione. “Attentio ad verba – ad sensum – ad Deum”. […]. Questo ad Deum l’è il più bello. […]. Ricordatevi di questo ad Deum; aiuta tanto».196 A riguardo del clima che favorisce la preghiera, il Fondatore insisteva sulla presenza di Dio e valorizzava il salmo 24 (23), 15: «Oculi mei sempre ad Dominum», assicurando che queste parole gli piacevano tanto, perché aiutava a conservare un clima favorevole alla comunione con Dio.197

 

Un terzo modo per pregare bene è quello di tenere un atteggiamento di rispetto: «In posizione di rispetto, e non occuparsi d’altro».198 Qui il Fondatore inserisce il discorso sull’opportunità di pregare quando si lavora. È un tema che riprende diverse volte, soprattutto quando discute sulla proporzione tra azione e preghiera nell’apostolato. Qui si limita dire: «Si può tuttavia pregare lavorando purché i lavori lascino pensare e non si tratti di preghiere strettamente obbligatorie. Anche Gesù pregava lavorando nella bottega di Nazaret (V. 199Ven. Da Ponte – Vita priv. Di Gesù)».

 

Ancora, per pregare bene «vi sia costanza, non tralasciandole troppo facilmente».200 Nella spiegazione di questo principio, il Fondatore scende ad un particolare: «Ci vuole costanza quando facciamo le novene: la Madonna ha più caro poco, ma che sia costanza».201

 

C’è un aspetto che merita di essere notato. La preghiera comunitaria è sempre preferibile. Per pregare bene, occorre anche unirsi ai fratelli e alle sorelle che pregano. È il senso ecclesiale della preghiera: «Le preghiere comuni devono sempre essere preferite alle nostre particolari. Il Signore ha detto che si troverà dove saranno diversi radunati a pregare. Non vi rincresca di lasciar di finire il Pater o qualche altra preghiera che state dicendo, per rispondere anche solo un Amen con le altre».202 «Se c’è tutta la Comunità che prega, bisogna dire insieme: Se il Signore in quel momento vi manda delle estasi, dite: lasciatele stare le estasi, ora ho da pregare in comune».203

 

Non tralasciamo l’aspetto che abbiamo trovato altrettanto intenso nel Cafasso, cioè la preghiera calda del cuore. Anche il Fondatore ha espressioni molto significative al riguardo. Senza volerlo, fa capire con quale spirito lui pregava. Come criterio: «Le cose spirituali più si gustano più si gusterebbero».204 Parlando dell’Ufficio della Madonna alle suore: «Bisogna guardare di capire quel poco che si può capire e dirlo col sentimento che le parole portano. […] È come un cibo; è come mangiare una pietanza buona: si gusta».205 «Quando recitiamo l’Ave Maria dovremmo dirla con entusiasmo da far scappare il cuore».206 «Che non venga in testa che esso [il Rosario] sia una ripetizione noiosa. E’ noioso dire alla Madonna che le vogliamo bene? E’ noioso dire al Signore che gli vogliamo bene?».207 «Quando io dico che voglio bene alla Consolata, cosa devo dire…dirò sempre quello».208

 

Infine sottolineo il realismo con cui il Fondatore parla del dovere di pregare bene, conoscendo le difficoltà pratiche dei suoi ascoltatori. Riporto alcune espressioni che fanno capire la sua maturità di educatore di missionari. Propone sempre il massimo, ma riconosce che esistono difficoltà, limiti e momenti di fragilità. Però accompagna sempre con pazienza e speranza nel cammino di avvicinamento all’ideale: «Quando diciamo i Salmi, si capisce, non possiamo a star lì a far attenzione a tutte le parole, ma di tanto in tanto fermarci a qualche frase che ci colpisce di più. Per esempio quando diciamo: Sit nomen Domini benedictum! Che il nome del Signore sia benedetto. Che il Signore sia benedetto da tutti quelli che lo maledicono, e in tutti i posti».209 «Riguardo al Rosario, ho sempre paura che si consideri come un peso, e per sé non sarebbe mica male che sia un peso, ma deve essere dolce peso».210 «Quando per caso viene un po’ di noia, mandarla via; e se pesa servirà per benedizione».211 «Fate in questo modo recitando il Rosario, e non troverete più lunga e nojosa tale devozione, ma invece corta e soave».212 «Non bisogna lasciarsi tirare dal peso. Anche per noi il Breviario alle volte è un peso, specie per esempio, quando uno non sta bene, eppure bisogna dirlo. Deve essere un peso leggero, soave; e così è del Rosario».213 «S. Bernardo racconta che non era neppur stato capace di dire un’Ave Maria, senza distrazione, eppure era ben detta».214

 

 

5. L’APOSTOLO PREGA

 

Il valore della preghiera per un apostolo, assieme all’equilibrio tra azione e contemplazione, tra lavoro e preghiera, è stato un tema proposto con grande intensità dal Cafasso e dall’Allamano. Entrambi erano convinti che l’apostolato è valido solo se parte da una sincera e continua comunione con Dio. La loro esperienza personale, poi, ne era una sicura conferma.

 

 

a. G. Cafasso. Il Cafasso ha sviluppato questo tema per i sacerdoti nella già citata meditazione degli esercizi spirituali sulla “Vita pubblica di Gesù”. Dopo aver portato Gesù come modello di preghiera, egli tira questa conseguenza: «Ecco Signori miei qual deve essere in un uomo Apostolico la grande preparazione per cominciare bene i suoi lavori, la sua forza e la sua consolazione negli stessi travagli, il suo riposo dalle fatiche, tutto sta riposto nell’orazione: pregare prima di mettersi a lavorare, pregare mentre si lavora, pregare dopo aver lavorato: così fece il primo de’ Sacerdoti Cristo Gesù, così fecero gli Apostoli, così tutti gli uomini Apostolici, così deve fare ogni sacerdote, che voglia lavorare con zelo, e con frutto nella vigna del Signore».215 Più avanti affronta la difficoltà del “molto lavoro apostolico” come impedimento alla preghiera: «Quand’anche avessimo tutte le occupazioni del mondo, e fossero opere le più sante, questo tempo, ripeto che ci va, altrimenti saremo uomini materiali perché senza anima, e senza spirito. Apostoli di nome, bronzi sonanti e niente più».216

 

Il tema è ripreso, in maniera più ampia, nella istruzione sulla “Orazione”, nella quale si domanda che cosa significhi essere “uomo di preghiera”: «Per dirlo brevemente ed in termini chiari, uomo di orazione vuol dire un uomo del mestiere. Come uomo d’armi, uomo di commercio, uomo di lettere, uomo di campagna, significa letteralmente e secondo tutti una persona dedicata, consacrata al maneggio delle armi, degli affari, allo studio delle lettere, alla coltura della campagna, così uomo d’orazione vuol dire un uomo che si è dato, che si è consacrato alla preghiera, e non soltanto di nome, ma che di essa fa la continua e giornaliera sua occupazione, i suoi pensieri dominanti, i suoi discorsi, le occupazioni sue tutte sono dirette alla preghiera. E qual meraviglia in ciò? L’artista è naturalmente portato ad amar l’arte sua; prova gusto, piacere nell’occuparsene, e ben lungi dal non lasciarlo conoscere, brama anzi desidera che ognun lo sappia, è contento quando lo trovano nell’arte sua; par che fatichi, ma non è vero, faticherebbe di più, soffrirebbe di più, se dovesse desistere dal lavoro. Applicate il paragone al caso nostro, e vedrete chi è l’uomo di orazione: Egli è colui che invece di consacrarsi ad altra arte, si consacrò a questa di pregare»217 Più che sul piano della logica, questo confronto è valido se visto su quello dell’esperienza che ha un santo che prega molto e bene.

 

 

b. G. Allamano. L’Allamano è stato colpito da queste riflessioni, soprattutto dall’affermazione che la preghiera è il “mestiere” del sacerdote. Nella conferenza agli allievi del 21 novembre 1915, ha spiegato l’importanza della preghiera per il missionario proprio a partire da questa affermazione del Cafasso: «Specialmente è necessaria l'orazione ai sacerdoti ed ai missionarii. Essi devono essere uomini di preghiera, direi del mestiere, per sé e per le anime loro commesse (V. Ven. Cafasso, Istruz. sull'Oraz.)».218 Questo è il suo manoscritto, ma a viva voce la spiegazione è stata più incisiva: «Il nostro Ven. Cafasso del Sacerdote, e noi diciamo tanto più del Missionario, diceva che doveva essere un uomo di preghiera; le parole sono un po' materiali, ma come si dice: un uomo è del tal mestiere, così possiamo dire per esprimere la necessità che ha il Sacerdote di pregare».219

 

Nella già citata conferenza del 6 settembre 1908, dopo aver portato l’esempio di Gesù che non riteneva di perdere tempo o di sottrarlo al bene della anime quando pregava, fa questa riflessione: «Che pensare, che dire di quei missionari che credono di adempiere all'offizio di apostolo con girare, lavorare e fare molte cose e molto rumore, lasciando perciò o diminuendo gli esercizi di pietà colla scusa del molto lavoro?»220

 

Sempre in questo contesto del rapporto tra preghiera e lavoro apostolico, il Fondatore ha fatto un’affermazione molto forte: «Il Ven. Cafasso diceva che aveva paura di chi lavorava troppo nel ministero».221 Basandosi sullo stesso suo manoscritto e nello stesso giorno, egli è stato addirittura più esplicito con le suore: «Il Ven. Cafasso diceva: Mi fan pena i sacerdoti che han troppo da lavorare... Se si prega di più, si lavora poi di più, si studierà più in fretta... Ma non dire: Chi lavora prega... Non è vero; cioè è giusto e falso: è giusto se fatto per obbedienza, perché è volontà di Dio. Per esempio, in cucina, quella che sta sotto mentre le altre sono in chiesa, lo fa per dovere, manda qualche aspirazione a Dio, si unisce alle altre: è preghiera. Ma quando si fa per capriccio... quando uno si carica di lavoro, per volontà propria, che alla sera si sente stanco e si lamenta di non aver potuto pregare, allora…Possibile che in quei casi ci sia uno zelo così discreto, così puro? […]. Il Ven. Cafasso diceva: Il mestiere delle persone consacrate a Dio è pregare. - Bisogna che siamo persone di orazione, che tutto quel che facciamo l'indirizziamo a Dio».222

 

E ancora: «Guai, diceva il Ven. Cafasso, guai a quelli che trascurano se stessi per occuparsi solo degli altri! Prima ci siamo noi: ma poi si farà del vero bene: non basta mica la nostra presenza a convertire la gente!».223

E per finire ascoltiamo questo interrogativo, un po’ provocatorio, che il Fondatore pone agli allievi: «Domandate al Venerabile se ha lasciato qualche volta il breviario, il rosario, la meditazione perché aveva molto da fare! Se non aveva tempo di giorno, faceva di notte. […] Insomma, è tanto facile scambiare le cose: prima di tutto fare santi noi, e poi [sic] prima pregare e poi fare del bene agli altri, e non lavorare, lavorare, lavorare solo».224

 

 

Conclusione

Il Cafasso non riusciva ad immaginare un sacerdote (un apostolo) che non fosse “uomo di orazione” e ne portava le ragioni: perché la preghiera fa parte del suo ufficio e perché, come apostolo, è anche maestro di preghiera.225 Era poi molto comprensivo con chi si lamentava di non sapere pregare e lo incoraggiava, ma non accettava chi non volesse impegnarsi nella preghiera: «Ma che sarebbe quando […] il sacerdote non pregasse quanto e come dovrebbe pregare, quando fosse uomo di occupazione, se volete, di studio, di scienza, ma non un uomo d’orazione? Eh!...forse la mia risposta sarà un po’ dura, e gli riuscirà ingrata; eppure siam qui per dirci la verità. Dice che non può, non ha testa, non ha tempo a pregare; ma quando si tratta d’un affare necessario, e che va fatto, non occorre più disputare, non se ne può prescindere, per amore o per forza, bisogna andare avanti. Si abbia o non si abbia voglia, se è una cosa che va fatta, qualsiasi scusa o pretesto è affatto inutile. […] Quest’occupazione, quest’ufficio di pregare è indispensabile per un sacerdote, ed è tempo perduto studiar pretesti per farne a meno: o pregare, o cessar perfino d’essere sacerdote».226



L’Allamano immaginava i suoi missionari/e “uomini/donne di preghiera”, persone interiormente ricche e non “trafficoni”, proprio perché missionari. Prendendo lo spunto dal Cafasso, diceva: «Un sacerdote se non fa molta orazione, non è vero Sacerdote. E un missionario? Che volete che possa fare uno che non conosca nemmeno il mezzo che l’aiuti a tenersi unito a Dio?»227 Il primo ricordo che lasciava ai partenti era proprio questo: «Siate uomini di orazione […]. Altrimenti, se non sarete uomini di orazione, sarete strumenti inetti della grazia di Dio…Intanto faremo del bene in quanto saremo uniti con N.S.»228. Ecco la conclusione: «Abbiamo bisogno di pregare molto, anche ed appunto perché siamo missionari»229.

 

 

V. SANTITÀ

 

L’intesa tra il Cafasso e l’Allamano riguarda in certo senso tutta la loro spiritualità, ma ha un vertice, che mi pare espresso dal noto principio del “bene fatto bene”. Possiamo applicare questo principio a tutto il modo di vivere la spiritualità e di realizzare l’apostolato. In effetti, il Fondatore ha assunto dallo zio molto più di quanto sembri e lo ha stupendamente personalizzato.

 

 

1. SANTITÀ NELLE “COSE” ORDINARIE

 

a. G. Cafasso. Effettivamente, come costante dell’insegnamento del Cafasso c’è la convinzione che la santità consiste nel vivere “bene” la realtà ordinaria di ogni giorno e non nel “fare cose straordinarie”. Basta leggere le meditazioni e le istruzioni che teneva durante gli esercizi spirituali per rendersi conto che egli proponeva questo tipo di cammino verso la santità, perché lo riteneva “concreto”, “facile” e “completo”. Non è fuori posto ritenere che il Cafasso, a sua volta, su questo punto fosse in sintonia e come in derivazione dalla spiritualità di S. Francesco di Sales.

 

C’è una meditazione del Cafasso, riservata all’ultimo giorno degli esercizi ai sacerdoti, intitolata “Sopra le occupazioni giornaliere”, che sostanzialmente tratta di questo tema. Merita rileggerne qualche brano, perché probabilmente essa è stata la principale fonte di ispirazione per il Fondatore: «Già noi dobbiamo essere santi […]; ma sapete voi chi intenda io per santo, e chi lo sia? Io intendo per santo, e lo è realmente quel sacerdote che si occupa in ministeri, in azioni proprie del suo stato, anche comuni, ed ordinarie; non solo si occupa, ma si preoccupa, e fa quanto può per farle bene: qual è la vita di un buon sacerdote, come passa i suoi giorni? Prega, celebra, studia, confessa, predica, istruisce, consola, consiglia, visita, si solleva, ecco la tela delle occupazioni di un buon sacerdote: niente di straordinario, niente di rumoroso, tutto comune, ordinario».230

 

Questo testo è barrato dal Cafasso stesso, il che significa che forse non lo ha pronunciato alla lettera, ma non c’è dubbio che esso contenga il suo vero pensiero, scritto di suo pugno. Sono concetti questi che, nella meditazione, vengono espressi sotto tante angolature differenti.

 

Un po’ oltre, sempre in questo testo barrato, il Cafasso esemplifica: «[…] pochi di noi sono chiamati ad azioni straordinarie, e poi anche chiamati queste cose straordinarie, e rare non possono dare il carattere e formare la tessitura della nostra vita; e che gioverebbe finalmente far bene e perfettamente un’opera in sé eroica, se passata quella si facessero poi mediocremente le altre; supponiamo che uno sia chiamato da Dio lasci la patria, i parenti, la roba, gli impieghi, i comodi per ritirarsi in un chiostro, o portarsi nelle Missioni straniere; sacrificio grande, straordinario, eroico, è vero; non si può negare; e lo [fa] allegramente, prontamente con tutta la virtù possibile, ma se dopo ciò nelle azioni comuni della sua carriera non le facesse che mediocremente, si potrà dire, e sarà veramente un sacerdote santo, e perfetto? No certamente. […]. Chi aspira ad essere un sacerdote santo, e perfetto non pensi a fare cose grandi, e straordinarie, ma o grandi o piccole che esse siano pensi solo a farle bene, e con ciò solo sarà perfetto. E qui notiamo di passaggio quanto ci possa costar poco l’essere perfetti; poiché con l’istessa cosa che facciamo, senza giunta di altre opere possiamo essere tali.

Deve essere questa cosa di grande consolazione per tutti ed animarci tutti grandemente. Se si ricercasse per essere perfetto certe cose e squisite, e straordinarie, certe elevazioni molto alte potessimo aver qualche scusa, e dire che non ci basta l’animo di salire tant’alto: se si ricercassero penitenze, rigori, digiuni, austerità non comuni, oh! Forse non ci sentiressimo [sic] le forze di far cose simili: ma non si ricercano sì fatte cose, né sta in esse, come già dissi la nostra perfezione, sta solo in far bene, in far prontamente quello che facciamo: con le medesime opere senza spendere né più tempo, né usare maggiore fatica possiamo essere santi, e perfetti».231

 

Il testo riportato è stato sostituito da un altro, ugualmente esplicito, del quale sentiamo due passi salienti: «Nemmeno poi è necessario che il sacerdote faccia nel suo stato opere grandi e strepitose per essere un vero e santo Ministro Evangelico: le opere grandi sono poche, e pochi sono chiamati a farle, ed è alle volte una grande e funesta illusione voler tendere a cose grandi e frattanto si trascurano le comuni, le ordinarie. […] Opere adunque di zelo, di gloria di Dio, e della salute delle anime, ma opere comuni, ordinarie; dico comuni non già che sien tali per loro natura, giacché la minima cosa divien massima quando sia diretta a quel fine, ma le chiamo comuni, per intendere quelle che giornalmente sono alla mano».232

 

 

b. G. Allamano. Il Fondatore è sulla stessa linea, richiamandosi esplicitamente al Cafasso. Già il 2 marzo 1902, parlando dell’obbedienza, ebbe a dire (è il suo manoscritto): «La forma che dovete prendere nell’Istituto è quella che il Signore m’ispirò e m’ispira, ed io atterrito dalla mia responsabilità voglio assolutamente che l’istituto si perfezioni e viva vita perfetta. Son d’avviso che il bene bisogna farlo bene; altrimenti fra tante mie occupazioni non mi sarei sobbarcato ancora questa gravissima della fond. di sì importante istituto».233

 

È significativo il fatto che il Fondatore, fin dall’inizio dell’Istituto, abbia avuto le idee chiare sul modo di vivere e di operare, avendo assimilato in pieno lo spirito del Cafasso, spiegandosi addirittura con gli stessi termini. Poi ha continuato a proporre il criterio del “bene fatto bene” in tutti gli impegni, come cammino di santità. È pressoché impossibile annotare quante volte il Fondatore, nella sua attività di formatore, sia ricorso a questo principio del Cafasso. Ricordiamo, comunque, che alcune conferenze hanno come contenuto totale la spiegazione del “bene omnia feci” di Mc 7,37. Ce n’è una del 3 settembre 1916, sia agli allievi che alle suore, che il Fondatore ha ricuperato dalla domenica precedente, nella quale la Liturgia della Messa proponeva appunto il Vangelo di Marco 7. Merita di essere presa in considerazione come una delle fonti più complete al riguardo.234 La valorizzeremo in diversi contesti di questa meditazione.

 

Come ambientazione siano sufficienti tre passaggi. Uno è precedente alla conferenza citata e appartiene a quella del 21 ottobre 1906 su “La Pietà” fatta agli allievi: «I miei anni sono più pochi, ma fossero pur molti, voglio spenderli in fare il bene e farlo bene; io ho l’idea del Ven. D. Cafasso, che il bene bisogna farlo bene e non rumorosamente».235 Il secondo passaggio è del manoscritto della citata conferenza del 3 settembre 1916: «Del nostro Venerabile è detto che fu straordinario nell’ordinario, cioè fece tante cose ordinarie in modo perfetto, ed operò tutte le cose in modo perfetto. Lo stesso Venerabile ci suggerisce alcuni pensieri che ci aiuteranno a fare tutte le cose bene».236

 

Il terzo testo è della stessa del 3 settembre 1916 fatta alle suore: «Si dice: Stamattina ho fatto la Comunione; ma l’hai fatta bene? Mi sono confessata; ma ti sei confessata bene? Quel che si cerca non è il fare, ma il fare bene. Il nostro Venerabile ha fatto pochi miracoli, e ancora non strepitosi, ma ha fatto tutte le cose bene e nello stesso tempo tanta di quella roba che sembra impossibile che un uomo possa far tanto. Il suo detto era questo: Il bene bisogna farlo bene. Una volta a S. Ignazio il Ven. Don Bosco disse a me che parlando egli con Don Cafasso circa l’istruzione della gioventù, diceva: Oh! Basta che in mezzo a quei giovani si possa fare un po’ di bene; e il nostro Venerabile: Non basta fare un po’ di bene, ma bisogna fare tutto bene. Don Bosco poi contava a me che in quel momento avevano disputato un poco, si vede che avevano tutti due un po’ di prurito per disputare…».237

 

 

2. GESÙ PRIMO MODELLO

 

a. G. Cafasso. Gesù è la vera fonte d’ispirazione per il Cafasso, come lo sarà anche per l’Allamano. Nella meditazione citata il Cafasso afferma: «Con ciò però non crediamo che basti per essere un vero sacerdote passare i nostri giorni in azioni tali, io direi che sarebbe il meno: il meglio anzi il tutto sta nel farle bene, di modo che di un sacerdote si possa dire a proporzione quello che dicevasi del figliuol di Dio. Marc. Cap. 7 che ha fatto bene tutte le cose».238

 

Più avanti, il Cafasso riprende l’idea e la applica alla pratica: «Nel nostro Ministero rappresentiamo la persona di nostro Sign. Gesù Cristo; operiamo per lui, ed in vece sua, di modo che dobbiamo procurare dal canto nostro di far quelle azioni in quel modo che le farebbe lo stesso Gesù Cristo: può parere a primo principio questa cosa una pura, e sottile immaginazione, eppure io penso che questo dovrebbe [essere] un vero e reale nostro impegno giornaliero: noi siamo suoi vicegerenti, lo sappiamo, siamo suoi rappresentanti, di modo che al veder un sacerdote si può dire: ecco un altro salvatore, un altro Redentor del mondo, ecco un altro Gesù Cristo, perché destinato, mandato a far quello , che fece Gesù».239

 

 

b. G. Allamano. A parte il linguaggio, non ci pare di risentire il Fondatore? Sappiamo che anche lui si ispirava al modello per eccellenza che è Gesù («Ha fatto bene ogni cosa»: Mc 7,37). Tuttavia, ha anche ammirato altri modelli, incominciando da quello di Maria, per lui molto caro e importante, proposto soprattutto nel mistero della Visitazione. L’Allamano ha pure indicato dei modelli umani tra i santi che più gli erano congeniali su questo punto, come S. Francesco di Sales e, specialmente, il Cafasso.240 Sentiamo l’Allamano stesso in due testi, che ritengo illuminanti del suo pensiero.

 

Nella citata conferenza del 3 settembre 1916, tutta sul commento a Mc 7,37: «Nel S. Vangelo della Domenica passata, si racconta il miracolo di N. S.G.C, della guarigione di un sordo-muto. A questo fatto le turbe meravigliate..., esclamarono: bene omnia fecit—fece tutte le cose bene. Pare che come conseguenza dell'accaduto, dovessero dire: fece cose grandi, miracolose... No, ma: bene omnia fecit. Con queste tre parole fecero molto miglior elogio, affermando che Gesù non solo nelle cose straordinarie, ma anche nelle ordinarie e comuni faceva tutto bene. Vediamo come veramente N.S. in tutta la sua vita fece bene ogni cosa; per poi vedere se noi pure, imitandolo facciamo tutto bene».241

 

Il secondo testo appartiene alla conferenza fatta durante il ritiro mensile del 2 luglio precedente, festa della “Visitazione di Maria SS.”: «Lo scopo di S. Francesco di Sales era che [le sue suore] conducessero una vita ordinaria, non aspre penitenze, non digiuni…[…]. Voi dovete condurre una vita ordinaria come la Madonna; sarà stato quello di assistere S. Elisabetta, […], accompagnare S. Giuseppe, quando tornava guardare il bambino, quelle cose lì…in quei tre mesi, la Madonna ha fatto la vita ordinaria. Ha fatto tutto lo straordinario nell’ordinario. Come il nostro Venerabile si diceva che vivendo ordinariamente faceva le cose in modo straordinario. Così la Madonna, faceva come le nostre buone donne, che vanno ad aiutare le vicine, comperare, faceva quello che deve fare una buona donna in casa, come una buona serva. Perciò non faceva cose straordinarie, e S. Francesco non voleva che le sue suore facessero miracoli, ma solo bene le cose ordinarie».242

 

 

3. CHE COSA SIGNIFICA FARE BENE LE COSE ORDINARIE

 

a. G. Cafasso. Il Cafasso si pone la domanda: «Che cosa dunque si ricerca per farle bene [le cose ordinarie]? Io le riduco a due: 1. farle unicamente e puramente per Dio. 2. farle esternamente in un modo che sia degno di quel Dio, per cui le facciamo».243 E poi prosegue spiegando questi due modi di agire.

 

Per quanto riguarda il primo, cioè la purezza di intenzione, insiste nell’affermare che le azioni fatte unicamente per Dio «saranno tutte grandi», e poi mette in guardia contro l’eventualità che si insinui qualche altro fine troppo umano, anche se non proprio cattivo, come per esempio: «per genio, per capriccio, per inclinazione, per costume. Voglio fare tal cosa, e perché? Perché mi piace, mi va a genio, non so che cosa far d’altro: sono abituato a fare così. Or io chiamo dov’è lo spirito interno, e l’occhio a Dio che ha da formar la midolla, la sostanza, e tutta la misura del nostro merito dove è io chiamo; è soddisfatto il genio, la nostra inclinazione, ma non Iddio».244 In concreto, il Cafasso insiste nell’avere sempre intenzioni di amore per Dio, per non “sprecare” la vita e non dover registrare troppi vuoti!

 

Il secondo modo, per fare bene le cose, cioè agire esternamente in modo degno di Dio e che a lui possano piacere, il Cafasso suggerisce tre atteggiamenti: «cioè farle con prontezza, con esattezza e con perseveranza».245 E passa ad illustrare brevemente questi atteggiamenti: «Con prontezza, senza aver bisogno di uno sprone, che ci stimoli a tutto, ad andarvi a quell’azione quasi trascinato. Con esattezza far conto di tutto e d’ogni circostanza che possa accompagnare, e migliorare la nostra azione, […] e non assuefarsi a far le cose a metà, comunque; un po’ più e un po’ meno: questo non è grave, la tal cosa non è prescritta, la tal altra può andare ugualmente, fa lo stesso, non è poi la sostanza, e andiam dicendo. […]. Finalmente farle con perseveranza costante a dispetto di tutte le ripugnanze, e ritrosie interne, a fronte di tutti gli ostacoli, che il demonio, o chi per esso ci può opporre: non solo continuare, ma proseguire con lo stesso impegno, puntualità, ed esattezza di prima, giacché questo è il vero fervore, che si ricerca nel nostro operare.».246

 

Ed ecco la conclusione del Cafasso: «Se si tratta di un’opera grande è facile applicarvisi in questo modo, ma è altrettanto più difficile nelle cose minute, e piccole: eppure bisogna far così: chi agisce per Dio non fa differenza, non sa distinguere da azioni, ad azioni, e quel Dio che merita tutto in un’opera grande lo merita ugualmente in un’altra piccola: dunque lo stesso impegno, la stessa esattezza, gravità, attenzione per parte nostra. […]. Age quod agis [fai (bene) quello che fai] in ogni cosa, sempre e dovunque»».247

 

 

b. G. Allamano. Anche l’Allamano ha spiegato, in diverse situazioni, che cosa intende per fare “bene” le cose ordinarie di ogni giorno. Quando, però, ha parlato espressamente del tema, anche lui si è posto l’interrogativo: «E come fare a fare bene il bene?». Rifacendosi al Cafasso248 lo spiega in due modi: indicando tre atteggiamenti o qualità da mantenere costantemente e, poi, indicando “quattro modi” suggeriti dal Cafasso per passare bene la giornata.

 

I tre atteggiamenti o qualità, ovviamente ripresi dal Cafasso, sono così presentati: «Noi verso Dio siamo tutti servi…Il servo deve sempre essere all’ordine del padrone e non obbedire solo in quel che vuole. Deve fare dal mattino alla sera la volontà del padrone e farla con prontezza, con esattezza, e cum bel doit (con bel garbo). Queste sono le tre qualità del servizio di Dio. 1° - Con prontezza; se quando si comanda a qualcuno di far qualcosa e lui sta lì a pensare ecc…fa venire…là là…Bisogna essere come gli Angeli che han sempre le ali aperte per eseguire i comandi di Dio. 2° - Poi con esattezza. Se comanda ad uno di togliere la polvere e la toglie solo a metà, il padrone non può essere contento. 3° - Con bel garbo, che le cose che si fanno facciano piacere, farle gentilmente…».249

 

Come si vede, la tersa qualità suggerita dal Cafasso “la perseveranza”, nel Fondatore è diventata “il bel garbo”. Però anche il Fondatore ha più volte insistito sul valore della costanza. Per esempio: «Non son le cose straordinarie che fanno i santi. Non sono andati a cercare se ha fatto profezie o altro simile il Cafasso, solo hanno guardato le virtù. Vedete come è facile farsi santi?! Solo che ci vuole quella costanza…Non essere di quelli lì che montano e calano. Questo è ciò che è più necessario, perché in Africa guai a chi si lascia andar giù e si lascia vincere dalla malinconia…e piange!...».250

 

Soprattutto possiamo cogliere il pensiero del Fondatore sulla necessità della perseveranza da come ha raccontato alle suore l’impressione che il Cafasso aveva fatto a Roma, nell’ambiente curiale che stava portando avanti la causa di beatificazione: «Il Card. Bisleti era entusiasta del nostro Venerabile e diceva: “Io non ho mai visto un santo così”. Da ragazzo il Venerabile diceva: “Io non voglio farmi un santo da Messa, un santo da Breviario, ma un gran santo”. Ed infatti è stato costante in questo volere per tutta la vita. L’eroismo della sua virtù consiste nella costanza. Non consiste nei miracoli l’eroismo, ma nel farsi violenza, nello star sempre lì fermo nel buon volere, nel non perder tempo: questo è roba nostra. Io ammiro ogni giorno più la vita di quest’uomo, perché non è andato a salti, no, è sempre andato diritto; la sua strada era quella e…avanti; e questo l’ha fatto per tutta la vita. Sempre la stessa fede, lo stesso amor di Dio e del prossimo; sempre prudente, sempre giusto, sempre temperante…non gli manca niente […], lui andava sempre avanti; faceva sempre tutto bene»251.

 

 

4. QUATTRO PENSIERI PER PASSARE BENE LA GIORNATA

 

Continuando la riflessione sul “come fare bene il bene”, il Fondatore sottolinea i quattro suggerimenti che aveva preso dal Cafasso e proponeva con insistenza agli alunni e alle suore, dandoli scritti dietro un’immagine del Cafasso stesso. Questo tema è sviluppato in modo ampio nelle due conferenze, già citate, sul “Bene omnia fecit”.

 

 

a. G. Cafasso. Partiamo dal Cafasso. Secondo una testimonianza di Don Bosco, il Cafasso proponeva quattro pensieri per passare bene la giornata. «Fate, cioè, ogni cosa come la farebbe lo stesso N.S. Gesù Cristo; in quel modo in cui vorremmo averla fatta quando ce ne sarà chiesto conto al tribunale di Dio; come se fosse l’ultima di nostra vita, e non se ne avesse altra da compiere».252

 

 

b. G. Allamano. Il Fondatore non cita la testimonianza di Don Bosco, ma valorizza i pensieri del Cafasso per passare bene la giornata, nel discorso di “come” fare bene il bene. Alle suore dice: «Qual è il modo, i mezzi per fare tutte le cose bene? Vediamo i pensieri del Ven. Cafasso per passare bene la giornata. E se si passa bene la giornata, si passano bene anche le settimane, i mesi, gli anni…».253 Agli allievi, nella stessa occasione fa un’introduzione simile, ma più vivace: «Per questo basterebbe mettere in pratica i quattro suggerimenti che dà il nostro Ven. Cafasso per passare bene la giornata. Li avete tutti, neh, scritti? Lo avete tutti questo foglietto (presentando l’immagine del Ven. su cui sono stampati; e poi dandolo ad uno studente): leggi un po’ il primo numero; se si passa bene la giornata; questa compone il mese; il mese bene passato compone l’anno; l’anno bene passato compone la vita. Guardate lì. Per passare bene ogni giornata e quindi passare bene tutta la vita prima cosa:[…]».254

 

Fatte queste introduzioni, il Fondatore passa a sviluppare, uno per uno i quattro pensieri. Il suo discorso è semplice e ricco nello stesso tempo. Per coglierlo compiutamente, credo utile presentare ogni punto come il Fondatore lo spiegava a viva voce, ma indicando in nota quanto lui aveva annotato nel suo manoscritto, perché ci sono molti elementi che arricchiscono il discorso, li abbia detti o no a viva voce.

 

Primo pensiero: «Fare ogni cosa come la farebbe N.S. Gesù Cristo. Vi pare che faremmo sempre tutto bene se pensassimo sempre a questo?. Vedete, N. S. Gesù Cristo è venuto su questa terra non solo per redimerci, ma anche per essere nostro modello, nostra guida, nostro specchio. Bisogna che noi ci conformiamo a lui. […]. Interrogatevi ogni tanto: Se vi fosse N. S. Gesù Cristo al mio posto come farebbe? […] Bisogna proprio che ognuno pensi: Ecco io qua dentro sono proprio l’immagine di nostro Signore».255 «Ora, se N. Signore lavora, pensa e parla in me, per mezzo mio, bisogna che, per non fargli fare brutta figura, io parli e operi bene. Dunque, per passar bene e giorno e mese e anno e tutta la vita è fare come faceva N. Signore».256

 

Secondo pensiero: «La seconda cosa è: fare le nostre azioni a quel modo che vorremmo averle fatte quando ce ne sarà domandato conto al tribunale di Dio. […]. Quando andate in Chiesa, specialmente nella visita prostriamoci davanti a Gesù Sacramentato e chiediamo che ci giudichi adesso: “[…] Non aspettate allora a giudicarmi; ma giudicatemi adesso che siete Giudice di misericordia”».257 «Dice l’Imitazione: Coloro che in vita si conformano a Gesù Crocifisso, andranno al giudizio con grande fiducia, cioè andranno volentieri al tribunale di Dio. La paura di morire non è mica la morte, ma il timore del giudizio. Quando andiamo alla Comunione […], diciamogli: O Gesù, giudicatemi adesso e non aspettate a giudicarmi allora!».258

 

Terzo pensiero: «Veniamo al terzo: Fare ogni cosa come se fosse l’ultima di nostra vita. È quasi come la precedente, tuttavia un po’ di differenza c’è: qui è fare ogni nostra azione come se fosse l’ultima di nostra vita. E non è vero? . […]. Ah se avessimo sempre questo davanti agli occhi! Se potessimo poi dire al punto della nostra morte: Ho fatto tutto quello che ho potuto. […]. Quotidie morior, muoio tutti i giorni, faccio questa cosa come farei l’ultima cosa di mia vita. Questi pensieri fanno bene».259 «S. Bernardo si diceva: Bernardo, se avessi adesso da morire, faresti questa o quell’altra azione? Se facessimo anche noi questa interrogazione…».260

 

Quarto pensiero: «E adesso l’ultimo pensiero: Fare le cose in maniera, come se non ne avesse a far altra. Ecco, questo sì. Quando facciamo una cosa non pensare ad un’altra; disturbiamo solo la cosa che facciamo».261 «Il Ven. Cottolengo che presto sarà beatificato, non ha mica fatto tanti miracoli strepitosi; tutto è andato per trovarne due da poterlo beatificare. Ma è un portento è stata la sua vita, un miracolo tutta la sua vita. […]. Sulla vostra tomba, quando morirete, bisognerebbe poter scrivere: Bene omnia fecit».262

 

 

5. SENZA RUMORE

 

a. G. Cafasso. Tra i suggerimenti per “fare le cose bene”, c’è da aggiungere anche quello di agire “senza fare rumore”. Il Cafasso, insistendo sulla “ordinarietà” delle occupazioni, necessariamente prospetta una vita di santità senza strepito e piuttosto riservata: “senza rumore”. Ascoltiamolo: «Ecco ciò che forma l’occupazione del giorno de’ buoni sacerdoti; niente di straordinario, e di strepitoso; un sacerdote può passare lungo tempo ed anche tutta la vita in sì fatti ministeri senza che il mondo quasi rilevi la sua esistenza, almeno senza che la gente ne faccia encomii e meraviglie; e questo è un pensiero che deve consolare. […]. Vi sono dei Santi assai grandi davanti a Dio, che nulla hanno fatto di grande in ordine a Dio: dei santi, la vita dei quali è stata oscura, e nascosta, le cui azioni nulla hanno avuto di strepitoso e di mirabile, né di essi il mondo ha parlato. Erano grandi per la loro santità, ma tutta la loro santità era ristretta in cose piccole. Erano grandi per la loro umiltà, e la loro umiltà li portava sempre ad eleggere gli ultimi impieghi, e le azioni più basse».263

 

 

b. G. Allamano. L’Allamano ha colto bene questo aspetto e lo ha trasmesso con tenacia, fino alla fine della vita, applicandolo sia all’organizzazione dell’Istituto che allo stile di vita e di apostolato dei suoi missionari e missionarie. Certamente, tenendo conto del suo carattere e della sua spiritualità, dobbiamo riconoscere che era spontaneo nel Fondatore avere un atteggiamento di riservatezza e di nascondimento.

 

I testimoni al processo lo hanno ampiamente affermato e illustrato con fatti concreti. Ascoltiamo quello del Can. N. Baravalle, che era presente al fatto narrato: «Si era alla vigilia della grande ed attesa festa della Beatificazione del Cafasso. Le sue reliquie erano state racchiuse in una bellissima maschera rivestita di preziosi indumenti sacerdotali, e si stava per farne il solenne trasporto dall’annesso Convitto al Santuario. A questa cerimonia […] la Chiesa dà la massima solennità, concedendo che le reliquie vengano accompagnate col baldacchino e con due incensieri. Presiedeva l’Arcivescovo, cui facevano pure corona parecchi Vescovi. Il Can. Allamano era il parente più prossimo del Beato, il promotore della Causa, il Superiore del Santuario e del Convitto, e si sarebbe atteso di veder procedere il Servo di Dio in tanta gloria rivestito delle divise canonicali, con posto distinto. Invece, il Servo di Dio venne con noi del Santuario dietro le sacre Reliquie, colla sola talare, portando la torcia accesa. Era sofferente, commosso ed esultante, ma nulla traspariva della sua santa esultanza. Si trascinava in modo così penoso, che ad un certo punto dovette appoggiarsi alla torcia che portava, ed io ero in pena che venisse meno. Giunto al Santuario, non ebbe posto distinto: si eclissò, e non ricomparve se non dopo la funzione per ringraziare le personalità intervenute alla funzione. Tale, del resto, era il suo proposito, di nascondersi sempre»264

 

Il Fondatore aveva dichiarato con sincera convinzione di avere la stessa idea del Cafasso, cioè di voler fare il bene, ma non rumorosamente.265 È stato proprio così. Mi domando: tra le persone che hanno fatto quella processione, chi è adesso più in vista? Vale il detto del Vangelo: «chi si abbasserà sarà innalzato» (Mt 23,12).

 

Soprattutto lo ha insegnato agli allievi e alle suore in diverse occasioni: «Che pensare, che dire di quei missionari che credono di adempiere all'offizio di apostolo con girare, lavorare e fare molte cose e molto rumore, lasciando perciò o diminuendo gli esercizi di pietà colla scusa del molto lavoro?».266 «Nel nostro piccolo guarderemo di imitare i Salesiani. Se noi non siamo fatti per far rumore (quelli là fanno il bene con un certo rumore) eh, faremo il bene senza rumore. Ciascuna Comunità ha il suo spirito».267 «Dovete farvi sante religiose, se sarete così sarete pure valenti missionarie; se non sarete sante religiose, non sarete niente. Farete come il vento che fa un po' di rumore e niente altro; lavorerete molto forse, ma rimarrete colle mani vuote perché le opere si misurano non nella materialità, ma col cuore, collo spirito con cui si fanno. E’ lo spirito religioso che deve informare la vostra vita. Pregate il Signore perché possiate formarvi vere religiose di spirito ed intanto preparatevi, studiate, fate tutto quello che è necessario per poter fare del bene».268 «Voi direte: io sono solo postulante, ho tempo a farmi buona. – No, bisogna non aspettare, ma incominciare subito, subito, non avrete mai abbastanza preparazione. E mai dire: Forse ho già fatto troppo. Avete il buon spirito, corrispondete alla vostra vocazione, la quale consiste non nel far rumore ma nell’operare per amor di Dio».269

 

 

Conclusione

 

L’impegno di “fare sempre bene le cose ordinarie di ogni giorno” spesso si scontra contro il nostro limite. Al Fondatore, uomo della fiducia illimitata, non è sfuggito questa aspetto ed ha incoraggiato a non perdersi d’animo. Ecco la sintesi del suo pensiero, che può essere la conclusione di queste riflessioni. È un passo della conferenza alle suore del 3 settembre 1916 sul “Bene omnia fecit”: «Ora, facciamoci una domanda: Ed io, ho sempre fatto tutto bene? Se non l’ho fatto, lo farò: Bene omnia facio; se per il passato non ho fatto tutto bene, per l’avvenire lo farò».270

 

Simile spirito lo ritroviamo nella conferenza agli allievi: «Dunque facciamo il proponimento di far tutto bene d’ora innanzi ad imitazione di N. S. Gesù Cristo. E se nel passato non l’abbiamo fatto, ricominciamo di nuovo: far tutto bene come ho spiegato: sono gli avvisi del Ven. Cafasso; li avete tutti; rileggeteli ogni tanto; metteteli in pratica in qualunque cosa. […]. È così che si son fatti santi anche senza miracoli. […]. Tanti santi dei miracoli non ne hanno mai fatto nessuno; ma bene omnia fecerunt».271

 

 

VI. SPERANZA

 

 

Che il Cafasso sia stato il santo della speranza e confidenza in Dio è stato concordemente affermato dai testimoni, anche nelle deposizioni al processo di beatificazione. Il Robilant nella biografia del Cafasso272 riporta diverse testimonianze, specialmente degli ex allievi del Convitto ecclesiastico. Eccone alcune: «Io ho trovato il Servo di Dio sommo in tutto, ma se avessi da dire, direi che spiccava di più nell’amore a nascondersi e nella confidenza in Dio» (G.B. Bertagna); «[di speranza] aveva peno il cuore» (G.B. Bertagna); della confidenza in Dio egli «parlava con cuore largo, inculcandola caldamente in ogni occasione» (Barberis); «L’ispirare grande confidenza in chi parea disperato» era chiamata «una virtù di Don Cafasso. Egli aveva il dono di cambiare la disperazione in viva speranza e infiammato amor di Dio» (Don Bosco).

 

Anche per l’Allamano il Cafasso è maestro di speranza e di confidenza in Dio. Lo ha testimoniato al processo, come riporta il Robilant: «La speranza fu da lui esercitata in modo specialissimo, fu anzi la sua virtù caratteristica». La speranza in lui fu «eminente». Il Fondatore lo ha più volte detto nell’ambiente dell’Istituto: «Il nostro Venerabile aveva tanta speranza, sua caratteristica, da infonderla anche nelle anime disperate, come scrisse D. Bosco»273.

 

Agli allievi, con evidente soddisfazione, ha fatto questa confidenza circa il processo di beatificazione del Cafasso,: «Quando si trattava di rispondere alla domanda: quale fosse la sua virtù principale, s’imbrogliavano; tutto era principale, poi han detto che la principale era lo zelo per la salute delle anime. Altri dicevano che era la confidenza in Dio: infatti di confidenza ne aveva per sé e per gli altri».274

 

Il Fondatore, nella sua personale spiritualità, ha seguito la stessa via della speranza e confidenza in Dio che aveva percorso lo zio. Il P. G. Gallea, nella deposizione processuale, afferma del Fondatore: «È indubitato che il Servo di Dio sia stato adorno della virtù della speranza soprannaturale nella quale cercò di riprodurre in sé lo zio S. Giuseppe Cafasso. […] E prendeva dal Cafasso le frasi più incisive ed atte a ravvivare la speranza e la piena fiducia nella misericordia di Dio».275

 

Sia il Cafasso che l’Allamano hanno proposto con chiarezza e forza una vita di speranza. La loro personale testimonianza e il loro insegnamento sono una fonte inesauribile per imparare la speranza e la confidenza in Dio, la quale, come diceva il Fondatore: «è la quintessenza della speranza». 276 Oppure: «La speranza esimia, più robusta si chiama fiducia, confidenza».277

 

 

1. SPAZZATI VIA GLI AVANZI DEL GIANSENISMO

 

a. G. Cafasso. Per comprendere pienamente la spiritualità del Cafasso sulla speranza e confidenza, bisogna tenere presente che, come maestro di teologia morale, egli ha seguito la dottrina di S. Alfonso ed ha lottato con tutte le forze contro il Giansenismo. In pratica, in campo di giudizio morale, ha abbracciato la “benignità” e la “misericordia”, ripudiando la ”durezza” e la “rigidità”. Questa sua prerogativa è stata universalmente riconosciuta ed, effettivamente, è uno dei suoi meriti principali come maestro del clero e guida di coscienze. Uno dei testimoni al processo (Elia) ha deposto che la speranza del Cafasso fu l’arma con cui «diede un gran colpo al Giansenismo».278

 

Il Robilant, nella biografia, ha scritto un capitolo intero su questo argomento, intitolandolo: “Il Giansenismo”.279 In esso, oltre a testimonianze, riporta molte espressioni del Cafasso in difesa della “benignità” e contro il “probaliorismo” e il “rigorismo” morale. Ricollegandosi con la testimonianza di Mons. G.B. Bertagna («Egli si lagnava spesso che non poche anime buone si lasciassero sopraffare dalla diffidenza»), riporta le parole stesse del Cafasso: «Queste anime il diavolo non le può vincere con gli allettamenti del mondo, e guarda di superarle con chiudere il loro cuore; […] l’uomo tanto fa quanto spera, la speranza è quella che dà la vita, e non è meraviglia, se si vive male quando si spera poco».280

 

 

b. G. Allamano. Al Fondatore piaceva questo capitolo, perché lo riteneva essenziale per comprendere la spiritualità dello zio. Intanto, si tenga presente che il suo manoscritto della biografia del Cafasso si interrompe proprio al “Libro secondo”, e precisamente alla fine del “Cap. 1°”, che è una lunga trattazione sul Giansenismo.281

 

Nel manoscritto per la conferenza sulla “Speranza” del 3 novembre 1912, annota: «La speranza e confidenza in Dio fu la caratteristica di D. Cafasso. Basta leggere il capo della di lui vita sul Giansenismo».282 E nello svolgimento è stato altrettanto preciso: «Così possiamo dire del Ven. Cafasso per la speranza e confidenza in Dio. Questa è la sua virtù specialissima, la sua virtù eroica. Rileggete quel capitolo della sua confidenza in Dio, dategli uno sguardo».283 Notiamo che il capitolo del Robilant sul “Giansenismo” per il Fondatore è diventato il capitolo sulla “Confidenza in Dio”.

 

Che cosa significhi questo atteggiamento del Cafasso lo ha spiegato il Fondatore alle suore, in un modo molto semplice, nella conferenza del 15 dicembre 1918 su “Speranza e confidenza in Dio”: «La caratteristica del Ven. Cafasso era la confidenza, perciò egli combatté molto il Giansenismo. Il Giansenismo era destinato a scoraggiare le anime. Allora si diceva: Andare alla Comunione? Ah! Guai a te; e se si facesse una confessione, una Comunione mal fatta? – E così con quelle paure, con quei timori, allontanavano la gente dai Sacramenti. Il nostro Venerabile era destinato a staccare le ultime tracce del Giansenismo in Piemonte».284

 

Anche con gli allievi missionari il Fondatore ha trattato questo aspetto nella conferenza del 22 agosto 1915 su “Fede – Speranza – Carità”: «Possiamo farci santi e non dobbiamo aver paura di sperare molto. Il carattere del Venerabile era la confidenza in Dio. E l’ho deposto anch’io nei processi. Il Signore voleva cancellare per mezzo suo gli ultimi avanzi del giansenismo e perciò lui aveva questa virtù e ne aveva tanta da infonderla anche negli altri, e l’infondeva anche nei disperati, e lui li faceva andare dritti in Paradiso».285 Di questo influsso positivo del Cafasso si erano accorti anche a Roma. Il Fondatore, parlando alle suore, ha riportato il pensiero ammirato del Card. G. Van Rossum, Prefetto di Propaganda Fide: «Mi disse che Don Cafasso è il S. Alfonso del Piemonte».286

 

 

2. NON SI SPERA MAI TROPPO

 

Zio e nipote dimostrano una vera tenacia riguardo la speranza e la confidenza. Non capiscono e non ammettono la loro mancanza. Su questo aspetto sembra che parlino più per esperienza che per scienza. Per entrambi, il non sperare è un atteggiamento irrazionale. Il Cafasso dice che la mancanza di confidenza è «un peccato da sciocco», anzi da «folle».287 E il Fondatore gli fa eco: «Il Venerabile Cafasso chiama la mancanza di confidenza in Dio: il peccato dei folli: perché non confidare? Persuadiamoci che egli [Gesù] è morto per noi».288 «Possiamo sbagliare, ma non stiamo lì melanconici: l’energia è il dono che fa il Signore a chi lo ama: Noi siamo folli se abbiamo diffidenza; bisogna sperar molto».289

 

 

a. G. Cafasso. Notiamo la semplicità con cui si esprime il Cafasso: «Purtroppo, essendo difficile portare al tribunale di Dio intatte le altre virtù, la speranza, la confidenza almeno portiamola tutta»;290 «Se abbiamo offeso il Signore, non diamogli disgusti sopra disgusti con esitare del perdono; abbiamo vilipeso la sua santità, la sua giustizia, onoriamo almeno la sua misericordia con una grande confidenza».291

 

Il Cafasso nutriva la certa speranza del Paradiso. Dice un testimone che si riteneva «certo di salvarsi per la bontà e misericordia di Dio» e che «parlava del Paradiso come chi vi ha un piede dentro».292 A chi gli chiedeva: «chi sa se andrò in Paradiso?», rispondeva: «Oh! Questo non è cosa da mettersi in dubbio. Vi sono certi cristiani che trattano l’affare della salute come un giocare al lotto, aspettando quasi dalla sorte, se uscirà il numero buono. Non è proprio così. Abbiamo la legge e le promesse di Gesù Cristo, e chi si sforza di osservare la legge non deve dubitare delle promesse».293

 

 

b. G. Allamano. Riferendosi al Cafasso, il Fondatore non è meno efficace: «Certuni hanno la fede abbastanza viva, ma sperano poco, non sono buoni ad allargare il cuore [N.B.: il Cafasso aveva detto che il demonio “chiude il cuore” per togliere la speranza]: supersperavi, sperare contra spem; oh, sì, in Te Domine speravi non confundar in aeternum! Molti, mentre credono di essere obbligati a credere, non si credono poi obbligati a sperare, invece è lo stesso. Quando si spera poco si fa un torto a Nostro Signore, che ha e può dare, vuole e può farci del bene. Il Venerabile Cafasso diceva che certa gente pensano a salvarsi come a giocare al lotto. Chissà se vinco al lotto?...chissà! Non ci deve essere alcun dubbio […]. Non dobbiamo aver paura di sperare molto».294

 

In precedenza, nella conferenza dell’8 gennaio 1915 sulla “Perfezione”, tutta incentrata sulla fiducia di poter progredire, aveva detto: «Non si spera mai troppo, perché la confidenza in Dio non toglie, anzi aumenta il bene che si fa. E quindi perché non confidare in Dio? Dio può e vuole aiutarci, ma vuole che siamo spogli di noi».295 E ancora: «Sperare per far piacere al Signore; mai aver paura di averne troppa…».296

 

 

3. DOVE SI FONDA LA SPERANZA

 

a. G. Cafasso. Per il Cafasso il fondamento che ci autorizza a sperare e ad aver confidenza in Dio è la certezza di fede che “Dio è padre” e che Gesù è “Buon Pastore”. Nelle meditazioni sulla speranza, il Cafasso valorizza le tre parabole del capitolo 15 del Vangelo secondo Luca Per ordine di importanza: quella del “Figlio ritrovato” (Lc 15, 11-32); poi quella della “pecora ritrovata” (Lc 15, 3-7); infine quella della “moneta ritrovata (Lc 15, 8-10). Ovviamente la parabola del figlio è commentata più diffusamente. Ecco lo “spirito” del Cafasso: «Dio è un Padre, ma un padre così raro e singolare che non solo non ha eguale né in Cielo né in terra, ma neppure sarebbe possibile idearcene un altro migliore, più tenero, più paziente, più affezionato; esso è un padre, che vuole perdonare: anzi non solo vuole ma si offre, c’invita, ci cerca per perdonarci, e di più si compiace, si rallegra e gode nell’accordarci il perdono».297 In questo testo si scorge un commento sintetico della parabola lucana del figlio ritrovato., ma con elementi delle altre due parabole.

 

Quando poi si esaminano i commenti diretti alle stesse parabole, si trovano espressioni di impensata profondità. Rimando alla meditazione sulla speranza negli esercizi spirituali ai laici.298 Ovviamente il Cafasso, parlando a laici che si trovano in differenti gradi di impegno nella vita cristiana e che vuole “convertire”, usa accenti forti e toccanti. Il suo spirito, comunque, emerge sempre molto semplice e lineare. Come saggio, ecco l’inizio della presentazione della parabola: «[Dio] ben lontano da farci da Giudice, vuole tutto al contrario farci da padre, e padre il più buono, il più tenero, il più affezionato».299 La conclusione, poi, è un misto di fantasia, di fede e di cuore, veramente toccante: «Vorrebbe il figlio inginocchiarsegli avanti, chiamargli perdono: Padre, ho mancato, v’ho offeso, perdonatemi: pater peccavi. Oh!...che mancanza, che perdono non vuol nemmeno sentire il padre, gli interrompe con le sue feste a mezza bocca le parole: Olà, servi, si fa a gridare, le più belle vesti che vi siano in casa, su presto, è arrivato mio figlio: Non sapeva più quel buon vecchio dove stare per l’allegrezza, e dopo averlo introdotto con mille feste, e carezze nella sua casa, tal quale come un piccolo ragazzo d’attorno alla sua madre, non sapeva allontanarsene, ma abbracciato al collo non faceva che ripetere: Ah! Mio figlio, mio figlio! Sembrava che a questo mondo non avesse più altro che il suo figlio!».300

 

Anche la figura di Gesù Buon Pastore è valorizzata dal Cafasso: ciò che Gesù insegna e ciò che compie infonde speranza. Dopo aver ricordato l’esempio della donna che cerca la moneta, il Cafasso continua: «Ma più di tutto ci ha lasciato il nostro divin Redentore un’idea del suo buon cuore, un quadro di sua bontà, di sua misericordia in quel pastore che andava in cerca di sua pecora perduta, e la cosa sta registrata nel Vangelo».301

 

Ed anche la descrizione di questo pastore che sa fare il Cafasso è molto vivace e persino commovente, pur nella sua semplicità: «Povero pastore, che brutta notte sarà stata quella per lui, sempre pensa come mai l’abbia potuto perdere. Ma basta, va dicendo, che in questa notte qualche bestia non me la divori, ma chi sa se domani potrò ancor trovare; e così macchinando passa appena le ore più oscure della notte, allo spuntare appena del dì, lascia le altre a suo luogo se ne parte, gira e torna sempre in cerca: oh!...se uno l’avesse veduto andarsene per colline, per valli senza risparmiare né stento, né fatica, affannato guardava per ogni parte, la chiamava col suo proprio nome, stentava già a camminare per la stanchezza, i sudori per il gran calore gli calavano dalla faccia, quando voltandosi per azzardo da una parte, la vede, la conosce…oh! Che festa, che allegria, dimentica in un momento tutta la sua stanchezza, corre, la raggiunge, l’abbraccia, e dopo mille carezze se la prende sulle spalle, e tutto allegro s’incammina a portarla insieme alle altre. O santa fede, e chi mai lo direbbe che a tanto sia per giungere la Misericordia d’un Dio! In questo pastore, mia cara gente, è dipinto al vivo il gran pastore delle anime, Cristo Gesù, le sue finezze, le sue industrie per venir a guadagnare non dico già una gran quantità d’anime, ma un’anima anche sola».302

 

In questa descrizione ci sarà molta fantasia, ma certo emerge chiaro il pensiero del Cafasso sulla confidenza in Dio.

 

Il Cafasso non si è limitato alla dottrina di Gesù sulla misericordia (parabole), ma ha anche esaminato il suo modo di comportarsi, che è altrettanto evidente: «[…] ma lasciamo stare le parabole, e veniamo ai fatti: che non fece il Signore nella sua mortale carriera per convertire i peccatori, quali prove, quali tratti di misericordia non usò verso una Samaritana, uno Zaccheo, gli stessi farisei, e perfino verso Giuda; ne vogliamo prove più fresche ancora, e continue, quante non ne abbiamo in quel tribunale di penitenza, là dove si aprono e si rompono i secreti del cuore».303

 

 

b. G. Allamano. Anche il Fondatore ha valorizzato la parabola del “Figlio ritrovato” per incoraggiare, facendo un commento curioso: «E il figliol prodigo? Ha detto: Io sono un figlio qualunque, ma lui è sempre mio padre; ed è tornato. Ha detto: Non son degno di chiamarti padre; ma intanto l’ha chiamato- Molta confidenza, mai credere di averne troppa. Sia per i buoni, che per i tiepidi, che per i cattivi: è sempre necessaria».304

 

Così pure, nella comprensione che Gesù aveva per i peccatori, il Fondatore ha visto il motivo determinante della confidenza: «Quanta mansuetudine colla Samaritana, coll’adultera, colla Maddalena, cogli Apostoli rozzi, con S. Pietro dopo il peccato, che mai glielo ricorda, e collo stesso Giuda, che chiama amico nell’atto stesso che lo tradiva».305 Qui il Fondatore parla direttamente della mansuetudine, ma da come si esprime si vede anche il suo pensiero circa la misericordia. In altra occasione, parlando della purezza, dirà: «Del resto a me fece sempre stupore, e senso di conforto il leggere le prove che Gesù diede a S. Maria Maddalena, dalla quale aveva scacciato sette demonii; essa la prima a cui apparisse alla risurrezione…».306

 

Nel retro di una immagine del 50° di sacerdozio, data al P. Luigi Olivero, l’Allamano aveva scritto di suo pugno: «Ogni anima costò la morte di Gesù».307 Questo era il più solido fondamento della speranza e della confidenza in Dio che l’Allamano viveva ed insegnava.

 

 

4. NECESSITÀ DELLA SPERANZA E CONFIDENZA

 

G. Cafasso. Parlando alla gente durante le missioni, il Cafasso incoraggia ad aver fiducia e confidenza in Dio, anche per fargli piacere, perché è un padre buono che attende a braccia aperte il figlio, anche se ha peccato: «Guarda, vorrei dirgli [a chi ha soggezione di Dio], guarda con che atteggiamento questo Dio t’aspetta, da questa croce t’invita, con questi occhi ti guarda, con questa lingua ti chiama, con queste pieghe, con queste braccia distese ti sospira. Oh dagli una volta questa consolazione, la dai al tuo Dio, vieni finalmente a consolarlo».308 Il discorso del Cafasso è orientato in una precisa direzione, quella del peccatore che deve convertirsi, ma è tale la forza del messaggio, che lo possiamo ritenere valido e attuale per ogni atteggiamento di confidenza in Dio, in tutte le circostanze.

 

In definitiva, le ragioni della speranza il Cafasso le concentra sulla paternità di Dio, che si esprime in attesa, amore, comprensione, ricerca, perdono, reintegrazione totale, ecc.; e Gesù ne è l’espressione visibile, soprattutto nel mistero della passione e morte

 

 

b. G. Allamano. Il Fondatore condivide tutto lo spirito del Cafasso riguardo la speranza e confidenza. Quando parla della necessità della speranza si ispira anche molto a S. Agostino: «S. Agostino dice che la nostra perfezione è come una casa. Le fondamenta sono la fede, ma tutto il fabbricato è formato dalla speranza, e la carità è solo il complemento. […] Credendo si mette il fondamento, sperando si erige. Nella perfezione religiosa la speranza ha la massima parte».309

 

Citando diversi autori di ascetica, il Fondatore elenca tre ragioni che militano in favore della necessità della speranza. Ecco il suo manoscritto: «1) Necessità che abbiamo noi della speranza. […]. Per coprire la sproporzione che passa tra il nostro nulla e l’altezza della nostra vocazione religiosa – sacerdotale ed apostolica. […]. 2) Per l’avvenire, in missione. […]. 3) Per far piacere a Dio stesso che tutto accorda a chi confida […]. (V. Conf. P. Bruno)».310

 

Nello svolgimento della conferenza del 3 novembre 1912 agli allievi, il Fondatore diventa molto pratico e porta esempi di vari santi. Tra l’altro dice: «La speranza deve sempre guidare i nostri passi specialmente se ci vediamo imperfetti, o se troviamo difficoltà o altro nella vocazione. […]. Dunque, aver fiducia in tutto. Vi sono certi tipi che temono sempre, hanno sempre paura; certe volte è per timidità, ma non bisogna; andiamo avanti nel Signore, diciamo col salmista in Verbum tuum supersperavi, non solo ho sperato, ma supersperavi. […]. Il Signore ci fa piacere che noi meditiamo la sua bontà, la sua speranza, la sua potenza. […]. Speriamo sempre ed il Signore ci farà santi. Quando al Ven. Cafasso dicevano che la porta del Paradiso è stretta, rispondeva, ebbene passeremo uno alla volta».311

 

Basandosi sullo stesso manoscritto, nella conferenza alle suore del 14 dicembre 1918, il Fondatore si è dilungato, spiegando più diffusamente ognuna delle tre ragioni. Sentiamo qualche passo sulla prima e sulla terza (circa la seconda diremo in seguito): «La confidenza è necessaria per vari motivi. Ve ne dirò tre: 1° - Per coprire la sproporzione che passa tra il nostro nulla e l’altezza della nostra vocazione religiosa. Vedete, noi siamo nulla, eppure dobbiamo essere qualche cosa di grande: una Missionaria! Come fare? […]. Bisogna che abbiamo speranza in Dio, […], perché vedete, è possibile scoraggiarci durante il tempo delle prove, e perciò, se stiamo saldi nella speranza in Dio, siamo sicuri. In certi casi, se non abbiamo un deposito di speranza in Dio… stiamo lì…In quei giorni in cui siamo più melanconici del solito…; quando siamo tiepidi poi… Certi si scoraggiano perché hanno dei difetti; ma che cosa si credono già? Si credono già alla perfezione del terzo grado? […]. Poi c’è un terzo motivo: per far piacere al Signore. Il Signore ha detto a S. Caterina da Siena: Se vuoi farmi piacere abbi tanta speranza in me. Sai che sono buono, potente, sapiente; come buono posso fare tutto quello che è meglio per te; come potente puoi ottenere da me tutto quello che vuoi; Come sapiente posso darti tutto quello che conviene a te. Dillo alle genti, affinché abbiano tanta confidenza in me».312

 

 

5. MEZZI PER AVERE VIVA E PIENA SPERANZA

 

G. Cafasso. Il Cafasso trova che il modo migliore per vivere con speranza è riflettere sulla propria vocazione speciale: Gesù si è fidato di noi chiamandoci. Il che comporta che anche noi ci fidiamo di lui e della sua parola. Sentiamolo: «Possibile che chi ci abbia chiamati ad essere suoi ministri, che abbia affidato se stesso e tutte le cose sue nelle nostre mani, quando non fosse stata vera volontà sua di averci poi con Lui in Paradiso? Questo però è poco […]. E che vogliono dire quelle speciali promesse fatte agli Apostoli ed a noi sacerdoti: Volo, Pater, ut ubi sum ego et illis sinti mecum (Gv 17,24). Vado parare vobis locum (Gv 14,2). In mundo pressuram habebitis, confidite. Tristizia vestra vertetur in gaudium (Gv 16,33.20) e altre simili?».313

 

Anche se il Cafasso si riferisce alla speranza per la salvezza eterna, questo suo pensiero è applicabile alla speranza in generale, perché aiuta a creare uno spirito di confidenza e di sicurezza spirituale.

 

 

b. G. Allamano. Il Fondatore, come aveva elencato 3 ragioni per la necessità della speranza, così elenca anche 3 mezzi per potere vivere con « viva e piena speranza». Stando al suo manoscritto, questi tre mezzi sono: «1) Spogliarci della confidenza nei mezzi umani, che sono in noi (talento, virtù, cariche, ecc.) e negli altri (stima…). 2) Riflettere sovente e praticamente alla potenza, sapienza e bontà di Dio a nostro speciale riguardo (V. sopra – S. Caterina). 3) In tutto, anche nelle cose minime sollevarsi a Dio e sperare in lui […] (La perf. Cr.)».314

 

Questo manoscritto è stato sviluppato nella conferenza parlata. Riporto le parole salienti su ogni mezzo: «1° - Spogliarci dei mezzi umani. Il Signore dice: Se tu confidi in me, io faccio la mia parte, ma se no, aggiustati. […]. 2° - Riflettere sovente alla potenza, bontà e sapienza di Dio verso di noi, verso di me […]. 3° In tutto, anche nelle più piccole cose sollevare la nostra mente a Dio, con pensieri di speranza. Certuni chiedono sempre perdono…[…]. Chi spera nel Signore è come una montagna di fortezza». Ed ecco la conclusione: «Dunque non c’è più né peccati, né dfetti, né scrupoli…tutto deve morire mediante la confidenza».315

 

 

6. LA SPERANZA AIUTA LA VITA SPIRITUALE

 

a. G. Cafasso. Secondo una testimonianza, il Cafasso diceva: «Di due cristiani, di cui uno è sicuro di essere stato perdonato e l’altro trema in proposito, è sicuramente migliore lo stato del primo […], perché chi è tranquillo fa sempre le sue cose bene; al contrario per chi ha sempre paura, questo timore è come un inciampo a camminare, e taglia via un pezzo a tutte le opere che compie (Baravalle)».316 Secondo un’altra testimonianza, il Cafasso concludeva: «Valgono quindi assai più atti di amore e di confidenza che tanti chi sa, che sarà di me? (Gioberti)».317

 

 

b. G. Allamano. Il Fondatore ha colto bene questo aspetto positivo del Cafasso in rapporto all’essere perdonati dei peccati e, quindi, potersi salvare. Lo ha espresso, però, soprattutto per incoraggiare a non disanimarsi a motivo delle inevitabili mancanze quotidiane: «Nei turbamenti ed incertezze d’anima atteniamoci sempre alla voce che genera tranquillità. Il Ven. Cafasso dice che non dobbiamo poi tutti i momenti domandare perdono a Dio; ma come ad un amico che si ama per ogni piccolezza non si chiede scusa, così l’amor di Dio lava tutto. […]. Bisogna andare alla buona con Dio. Lo spirito vivifica e la lettera uccide».318 «Il Ven. Cafasso diceva: Signore, voi lo sapete che vi voglio bene, che non vi voglio offendere; quindi se mi scappa qualche cosa, non vi voglio neppur domandar perdono. Lui sa che gli voglio bene; tra amici ed amici non si guarda a tante bagattelle. Egli gli era amico e non voleva offenderlo».319

 

Nella famosa conferenza del 1915 sulla “Speranza e Confidenza in Dio”, ritorna su questa idea: «È necessario ai buoni non scoraggiarsi per nulla, neppure dei peccati. Il Ven. Cafasso, quando commetteva dei peccatucci, non voleva neppur domandare perdono a N. Signore. Diceva: Lui sa che gli voglio bene, e tra amici non si sta mica a guardare certe piccolezze. Siamo intesi; quando si vuol bene queste cose non si fanno apposta, son cose che scappano, e poi…tra amici e amici…».320 Infine: «Non dobbiamo scoraggiarci per i peccati della vita passata. Ricordarli per umiliarci sempre più, ma non sempre esserci sopra come se il Signore non ci avesse perdonati».321

 

Per l’anno 1918 il Fondatore ha assegnato come protettore il Cottolengo. Ovviamente ha fatto notare che «Quest’uomo colla confidenza in Dio ha fatto un bene immenso e in mezzo a tanti mali si è fatto santo. Ed ecco la spiegazione: «La speranza in Dio è anche un carattere di D. Cafasso!». In forza dell’esempio di questi santi, il Fondatore ha incoraggiato a vivere di confidenza: «Uno che si senta maligno, disubbidiente, ecc. abbi confidenza e con l’aiuto di Dio ti emenderai! Bisogna solo essere pronti a tagliare i difetti! E tagliarli con la confidenza in Dio. […]. L’Istituto in genere e tutti devono confidare in Dio: qui confidit in Domino non minorabitur! Non sarà mai abbassato».322 Come si vede quella che propone il Fondatore è una confidenza attiva, impegnata.

 

 

7. LA SPERANZA NECESSARIA PER L’APOSTOLATO

 

Sia il Cafasso che l’Allamano sapevano di parlare a sacerdoti e missionari impegnati nell’apostolato. Il loro discorso, quindi, teneva conto della dimensione apostolica: speranza non solo per se stessi, ma anche per donarla agli altri. L’apostolo che è dotato di speranza e confidenza in Dio è più forte e diventa più facilmente un sostegno per gli altri.

 

 

a. G. Cafasso. Nella meditazione ai sacerdoti “Sopra la misericordia di Dio”, il Cafasso ha parole chiare su questo aspetto: «Aggiungete non vi è persona al mondo che abbia bisogno di avere una più giusta idea della Misericordia di Dio, che noi sacerdoti, sia perché nel nostro stato, ai grandi carichi che abbiamo, al gran conto che ne avremo da rendere, non abbiamo bisogno di meno, sia perché essendo noi ministri, e dispensatori della sue misericordie […] è più che giusto che sappiamo che sorta di bontà e misericordia sia quella, che abbia posta nelle nostre mani, e di qual cuore sia quel Dio, di cui facciamo le veci; per non essere poi avari di un benefizio, che non ci appartiene».323

È soprattutto il nipote a riconoscere nello zio questa dimensione: «La confidenza è la quintessenza della speranza. I sacerdoti devono averne un magazzino per darne agli altri come il Ven. Cafasso di cui si dice che la sua parola cambiava la disperazione nella più bella confidenza in Dio».324 E in altra occasione: «Di confidenza in Dio bisogna averne un magazzino, per poterla infondere anche negli altri, come il nostro Venerabile che l’infondeva nei carcerati, nei peccatori più ostinati, sicché morivano non solo bene, ma anche santamente».325

 

Questa convinzione ha portato il Cafasso ad avere una concezione “ottimistica” circa la salvezza soprannaturale dell’umanità. Lo prova il fatto riferito dal testimone Giacomelli: Don Bosco aveva obiettato al Cafasso, basandosi sulla S. Scrittura, che sono pochi gli eletti. «Dapprima il Servo di Dio gli rispose con i suoi forti argomenti in sostegno del gran numero di quelli che si salvano. Ma, vedendo che don Bosco non cessava di ripetergli i soliti testi scritturali interpretandoli in favore del piccolo numero, don Cafasso finì con rispondere: Non farmi mai più tali questioni. Tanto quelle massime riuscivano contrarie al suo spirito!».326

 

 

b. G. Allamano. Il Fondatore ha tenuto presente la situazione dei suoi figli e figlie in missione ed li ha incoraggiato ad essere persone di speranza e confidenza. Parlando della necessità della speranza, ha così intitolato la seconda ragione nel suo manoscritto: «Per l’avvenire, in missione. Verranno tentazioni di scoraggiamenti per le nostre miserie, pel poco frutto, per la solitudine… Qui confidit in Dom. sicut mons Sion».327 Nella spiegazione alle suore, partendo dallo stesso manoscritto, si è dilungato. Merita sentirlo per intero nella redazione di Sr. Emilia Tempo, che ha ripreso la conferenza del 15 dicembre 1918, tutta sulla “Speranza e Confidenza in Dio”: «2° - Non solo per il bisogno che ne abbiamo qui, ma specialmente in Missione. Allora sì che possono venire le tentazioni…Siete poi lontane e lo scoraggiamento…Alle volte non si sa perché, le cose non vanno bene, ed è per le nostre miserie e ci scoraggiamo. Oppure per quella solitudine, o pel poco frutto che si ottiene…Ci crediamo di lavorare intorno ad un’anima, di guadagnarla e…quella va in aria…Passare anni senza dare un Battesimo…Oh! I momenti di scoraggiamento verranno, sapete!

 

Bisogna avere molta confidenza in Dio e volere sempre quello che egli vuole. Se non ne avete molta, se non ne avete un deposito, un sacco, hai! Quando sarete in Missione, passerete dei giorni brutti. Alle volte sarà perché si è fatto qualche sbaglio, mancato magari all’ubbidienza e allora…si starebbe in un angolo, si lascerebbe star tutto, non si farebbe più niente…si perde la confidenza, viene lo scoraggiamento…Si dice: “Ma è per colpa mia”…Macchè! Su, animo; colpa tua o non colpa tua, il Signore aggiusta tutto…Eh! Se si fa così non si fa più niente. Sempre avanti! In Missione avete bisogno di questa virtù».328

 

 

Il Fondatore, che conosceva l’episodio della discussione tra il Cafasso e Don Bosco sulla salvezza dell’umanità e lo ha riportato parlando agli allievi nella conferenza del 17 novembre 1918 su “La Fede fondamento della santità”: «D. Cafasso una volta passeggiava sul piazzale di S. Ignazio parlando con D. Bosco, il quale gli fece una questione sul piccolo numero degli eletti. E D. Cafasso gli rispose secco: Non farmi mai più queste obiezioni. Lo raccontava poi D. Bosco e mi pare di averlo sentito dalla sua bocca. Non plus sapere quam oportet sapere, sed sapere ad sobrietatem».329

 

 

Conclusione

Come conclusione, sentiamo la preghiera del Cafasso posta all’inizio della meditazione sulla misericordia: «Misericordioso Iddio, io credo alla vostra divina presenza e prostrato davanti a voi io imprendo a considerare il più grande, il più dolce de’ vostri attributi, qual è la vostra divina Bontà: mio Dio voi m’avete creato perché possa infinitamente ringraziarvi, e quello che più importa ora ne possa approfittare.

Vergine Maria madre di bontà e di misericordia voi assistetemi perché possa capire le finezze e le tenerezze del vostro caro Gesù.

Ah mio Dio fatemi conoscere quest’oggi quali e quante sno state le misericordie, che voi sin’ora avete usate con me, fatemi capire quanto buono, e quanto tenero sia quel cuore che purtroppo ho offeso, ma che in questi giorni ho risoluto fermamente di offendere mai più. Vergine Maria cara madre di bontà, e di misericordia voi assistetemi, voi pregate per me sicché arrivi a comprendere le finezze, le tenerezze del vostro caro Gesù».330

 

Anche il Fondatore aveva una preghiera sulla confidenza, che gradiva molto. Lo ha detto alle suore: «A me piace molto una preghiera che riguarda la confidenza in Dio: un giorno o l’altro ve la porterò. “Io non perderò mai la confidenza in Voi, o mio Dio”. Ah, com’è bello!».331

 

 

VII. MODESTIA - DELICATEZZA

 

 

Sia il Cafasso che l’Allamano avevano un comportamento molto “dignitoso”: un’armonica fusione di modestia, delicatezza, finezza, nobiltà di comportamento. Del Cafasso, secondo quanto afferma il Fondatore, si diceva «che la sua presenza e poche sue parole tranquillizzavano l’animo»;332 «che al solo avvicinar[lo] si provava un non so che…che muoveva al rispetto ed alla confidenza»;333 che «bastava vederlo e stargli assieme per provare un’allegrezza tutta speciale».334 Anche dell’Allamano le testimonianze sono concordi nell’affermare la nobiltà di comportamento. Il P. L. Sales scrive «che l’Allamano sapeva tenere il decoro che a lui s’addiceva […]. L’ordine della persona curato “dalla punta dei piedi alla punta dei capelli” come già insegnava il Cafasso». E continua riportando alcune testimonianze: «Egli precedeva con l’esempio: Era compitissimo. Dai suoi alunni viene messo in rilievo “il suo tratto finissimo e delicato”(G. Balladore), “l’affabilità e nobiltà del suo fare”(G. Antonietti), “i suoi modi urbani, dignitosi nello stesso tempo che familiari”(F. Facta) ». Infine si interroga: «Quale il segreto di sì perfetta compitezza? Lo dichiara il can. Peyron: “Ho sempre trovato il can. Allamano di modi gentilissimi e di squisita educazione come pochi altri, essendo ciò frutto più della pietà intima che dell’educazione di famiglia”».335

 

Sulla “modestia” il Cafasso ha una magnifica istruzione che teneva durante gli esercizi al clero.336 L’Allamano tratta diverse volte della “modestia”, sia con intere conferenze e sia mentre parla di altri argomenti.337

 

Fatta questa premessa, esaminiamo prima il pensiero ed i suggerimenti del Cafasso sulla modestia, e poi come vengono interpretati dall’Allamano. Su questo aspetto il Fondatore dipende in modo evidente dal Cafasso, al cui insegnamento rimanda, con un certo entusiasmo, sia gli allievi che le suore.338 È indubbio che al Fondatore piaceva molto come lo zio proponeva e spiegava la modestia, anche perché corrispondeva in pieno al suo carattere e modo di pensare. Si tenga presente, però, che sia il Cafasso che l’Allamano parlano di modestia in senso lato, comprendendo tutti ciò che si riferisce alla nobiltà di comportamento, come l’educazione nei modi, l’urbanità, la finezza, fino alla delicatezza.

 

 

1. CHE COSA SI INTENDE PER “MODESTIA”

 

a. G. Cafasso. Entrambi il Cafasso e l’Allamano, per descrivere in che cosa consiste la virtù della modestia, si riferiscono alla “Somma Teologica” di S. Tommaso. Ecco le parole del Cafasso, nell’istruzione sulla modestia: «Essa è una virtù speciale e consiste nel moderare “i moti e le azioni corporali, di modo che siano fatti in modo decente e onesto, nella cose eseguite sia seriamente che per gioco”».339

 

b. G. Allamano. Il Fondatore, nel suo manoscritto, riporta queste stesse parole, in latino,340 ma alle suore le traduce così: «S. Tommaso dice che la modestia riguarda le azioni e i movimenti corporali, cioè che siano fatti decentemente ed onestamente; sia, aggiunge, nelle cose che si fanno con serietà, sia durante i giochi. La modestia ci deve essere sempre in tutto».341Questa ultima frase è la spiegazione più facile delle parole di S. Tomaso, e cioè: la modestia impegna sempre il nostro comportamento, in qualsiasi attività, sia di lavoro che di riposo, sia da soli che in pubblico, e non riguarda solamente qualche settore, ma li tocca tutti.

 

 

2. LA MODESTIA COINVOLGE TUTTE LE VIRTÙ

 

a. G. Cafasso. Ecco la precisazione del Cafasso: «Ho già notato che questa virtù, benché esterna, al dire dell’Angelico tiene la sua radice all’interno. […]. Quello che noi vediamo in […] quel sacerdote ordinato e composto non è che l’indizio d’un tesoro che sta là dentro nascosto e sepolto, voglio dire, è l’effetto, e non altro di quella virtù, di quella forza, di quella padronanza, con cui questo sacerdote comanda nella sua casa interna. […]. Ditelo voi: come potrà essere modesto il sacerdote nel suo portamento, nelle sue parole, nel suoi gesti, nei suoi sguardi, quando non abbia umiltà, pazienza, mansuetudine, carità, castità, prudenza? […] Qualche volta ed in qualche caso egli potrà fingere, potrà farsi forza e simulare, ma farlo abitualmente, quasi senza pensarvi, con facilità, con prontezza, è impossibile senza una padronanza grande sopra di sé, che non si ottiene senza un esercizio ben lungo e ben vigoroso di virtù e di mortificazione».342

 

Questa forza che ha la modestia di coinvolgere tutte le virtù, è anche spiegata con una frase classica, già citata: “modesti dalla testa ai piedi”. Il Cafasso lo dice espressamente sotto diverse forme: «Voi sapete che la modestia è ampia: guardate l’ecclesiastico da capo a piedi, non v’ha parte della sua persona che sia eccettuata, la modestia lo deve come coprire e vestire tutto quanto. Guardate il sacerdote dove volete, in chiesa, fuori chiesa, in casa, per le strade, al lavoro e al sollievo, dappertutto voi dovete trovargli questa virtù, quando egli sia vero ecclesiastico; nessuna circostanza di luogo, di tempo, di affari ne lo può dispensare».343

 

 

b. G. Allamano. Il Fondatore segue la precisazione fatta dal Cafasso: «Ma, direte, se riguarda solo le cose esterne, non è una virtù. No, è una grande virtù e quantunque riguardi l’esterno, viene dall’interno. Per avere questa modestia bisogna saper frenare le nostre passioni, e questo è interno. Per averla bisogna esercitare tante virtù. Se uno non è paziente, umile, come può essere modesto? Bisogna saper frenare noi stessi, tenerci sempre in equilibrio. La modestia è come la corona delle altre virtù».344

 

Il Fondatore conosce bene il modo di esprimersi del Cafasso, al quale rimanda espressamente: «Leggete la predica sulla Modestia del Ven. Cafasso.È un capo d’opera. Dice che bisogna tagliare, osservare la modestia dalla testa ai piedi».345 «La modestia, dice il Venerabile, si può applicare dalla punta dei capelli fino all’estremità dei piedi».346 Fa parte della sua pedagogia incoraggiare ad essere impegnati sempre e su tutto, senza scoraggiarsi.

 

 

3. GESÙ MODELLO DI MODESTIA

 

a. G. Cafasso. Su questo particolare aspetto, il Cafasso ha una pagina stupenda, quando spiega la “preziosità” della modestia, per il fatto che essa “Portio Dei est” (è porzione di Dio). Si domanda che cosa significhi questa espressione e riporta alcune interpretazioni. Si sofferma, però, sull’ultima, spiegando che l’espressione “Portio Dei est” potrebbe voler dire che la modestia «abbia questo di particolare, di comunicare all’uomo anche nell’apparenza e forma sua esteriore una cert’aria di divinità». Ed è qui che si collega con Gesù: «Quest’ultima supposizione verrebbe spiegata a meraviglia da quel che si legge del divin Redentore: essere stata cioè tale e tanta la sua modestia, che lo rendeva come un oggetto d’incanto d’innanzi agli uomini ed agli angeli, ed anche in mezzo a tutte le sue umiliazioni, lo faceva riconoscere per un Dio di sovrana maestà». Dopo aver riportato alcune espressioni di Padri della Chiesa, continua aggiungendo l’esemplarità di Maria: «Così pure Dionigi l’Areopagita della Vergine SS., che vedendola si sentì talmente mosso e rapito da quella singolare modestia, che l’avrebbe adorata come Dio, se la fede non l’avesse fermato».347

 

 

b. G. Allamano. Anche il Fondatore, seguendo il suo metodo spontaneo ed abituale, ha preso Gesù come modello di modestia: «Pensiamo alla modestia di Gesù, che da un Padre è detta virtus Christi. S. Francesco di Sales, secondo la Chantal, fu una vera copia di Gesù in questa virtù, che nella faccia del Santo pareva fosse dipinto N.S.G.C., sicché al vedere lui pareva di vedere nostro Signore sopra la terra».348 Addirittura, parlando di questo argomento, si è riferito a S. Paolo come esempio di imitazione di Gesù: «S. Paolo che voleva assomigliare tanto a N. Signore diceva: Io son confitto alla croce di N. Signore e quindi non sono più io che vivo, è N. Signore che vive in me».349

 

Questo era il suo criterio generale. È molto significativa questa espressione del Fondatore, nella conferenza del 18 ottobre 1908 su “Lo spirito dell’Istituto”: «Bisogna rivestirsi dell’uomo nuovo, di N.S.G.C., ed in qual modo? Bisogna che, come diceva il Ven. Cafasso, facciamo ogni azione come la farebbe Gesù. Domandiamoci spesso: Gesù penserebbe così? Parlerebbe così? Agirebbe in questo modo?».350 Ed è proprio in questa conferenza che il Fondatore afferma: «Lo spirito lo dovete prendere da me».

 

Quando poi spiegava questa esemplarità di Gesù, il Fondatore andava a dei particolari, come: «N. Signore non camminava a cavalas [cavallaccio], senza garbo…; faceva le cose con garbo […]. Non si è mai sentito che il Signore parlasse da grossolano benché vivesse cogli Apostoli che erano grossolani; non li cacciava mai via; attirava al solo vederlo».351

 

Ed è altrettanto bello notare che anche il Fondatore ha evidenziato, come il Cafasso, la modestia e delicatezza della Madonna. La Madonna è modello anche di questa virtù: «La nostra Consolata è delicata, e vuole che anche i suoi figli siano delicati».352 «I sacerdoti devono essere rappresentanti del Signore e così le suore almeno della Madonna. Chi vede voi dovrebbe dire: Ecco la Madonna. Si può dire così? La Madonna camminerebbe bene, non guarderebbe a destra ed a sinistra, non andrebbe colle maniche su, non farebbe tanti giri…[…]. La modestia riguarda tutte queste cose: leggete la predica del Ven. Cafasso, leggetela bene. […]. Bisogna che chi vede un sacerdote, una suora, una missionaria, possa dire: È il Signore; è la Madonna quella lì […]. Perché andare a cercare la Madonna altrove? Si deve trovare in ognuna di voi».353

 

 

4. LE RAGIONI APOSTOLICHE DELLA MODESTIA

 

C’è una premessa da tener presente, riguardante sia il Cafasso che l’Allamano. Il Cafasso afferma che la modestia è una virtù indispensabile per uno che deve rappresentare Dio in terra: «Quel Dio, che è invisibile ad occhio umano su questa terra, ha voluto in certo modo porgere agli uomini il conforto della sua presenza, affinché potessero quasi rimirarlo, avvicinarsi a lui e parlargli; è perciò che fece? Scelse un uomo, lo separò dal resto degli altri, lo rivestì dei suoi poteri e lo elevò tant’alto da costituirlo suo ministro e rappresentante in terra; sicché l’occhio del credente, al vedere, al contemplare il sacerdote in tutto il suo esterno, dovesse dire tra sé: ecco il mio Dio, cioè a dire, ecco una persona che mi ricorda Dio, mi rappresenta Dio, mi raffigura e quasi mi fa vedere coi miei occhi Iddio. Ah che grande pensiero!».354

 

Anche il Fondatore afferma la stessa cosa per i suoi, riferendosi espressamente allo zio. Oltre a quanto detto più sopra, ecco l’affermazione esplicita: «Il sacerdote, il missionario e la missionaria è rappresentante di Dio in terra; deve perciò rassomigliare il più possibile a Dio in tutte le sue virtù e specialmente nel suo esterno. Dio invisibile si rende visibile nel suo ministro (V. Cafasso l.c.)».355

 

 

a. G. Cafasso. Fatta questa premessa, il Cafasso spiega la necessità della modestia con tre ragioni che possiamo dire di carattere apostolico. La prima è “Per la gloria di Dio”. Proprio perché è “homo Dei”, il sacerdote deve essere nobile e modesto nel suo comportamento: «Vogliamo che questo Dio sia stimato, onorato, servito con rispetto, con riverenza e con amore? Procuriamo con il nostro esteriore e con la nostra modestia di farne concepire un’idea grande e dignitosa».356

 

La seconda ragione è “Per l’edificazione del prossimo”. È una ragione che evidenzia la forza della testimonianza: «Quand’anche un sacerdote fosse un oracolo di scienza, un serafino d’amore, finché non dà segni, non si fa conoscere, non compirà l’altro suo dovere […] di edificare gli altri e di eccitarli alla virtù e alla santità. […]. Questa è una predica continua, una maniera di predicare che fa l’ecclesiastico tutto lingua da capo a piedi: predica con gli occhi, colle mani, coi piedi, colle vesti, perfino coi capelli, ed è tanto forte e robusta questa maniera di predicare, che non va mai senza frutto, perché o guadagna chi vede, o lo condanna, o lo anima al bene, o lo confonde e svergogna del suo male».357

 

La terza ragione della necessità della modestia è “Per la nostra reputazione”. Qui si tratta della “necessità del buon nome”. Il Cafasso si domanda: «E che volete fare d’un ecclesiastico che goda poco credito e poca stima? […]. È persona che non serve a niente, e da lasciarsi a far numero colla gente più oscura e meschina. Infatti che sorta di bene potrà fare un sacerdote che non abbia la stima, la reputazione, la confidenza del popolo?». E prosegue spiegando che la modestia è il mezzo più efficace per essere stimati e, di conseguenza, apostoli efficaci.358

 

 

b. G. Allamano. Il nostro Fondatore segue quasi alla lettere queste idee, ma sa riferirle alle esigenze dei suoi figli e figlie. È la stessa dottrina del Cafasso, ma applicata a chi deve essere missionario di frontiera. Basta esaminare il testo del suo manoscritto che gli serviva per la conferenza sulla modestia, nel quale cita il Cafasso.359 Come esemplificazione, riporto alcune espressioni dette alle suore: «È necessaria la modestia? Tanto necessaria. Necessaria per dare gloria a Dio, per edificare il prossimo, e per noi stessi. Dar gloria a Dio. Uno che non sappia frenarsi nel parlare, nell’operare, non dà gloria a Dio».360 Anche per l’Allamano è evidente che la modestia è una virtù apostolica, indispensabile al missionario e alla missionaria.

 

Proprio la natura apostolica della modestia fa sì che il Fondatore, seguendo S. Paolo (Fil 4,5; Col 3,12), insegni che essa debba essere vista dalla gente. Per dare buon esempio occorre che il proprio modo di comportarsi sia conosciuto. Sentiamo l’Allamano nel suo manoscritto:361 «S. Paolo nell’Epistola che la Chiesa ci propone oggi nella Messa, scrivendo ai Filippesi, raccomanda la virtù della modestia; e vuole che sia nota a tutti: Modestia vestra nota sit omnibus hominibus. […]. Lo stesso Santo a ciò esorta i Colossesi: Induite modestiam».362 Quando spiega questa idea agli allievi, nella conferenza del 13 dicembre 1908, insiste: «E la nostra reputazione: come possono stimarci se ci vedono simili a loro, nella grossolanità, cogli stessi difetti? Il buon esempio poi? S. Paolo scrive: Modestia vestra nota sit omnibus hominibus; non dovete essere modesti solo per voi, ma anche per dare edificazione al nostro prossimo. Non basta essere santi (quantunque i santi sapevano arrivare a queste cose), non basta essere buono, ma osservare anche quelle convenienze che edificano il mondo, ed anche i selvaggi dell’Africa sono mondo. Chi vuol essere solo buono, vada a chiudersi in una caverna, là non avrà più bisogno di queste cose».363

 

Quando poi spiega la stessa idea alle suore, dopo aver riportato le parole di Paolo, afferma: «Sembra una cosa da star nascosta la modestia, e invece dice che sia nota a tutti gli uomini».364 E non va oltre a questa osservazione piuttosto generica. Qui si vede la sua personale ritrosia a farsi notare, proprio lui che preferiva tenersi nascosto.

 

 

5. IL VISSUTO CONCRETO DELLA MODESTIA

 

a. G. Cafasso. Ecco le parole del Cafasso: «[…] la modestia è quella [virtù] che ha da regolare tutto, e non solo le azioni, ma anche le cose che appartengono all’uso, al comodo, al decoro medesimo delle persone, onde tutto sia nei termini della debita convenienza ed onestà. È questo che intesero i Padri del Consilio Tridentino, quando prescrissero a tutto l’Ordine clericale in quella forma sì grave»365 E poi continua applicando il passo del Concilio alla vita dei sacerdoti: «Prescrivere cioè la modestia dell’abito; prescrivere il gesto delle mani, come tenerle, come muoverle, quando fermarle, con che moderazione, con che riguardo e misura; prescrivere il camminare, qual debba essere il passo del sacerdote sia in chiesa che fuori; prescrivere il parlare e con ciò quel tanto che ci vuole per parlar bene; ora un tono, un modo più che un altro, questa o quella frase, perché una parola anche sola può screditare grandemente un ecclesiastico; prescrivere poi tutto in generale: aliisque omnibus rebus, e non vuole che in cosa alcuna per quanto sia possibile apparisca neo, anzi che in tutto compaia gravità, moderazione e religione. E che vuol dire religione? Vuol dire che l’ecclesiastico deve far conoscere a tutti ed in tutto, perfino quando mangia, dorme, ride, gioca, passeggia e si diverte, deve far conoscere, dico, che egli è l’uomo della religione, l’uomo di Dio».366

 

Questi suggerimenti vanno letti tenendo conto della cultura dell’ottocento, sia a livello sociale che religioso. Come spirito e atteggiamento, mantengono la medesima forza anche oggi, perché regolano il comportamento esterno dell’apostolo, indice delle sue virtù interiori.

 

 

b. G. Allamano. Per l’Allamano le cose non cambiano. Anche lui, partendo dal Cafasso, si è collegato con lo stesso testo del Concilio di Trento, applicandolo ai suoi.367 Forse la conferenza più esplicita a questo riguardo è quella fatta alle suore il 14 dicembre 1919. È curioso che anche nel manoscritto annoti: «Anche alle missionarie convengono le parole del C. di Trento: Sic decet…».368 Poi nella spiegazione glielo dice chiaramente: «Il Concilio di Trento dice che i chierici non devono far niente che non sia grave e pieno di venerazione. Così pure dev’essere la missionaria: Voi siete sacerdotesse; non date l’assoluzione, non dite Messa, ma il resto più o meno potete farlo tutto; mettiamo diaconesse insomma. Com’è brutto quando si gira per Torino e si vedon delle suore che si fermano a guardare le vetrine. Bisogna camminare con naturalezza. Poi l’abito: bisogna schivare sia l’essere troppo attillate, sia la sordidezza. Puliti, ma non ricercati. […]. Riguardo al gesto, dice S. Ignazio: “Le mani, fuori delle occasioni, tenerle quiete, con decenza”. Non è necessario tenerle sempre giunte, ma decentemente raccolte. […]. Parlare: Non aver la smania di parlare, specie in ricreazione. Se salta fuori un’altra, lasciamo parlar quella. […]. I nostri discorsi devono essere: prudenti, caritatevoli, veri e spirituali».369 Anche il discorso del Fondatore deve essere inquadrato nel suo tempo, ma merita di essere conservato nella sua forza di nobiltà di comportamento.

 

Stessa idea il Fondatore ripeterà nella conferenza dell’11 dicembre 1921: «[Il Concilio] parla a sacerdoti, ma va anche bene per le suore, massime per le missionarie: Le loro opere devono essere venerande, perché le persone religiose devono essere venerande. […]. Conoscano pur tutti la nostra modestia. […]. Noi siamo rappresentanti di Dio; chi vede noi, vede Dio. […]. Il Venerabile diceva che la prima cosa per formare un buon sacerdote è la modestia. Ah, è una magnifica predica quella del Cafasso; fa tanto bene. Pregatelo che vi dia questa modestia. Però non basta pregare, bisogna lavorare per acquistarla».370

 

C’è un particolare importante nel pensiero del Fondatore ed è questo: in una comunità, la modestia, l’educazione e la delicatezza sono la base necessaria perché ci sia la carità. Lui insiste e va al pratico, parlando anche di urbanità e di galateo. Una comunità grossolana, trasandata difficilmente riesce a creare un clima di amore fraterno.

 

A questo riguardo il Fondatore valorizzava un “Decreto” della S. Sede circa la formazione dei religiosi, che cita più volte: «L’urbanità è mezzo a conservare la carità nelle Case religiose. […]. Dove cominciare? Spesso, dice il Decreto, dalla stessa educazione civile, come noi in Africa, vix ab ipsa civili educazione. L’inurbanità nei modi e risposte, nel camminare, nel mangiare, poco alla volta bisogna assolutamente toglierla. La Chiesa, vedete, va al particolare. […]. D. Cafasso, come insegnava ai Convittori a fare il segno della croce, così insegnava a stare a tavola ecc…[…]. Questa delicatezza di sentire ci prepara la strada […] a non fare offese agli altri, ad essere grati, ed a preferire gli altri a noi. Quelle comunità dove sono così civili, è dove sanno amarsi di più. Dove si incomincia con una parola grossolana, e poi si finisce col mancare di carità. […]. E tutto abbia per fondamento la carità».371

 

E ancora, parlando della “buona educazione”, affermava: «Il Galateo è il preliminare, ed io dico per tre motivi: 1) Per non dare scandalo e dare buon esempio al mondo e alla comunità […]. 2) – per osservare la carità tra noi. […]. La carità verso i confratelli esige che ci sia il Galateo. 3) – l’educazione esterna aiuta le virtù interne. Il Ven. Cafasso nella predica sulla Modestia non tocca l’interno, parla solo degli atti esterni. Eppure è una vera virtù». E la conclusione è: «Quando c’è la delicatezza regna la carità, quando manca la delicatezza, manca anche la carità».372

 

 

6. MEZZI PER ACQUISTARE E PROGREDIRE NELLA MODESTIA

 

a. G. Cafasso. Il Cafasso li riduce sostanzialmente a due. Il primo è «Una riflessione, ed è che siamo continuamente sotto gli occhi di Dio». Per spiegarsi, invita a pensare che se rimaniamo impressionati e attenti alla presenza di un personaggio importante, «qual forza non dovrebbe avere per un credente questo pensiero: - Dio mi sente, Dio mi vede, Dio mi guarda: in questo momento sta ammirando la mia maniera di camminare, di ridere, di scherzare».373

 

Il secondo mezzo è quello già ricordato prima: «Ma per un ecclesiastico v’è di più: - quel Dio che mi vede, mi guarda è quegli stesso che m’incarica di rappresentarlo; se io parlo è come parlasse Iddio; se io guardo è come se guardasse Iddio; se siedo, se cammino, se rido, se mi diverto, è se come lo facesse Iddio stesso: io faccio le sue veci, sono uno strumento suo, ogni mio atto è più suo che mio, perché lo faccio per Lui e per conto suo».374

 

 

b. G. Allamano. Sulla stessa linea si muove il Fondatore. Anche per lui, che cita il Cafasso,375 i «Mezzi per acquistarla [la modestia] sono la presenza di Dio, e la riflessione costante su noi medesimi». Questo appunto del suo manoscritto così viene sviluppato nella conferenza alle suore del 14 dicembre 1919: «Questa virtù bisogna amarla tanto. Per riuscire ad essere modesti, vi sono due mezzi: 1° vivere alla presenza di Dio; 2° metterci attorno alla nostra pianta e tagliarla, tagliarla…Se gli occhi guardano, le orecchie vogliono sentire…via, via…teniamoli a posto. Le gambe vogliono correre? No, no, a tempo e luogo; tutto a posto, anche le mani. La modestia prende dalla punta dei piedi, fino alla punta delle scarpe. Dice il Venerabile: Per questo bisogna avere molta familiare la presenza di Dio. […]. Se fossi alla presenza del Re […], come mi comporterei? Così alla presenza di Dio[…]. La seconda cosa è di lavorarci attorno. Se uno ha l’abitudine di gridare, di ridere sguaiatamente…via, via queste cose; il riso va bene, ma non troppo».376 Ed è qui che il Fondatore si dilunga ad insegnare i modi di essere modesti in tutte le azioni. 377

 

C’è però, una particolarità del Fondatore che mi piace notare. Quando parla del primo mezzo si ricollega anche a S. Paolo in Fil 4,5: «Il primo ce lo dà S. Paolo nelle parole: Dominus enim prope est».378

 

 

7. MODESTIA FINO ALLA “DELICATEZZA”

 

G. Allamano. Come vertice della modestia si può indicare la “delicatezza”. Sappiamo che l’Allamano, su questo aspetto, è molto preciso, si direbbe quasi esigente. La sua insistenza non ha una derivazione esplicita dal Cafasso, per cui ci fermiamo solo sul Fondatore, il quale parla di delicatezza proprio nel discorso sulla modestia. Quindi, per lui la modestia, quando occorre, deve giungere alla delicatezza.

 

Sentiamo alcune sue espressioni. Nella conferenza del 14 dicembre 1919, sulla modestia, ad un certo punto dice: «Vi raccomando che mettiate tutto l’impegno perché questa comunità deve essere una comunità educata, niente grossolana. Certi dicono: Uh, per andare in mezzo ai barbari!...I neri son più educati di noi. La carità esiste sempre dove c’è educazione. […]. Vorrei che aveste questa carità, così la nostra comunità sarebbe una comunità di delicatezza».379 Questa stesse parole, riprese da Sr. Carmela Forneris, sono state così riportate da Sr. Emilia Tempo: «In una comunità se ci fosse questa modestia ci sarebbe proprio una delicatezza…[…]. Vi raccomando che mettiate proprio tutto l’impegno a togliere certe cosette, perché questa comunità dev’essere educata. Non si dica: Per andare solo coi neri…La carità ci sarà sempre di più dove c’è educazione, delicatezza».380 E nella conferenza dell’11 dicembre 1921 sulla “Modestia”: «Non dite: Laggiù son solo neri. No, hanno un cuore. E poi, se vi scappa la pazienza, lo dicono subito; così se si parla da grossolane».381

 

L’Allamano aveva incarnato questo spirito di delicatezza. La sua pietà mariana l’ha aiutato in questa maturazione. Così scrive al P. A. Dal Canton in Kenya: «Tu ben sai quale spirito io desideri dai nostri missionarii. Che siano ben fondati nello spirito di Fede, sicché operino per Dio e nella loro condotta rappresentino Dio stesso in faccia ai neri. Se puoi averla leggi la predica sulla modestia del nostro Venerabile».382

 

 

Conclusione.

Sia il Cafasso che l’Allamano vivono sempre anche in dimensione “escatologica”. Per essi il Paradiso è una meta “presente”. Questo vale anche per l’impegno connesso con la modestia. Il Cafasso conclude la propria istruzione vedendo l’aspetto di mortificazione connesso con la pratica della modestia. Invita ad impegnarsi sempre, tante volte al giorno e, forte della sua esperienza, commenta: «E tutto ciò senza gran fatica, senza strepito, ad insaputa del mondo e quasi di noi medesimi. Sì, noi medesimi, saremo stupiti quando, circondati da queste opere, sentiremo un dì come un coro di tante voci a dirci: opera tua sumus [siamo opere tue]».383

 

Il Fondatore fa eco al Cafasso, tenendo presente, però, che parlava a dei principianti e riconoscendo la fatica del loro sforzo: «Il secondo [mezzo] è, come dice il nostro Venerabile nella sua predica: lavorare, darsi attorno. Certo che bisogna star sempre attenti, oh sì! Ma è necessario. E poi come diceva pure il Ven. Cafasso, sulla porta del Paradiso ci verranno incontro una folla di queste buone opere fatte ogni giorno dal mattino alla sera (sì che empirebbe presto il coroncino), dicendoci: Opera tua sumus!».384

1 Cf. TUBALDO I., Giuseppe Allamano, Il suo tempo – La sua vita – Le sue opere, ed. Missioni Consolata, Torino 1982, I, 542.

2 cf. “Tesoriere”, 3, 1980, pp. 12-13, TUBALDO I, o.c., IV, 34 – 35; cf. Archivio Postulazione, cart. Testimonianze.

3 Cf. Arch. Postulazione; TUBALDO I., o.c., I, 90, n. 228.

4 Cf. TUBALDO I., o.c., II, 377-411.

5 Cf. TUBALDO I., o. c., I, p. 544.

6 Lett., I, 561.

7 Lett., I, 448 – 449.

8 Lett., I, 449.

9 AB: LUIGI NICOLIS DI ROBILANT, San Giuseppe Cafasso, ed. Santuario della Consolata, Torino 1960, 790.

10 Conf. IMC, III, 256.

11 Conf. MC, II, 412.

12 Il contenuto di questo schema si trova in: LUCIO CASTO (a cura), GIUSEPPE CAFASSO, Esercizi spirituali al clero, Meditazioni, Effeta editrice, Cantalupa (TO), 637 – 682. Riportiamo la descrizione delle tre specie dell’amor di Dio che si trova a pag. 288: «un amore penitente pei tanti disgusti che gli [a Dio] abbiamo cagionato. Un amore sofferente per darle un compenso dei tanti torti e disgusti che gli abbiamo dato. E finalmente un amor unitivo che ci leghi a lui, e ci leghi talmente di cuore e di mente a questo buon Dio da fare una cosa sola, e separarci mai più».

13 Conf. IMC, I, 461.

14 L. CASTO (a cura), o.c., 637 – 638.

15 ID. o.c., 661. Cf. anche: S: GIUSEPPE CAFASSO, Esercizi Spirituali al Clero, ed. Paoline, alba 1955, 285.

16 ID., o.c., 638.

17 ID., o.c., 639 – 640.

18 Conf. IMC, I, 460.

19 Cf. Conf. IMC, I, 460 – 461. Questa conferenza può diventare oggetto di una riflessione utile e ricca, anche se non segue lo schema del Cafasso.

20 Cf. Conf. MC, II, 139. Anche questa conferenza, che segue uno schema differente dal suo precedente e da quello del Cafasso, può essere oggetto per una ricca meditazione sull’amor di Dio, secondo lo spirito dell’Allamano.

21 Conf. MC, II, 140; cf. anche 138; IMC, I, 459, 461.

22 Conf. IMC, I, 461; cf. anche: Conf. MC, II, 141, 453; Il Fondatore applica questo testo di S. Paolo, parafrasandolo, anche alla carità fraterna, come nella conferenza alle suore del 5 marzo 1916 sulla “Carità fraterna”: «Chi non ha la carità, dice S. Paolo, è solo un bronzo, un cembalo suonante. Se sapessi tutte le lungue et in charitate autem non ambulaverim, nihil sum [ma non camminassi nella carità, sono un niente]. Fossi una milionaria e dessi tutto ai poveri, non gioverebbe niente se non avessi la carità; di più, se mi mettessi nel fuoco e non avessi la carità, non varrebbe niente»: Conf. MC, I, 316; cf. anche: Conf. MC, III, 29.

23 L. CASTO (a cura), o.c., 648.

24 ID., o.c., 667 – 668.

25 Conf. IMC, III, 128.

26 L. CASTO (a cura), o.c., 654.

27 ID., o.c., 669.

28 ID., o.c., 669 – 670; cf. anche: 654 – 655.

29 ID., o.c., 663.

30 Conf. MC, II, 144.

31 Conf. IMC, I, 461; cf. anche: Conf. MC, II, 139, 142, 144.

32 Conf. IMC, II, 168.

33 Conf. IMC, II, 169. Riguardo alla virtù della fortezza, necessaria per il missionario, l’Allamano ha insistito in modo particolare: cf. Conf. IMC, I, 161, 163, 177

34 Conf. MC, II, 545; cf. anche: 550.

35 L.CASTO (a cura), o.c., 670.

36 ID. o.c., 656 – 657. Cf. anche: ID. o.c., 670, dove il Cafasso riporta l’assioma: «amor aut pares inventi, vel facit».

37 Conf. IMC, 10.

38 Conf. MC, II, 407.

39 Conf. MC, II, 410; cf. anche: 408.

40 Conf. IMC, III, 254. Cf. anche: Conf. MC, II, 406.È in questo contesto che il Fondatore spiega i tre gradi di perfezione dell’adesione alla volontà di Dio, cioè: conformità, uniformità, deiformità: «1° La conformità della nostra volontà con quella di Dio; 2° La unità alla volontà di Dio, 3° La Deformità alla volontà di Dio, cioè che sia Dio che comanda in noi»: IMC, III, 255; cf. anche: Conf. MC, II, 407.

41 Cf. Conf. IMC, II, 804,

42 Conf. IMC, II, 810.

43 Conf. IMC, II, 810; cf. anche III, 254 – 255; Conf. MC, I, 448; II, 390, 407; III, 114.

44 Conf. IMC, I, 238.

45 Cf. Conf. IMC, II, 805 – 808; III, 98; Conf. MC, III, 121.

46 Conf. MC, I, 486; cf. II, 79. È pure interessante una specie di “test” per conoscere se compiamo la volontà di Dio o la nostra. Sulla base di suoi appunti fatti da giovane sacerdote, durante gli esercizi spirituali predicati dal P. G. Bruno, Filippino, il Fondatore propone sei “segni” o “mezzi” «per conoscere se nelle nostre azioni, parole e pensieri cerchiamo la sola volontà di Dio o la nostra»: 1) Santa indifferenza agli impegni ed opere; 2) Tranquillità nell’esercitarli; 3) Operare le cose piccole come le grandi; 4) Non badare all’esito delle opere; 5) Non badare al giudizio degli uomini; 6) Godere del bene, che sia fatto per mezzo di noi o di altri: cf. Conf. IMC, III, 250 – 253; cf. anche Conf. MC, II, 395 – 404.

47 L: CASTO (a cura), o.c., 657 – 658.

48 ID., o.c., 658.

49 Conf. MC, II, 410 – 411; cf. anche: 408, 412.

50 Conf. IMC, II, 544.

51 L. CASTO (a cura), o.c., 643.

52 Conf. IMC, I, 450.

53 Conf. IMC, III, 568; cf. anche: II, 169.

54 L. CASTO (a cura), o.c., 644 – 645.

55 Conf. MC, II, 408.

56 L. CASTO (a cura), o.c., 681.

57 ID. o.c., 643 – 644.

58 Conf. IMC., 190 – 191.

59 Conf. IMC, II, 200; cf. anche Conf. IMC, I, 146; III, 154; 532 – 533.

60 Conf. IMC, III, 156.

61 Conf. MC, II, 520.

62 L. CASTO (a cura), o.c., 645;

63 Conf. IMC,II, 465.

64 Conf. MC, I, 209.

65 L. CASTO (a cura), o.c., 641 – 642.

66 Conf. MC, II, 520.cf. anche: 678.

67 Conf. IMC, I, 460.

68 Conf. IMC, III, 371.

69 Conf. IMC, III, 394.

70 Conf. IMC, III, 660; cf. anche: I, 474, 476, 576.

71 L. CASTO (a cura), o.c., 661.

72 Conf. MC, II, 142.

73 L. CASTO (a cura), o.c., 660. Questo testo è barrato, il che fa presupporre che il Cafasso non abbia ritenuto necessario dirlo, ma sintetizza bene tutta la meditazione ed è di suo pugno.

74 LUIGI NICOLIS DI ROBILANT, San Giuseppe Cafasso, ed. Santuario della Consolata, Torino 1960, p. 791.

75 ID., o.c., 793, 795, 797.

76 Cf. Testimonianze rispettive in Processus Informativus, arch. Postulazione.

77 PIER ANGELO GRAMAGLIA (a cura), GIUSEPPE CAFASSO, Meditazioni al popolo, Effeta Editrice, Cantalupa (TO) 2002, 298.

78 ID., o.c., 299.

79 Conf. IMC, II, 413.

80 Conf. IMC, II, 414.

81 Conf. IMC, II, 406 – 407., Cf. anche Conf. MC, I, 220, dove il Fondatore spiega in modo schematico i quattro fini.

82Cf. SALES L., Il Servo di Dio Giuseppe Allamano…, Torino 1944, p. 29.

83 Conf. MC, I, 14; cf. anche Conf. IMC, I, 473.

84 Conf. MC, I, 220.

85 P.A. GRAMAGLIA (a cura), o.c., 298.

86 ID., o.c., 299.

87 ID. o.c., 299.

88 Conf. MC, I, 14.

89 Conf. MC, III, 283.

90 Conf. IMC, I, 297. Nella conferenza del 13 giugno 1915 agli allievi: «Questi tre atti servono ad eccitarci […]. L'atto di fede: pensare che proprio là c'è Gesù. Proprio Gesù in corpo, sangue, anima e divinità, proprio vivo com'è in cielo. Avere questo pensiero di fede. Poi umiltà: Domine non sum dignus, le parole del centurione, esamino le mie miserie; grazie a Dio peccati... sono tranquillo, ma ho delle miseriette. Sono maligno, sono disubbidiente, sono negligente... umiliarci insomma. E poi desiderio, amore, Veni, Domine, et noli tardare, desiderarlo di cuore, il Signore vuole amore. Questi tre atti si potrebbero cominciare dalla sera, facendo la preparazione remota alla Comunione. Le parole di Ester: Cras cum rege pransurus sum! Quel ministro era felice di pranzare col re, ed anch'io, il Signore ci fa realmente partecipi di se stesso, lui sarà nostro cibo, bello questo pensiero! E noi serviamocene: Cras cum rege pransurus sum. Fin dalla sera pensare ai sospiri dei Patriarchi: Utinam dirumperes coelos et descenderes! Veni, Domine, et noli tardare! Tutte queste espressioni servono, tutte per desiderare nostro Signore...-sentire nostro Signore nel Tabernacolo. N. Signore è discreto, ci lascia dormire, ma almeno appena svegliati pensare a lui, Festinans descende, ci dice. Coraggio! fa presto, festina! Su, su! discendi presto! discendi subito! oportet, conviene, voglio andare nella tua casa. N. Signore si fa sentire: Festinans descende. Su! Ecco, perché oportet! Oportet che stiamo a lui uniti: ecco il desiderio che ha N. Signore, ma noi dobbiamo sospirarlo, desiderarlo. Facendo questi tre atti, è più facile essere raccolti, così questi tre atti ci aiutano a fare la comunione con più devozione»: Conf. IMC, II, 315.

91 Conf. MC, II, 659.

92 Conf. MC, I, 224 – 225. Un pensiero simile ripete ai missionari il 22 giugno 1916, festa del Corpus Domini: «Certi santi, come S. Luigi, andavano [alla Comunione] una volta alla settimana, e ne impiegavano mezza per la preparazione e mezza per il ringraziamento: non so se poi la facesse di più, ma da principio la faceva una volta alla settimana. Per me vorrei che la faceste anche di più: se il Papa mi manda una facoltà speciale, di lasciarvi fare la Comunione due volte al giorno!»: Conf. IMC, II, 608. In altra occasione parla azaddirittura di tre Comunioni al giorno: Conf. MC, III, 400.

93 LUCIO CASTO (a cura), GIUSEPPE CAFASSO, Esercizi Spirituali al Clero, Meditazioni, Effeta Editrice, Cantalupa (TO) 2003, 658 – 659.

94 ID. o.c., 659 – 660, cf. anche: 674.

95 ID, o.c., 660; cf. anche: 675 – 676.

96 Lett., III, 105.

97 Conf. IMC, II, 311.

98 Conf. IMC, III, 595.

99 Conf. MC, III, 283.

100 Conf. IMC, I, 191.

101 Conf. IMC, I, 294.

102 Conf. IMC, II, 34.

103 Conf. IMC, I, 284; un pensiero simile sull’adorazione perpetua è stato nuovamente espresso nella conferenza del 22 maggio 1913: « Dobbiamo desiderare di andare in Chiesa; bisognerebbe che ci facessimo cacciar via di Chiesa. Se fosse solo a Roma, chi non desidererebbe di andare?!... O solo in Terra Santa...; Ma no, Egli è in tutti i luoghi. Solo qui è già in due posti; in Africa in una ventina, perché ci vuol bene. Direte: Lo crediamo, ma non ci pensiamo; questo non è fede: ci vuole fede operosa. Fides sine operibus mortua est.- Noi ci sarebbe necessario avessimo una adorazione quotidiana giorno e notte come i Sacramentini: 3 ore al giorno davanti al SS.mo Sacramento.- Ci facesse questa grazia dovremmo essere contenti, e ... più si sta, più si starebbe: non vi è noia nella sua conversazione»: Conf. IMC, I, 563 – 564.

104 Conf. MC, II, 239.

105 Conf. MC, I, 13; cf. Conf. IMC, I, 472.

106 Conf. IMC, II, 71; cf. anche II, 73.

107 Conf. IMC, II, 543

108 Conf. IC, I, 379.

109 Conf. IMC, I, 93.

110 Conf. IMC, I, 133.

111 P. A. GRAMAGLIA (a cura), o.c., 298 – 299.

112 Conf. IMC, II, 609.

113 Conf. MC, III, 12.

114 Conf. IMC, II, 299 – 300.

115 PIER ANGELO GRAMAGLIA (a cura), GIUSEPPE CAFASSO, Missioni al popolo, Meditazioni, Effeta editrice, è più grande ancoCantalupa (TO) 2002, 271.

116 S:GIUSEPPE CAFASSO, Esercizi Spirituali al Clero, ed. Paoline, Alba 1955, 573.

117 Conf. IMC, I, 397. Il Fondatore si riferisce non solo alla biografia, ma anche alla dottrina del Cafasso, il quale diceva: «Chi adunque tra noi potrà arrivare a comprendere, a misurare quell’amor che Maria ci porta: guardate pure su questa terra se vi è un amor grande, ma non ha paragone con quello di Maria; ami pure un padre, una madre la sua figliolanza, sia pure forte, tenero, sincero il suo amore, ma sarà ancor un niente. […] è più grande ancora l’amor di Maria»: P. A. GRAMAGLIA (a cura), o.c., 274. In nota il Cafasso cita Le Glorie di Maria, p. 46, di S. Alfonso: «E se si unisce l’amore, che tutte le madri portano a’ figli, tutti gli sposi alle loro spose, e tutti i santi ed angeli a’ loro divoti, non giunge all’amore, che Maria porta ad un’anima sola».

118 S. GIUSEPPE CAFASSO, o.c., 574. Più avanti il Cafasso riporta la preghiera dell’arcivescovo S. Ildefonso: «te oro, te quaeso, ut de te vera et digna sapiam: ecco il primo passo, come già vi diceva, del sacerdote verso Maria: sentir altamente, sentire degnamente di Lei»: 575.

119 ID. o.c., 576.

120 ID. o.c., 576. Cita anche S. Tommaso d’Aquino: «B.Virgo ex hoc quod est Mater Dei, habet quamdam dignitatem infinitam ex bono infinito quod est Deus; et ex hac parte non potest aliquid fieri melius [La B. Vergine, per il fatto che è Madre di Dio, ha una certa dignità infinita in forza del bene infinito che è Dio; in ciò non può esserci nulla di meglio]»: 576.

121 ID. o.c., 577.

122 Cf. Conf. IMC, I, 397. Parlando della pietà mariana di S. Filippo e del Cafasso, il Fondatore commenta: «Invece taluni parlano della Madonna come di un santo qualunque canonizzato».

123 Conf. MC, III, 113.

124 S. GIUSEPPE CAFASSO, o.c., 577.

125 ID. o.c., 578.

126 P.A.GRAMAGLIA (a cura), o.c., 275 – 276.

127 Conf. MC, II, 556 – 557.

128 SALES L., Il Servo di Dio Can. Giuseppe Allamano…,Torino 1944, p. 457.

129 Conf. IMC, II, 594.

130 Conf. MC, I, 348.

131 Conf. IMC, II, 272.

132 Conf. IMC, II, 602.

133 S: GIUSEPPE CAFASSO, o.c., 579.

134 ID, o.c., 579.

135 ID. o.c., 573.

136 Conf. IMC, I, 178.

137 Conf. MC, III, 17.

138 Conf. IMC, II, 307.

139 Conf. IMC, II, 594.

140 Conf. IMC, II, 271.

141 S: GIUSEPPE CAFASSO, o.c., 580.

142 ID. o.c., 581 – 582.

143 P:A:GRAMAGLIA (a cura), o.c., 279.

144 Conf. IMC, I, 402: cf. anche II, 546 – 547. L’Ab. L:N: Di Robilant, nella biografia, riporta queste testimonianze: «speciale devozione aveva poi per la Vergine SS. Addolorata, e nel giorno della sua festa discendeva sempre a celebrare la Messa al suo altare, che si trovava nella chiesa di S. Francesco». «Egli teneva per certo che la Vergine Addolorata sarebbe venuta ad assisterlo in punto di morte»: o.c., 803.

145 N.L. DI ROBILANT, o.c., 803 – 804.

146 Conf. IMC, I, 327; cf. anche: II, 547; III, 443, dove cita il Cafasso.

147 Conf. IMC, I, 397 – 398.

148 S: GIUSEPPE CAFASSO, o.c., 582 – 584.

149 ID. o.c., 573.

150 Conf. IMC, I, 178, 180.

151 Conf. IMC, II, 416.

152 Conf. IMC, II, 625 – 626.

153 S:GIUSEPPE CAFASSO, o.c., 586 - 587.

154 Conf. IMC, II, 594.

155 Conf. MC, II, 304.; cf. anche: II, 306.

156 Conf. MC, II, 597.

157 Lett., I, 150.

158 Lett., I, 151, n. 4.

159 Conf. IMC, III, 169.

160 L. CASTO, o.c., 371.

161 Conf. MC, III, 405.

162 Processus Informativus, II, 554 – 555.

163 Processus Informativus, II, 941, 929.

164 P:A:GRAMAGLIA (a cura), o.c., 272.

165 Conf. IMC, I, 136.

166 In LUIGI NICOLI DI ROBILANT, San Giuseppe Cafasso, ed. Santuario della Consolata, Torino 1960, 780.

167 Processus Informativus, I, 138.

168 L. N. DI ROBILANT, o.c., 780.

169 ID., o.c., 780.

170 Processus Informativus, II, 695-696. Riporto altre testimonianze dello Scovero sul posto che la preghiera aveva nella vita dell’Allamano: «Notai sempre nel Servo di Dio un grande spirito di preghiera. Non stava mai in ozio, e tutto il tempo che aveva libero dalle sue occupazioni, lo impiegava nella preghiera, nella quale provava e trovava un vero diletto. Pregava a lungo nei coretti del Santuario anche nelle ore serali; pregava in camera sua, nel Santuario, e anche quando andava in viaggio. Insomma tutta la sua vita si può dire che era una vita di preghiera»: Processus Informativus, II, 686; «Faceva frequenti e lunghe visite a Gersù Sacramentato dai coretti del Santuario, e durante le medesime, si intratteneva in fervida preghiera. Anche alla sera, prima del riposo, di quando in quando si recava dai coretti a fare la visita. Così che quando io lo cercavo e non lo trovavo in camera sua, o nel suo confessionale, ero certo di trovarlo in preghiera in detti coretti del Santuario, che gli offrivano, data la loro ubicazione, situati a pochi passi dalla sua camera, l’occasione propizia di espandere il suo cuore dinnanzi a Gesù Sacramentato, e trattenersi con Lui in fervido colloquio»: Processus Informativus, II, 680-681.

171 Conf. MC, III, 311.

172 Conf. MC, 380.

173 LUIGI CASTO (a cura), GIUSEPPE CAFASSO, Esercizi Spirituali al Clero, Meditazioni, Effeta editrice, Cantalupa (TO) 2003, 566.

174 ID., o.c., 567.

175 S. GIUSEPPE CAFASSO, Esercizi spirituali al Clero, ed. Paoline, Alba 1955, 406.

176 Conf. IMC, I, 265.

177 Per il Cafasso, cf.: L. CASTO (a cura), o.c., 566. Per l’Allamano, cf.: Conf. IMC, II, 495 – 501; 506 – 513; III, 617. Conf. MC, III, 300 – 305.

178 L. CASTO (a cura), o.c., 567.

179 S:GIUSEPPE CAFASSO, o.c., 407.

180 Conf. IMC, I, 551 – 552.

181 Conf. IMC, I, 554.

182 Conf. MC, I, 231.

183 Il Fondatore si riferisce al testo di 1Tm 2,8.

184 Qui il Fondatore si riferisce a 1Ts 5,17.

185 Conf. MC, 170.

186 Conf. IMC, III, 96.; cf. anche: Conf. MC, III, 297, dove il Fondatore usa quasi le stesse parole. Conf. IMC, III, 493 – 494.

187 S. GIUSEPPE CAFASSO, o. c., 405.

188 ID. o.c., 406.

189 C’è una conferenza sulle “Orazioni vocali” del 13 febbraio 1916, che si può definire una catechesi sul come pregare: Conf. IMC, II, 495 – 501. Rimando ad essa (sia al manoscritto che alla conferenza ripresa dall’allievo Pietro Alberatone), pur valorizzandone dei brani assieme a quelli di altre conferenze.

190 Conf. MC, III, 298.

191 Conf. MC, III, 298.

192 Conf. IMC, II, 538 – 545.

193 Questi tre riferimenti il Fondatore li ha presi dallo Scaramelli: cf. Conf. IMC, II, 495: «È necessaria l’attenzione. Questa è di tre sorta (Scaram. L. c. n. 260)».

194 Conf. MC, III, 298.

195 Conf. MC, III, 380.

196 Conf. IMC, II, 499.

197 Cf. Conf. IMC, II, 539.

198 Conf. IMC, II, 496.

199 Conf. IMC, II, 496.

200 Conf. IMC, II, 496.

201 Conf. IMC, II, 501.

202 Conf. MC, III, 299.

203 Conf. IMC, II, 500.

204 Conf. MC, I, 72.

205 Conf. MC, III, 47.

206 Conf. MC, I, 85.

207 Conf. MC, II, 149.

208 Conf. MC, II, 360.

209 Conf. IMC, II, 499.

210 Conf. MC, II, 361.

211 Conf. MC, II, 361.

212 Conf.IMC, II, 371.

213 Conf. MC, II, 357.

214 Conf. IMC, II, 493.

215 L. CASTO (a cura), o.c., 551.

216 ID., o.c., 566.

217 S. GIUSEPPE CAFASSO, o.c., 406 – 407.

218 Conf. IMC, II, 415.

219 Conf. IMC, II, 417.

220 Conf. IMC, I, 265.

221 Conf. IMC, 418.

222 Conf. MC, I, 231.

223 Conf. IMC, I, 229.

224 Conf. IMC, II, 608.

225 GIUSEPPE CAFASSO, o.c., 400 – 4403.

226 ID., o.c., 404 – 405.

227 Conf. IMC, II, 417 – 418.

228 Conf. IMC, III, 497: fervorino del 12 dic. 1920 per la partenza dei missionari P.C. Re e P. G:Borello.

229 Conf. IMC, III, 722: 19 aprile 1925.

230 LUCIO CASTO (a cura), GIUSEPPE CAFASSO, Esercizi spirituali al clero, Meditazioni, Effeta Editrice, Cantalupa (TO) 2003, 684.

231 ID., o.c., 684 – 685.

232 ID, o.c., 686.

233 Conf. IMC, I, 15.

234 Cf. Conf. IMC, II, 668 – 679; Conf. MC, I, 415 – 422.

235 Conf. IMC, I, 116. Nella lettera del 28 febbraio 1907 a P. G.B. Rolfo, il Fondatore scriverà: «So che il P. Cagliero se la buona con lei, e come fratelli procedete a santificarvi ed a fare il bene, bene»: Lett., IV, 565.

236 Conf. IMC, II, 669; Conf. MC, I, 416. Così il Fondatore conclude la lunga lettera del 3 novembre 1915 a Mons. G. Barlassina: «Uno solo è lo scopo comune, fare il bene , il maggior bene a sola gloria di Dio»: Lett., VII, 238.

237 Conf. MC, I, 419.

238 L. CASTO (a cura), o.c., 687.

239 ID. o.c., 693.

240 L’Allamano ha pure indicato S. Vincenzo de’ Paoli per la capacità di fare le cose bene e di essere sempre uguale a se stesso: S. Vincenzo: «straordinario nell’ordinario – fare bene le cose ordinarie per amor di Dio»: Conf. IMC., I, 199; «Il far miracoli non è indizio di santità; e ci sono tanti santi che non hanno mai fatto nessun miracolo: Vedete un po’: S. Vincenzo de’ Paoli non ha mai fatto nessun miracolo; ma ha sempre fatto tutto bene»: Conf. IMC, II, 673; «S. Vincenzo de’ Paoli è morto senza far profezie, senza far miracoli; l’unico miracolo che ha fatto è quello d’essere sempre stato uguale a se stesso quasi sol [come il sole]»: Conf. MC, I, 258; «Di S. Vincenzo si dice appunto: “Vincenzo, sempre Vincenzo”: sempre il medesimo, qualunque cosa capitasse. […]. Non cambiava mai il suo carattere»: Conf. IMC, II, 625.

241 Conf. IMC, II, 668.

242 Conf. IMC, II, 626.

243 L. CASTO (a cura), o.c., 688.

244 ID. o.c., 689.

245 ID., o.c., 690.

246 ID. o.c., 690 – 691.

247 ID. o.c., 691.

248 Cf. Conf. IMC, II, 669; Conf. MC, I, 416.

249 Conf. MC, I, 419.

250 Conf. MC, III, 223.

251 Conf. MC, III, 216.

252 LUIGI NICOLIS DI ROBILANT, S. Giuseppe Cafasso, ed. Santuario della Consolata, Torino 1960, p. 787. Il Di Robilant, allo stesso luogo, riporta anche altre forme suggerite dal Cafasso, il quale proponeva una virtù speciale per ogni giorno della settimana. Per la domenica: spirito di fede; lunedì: spirito di speranza; martedì: spirito di carità; mercoledì: spirito di dolore per i peccati; giovedì: spirito di zelo per la conversione di un peccatore; venerdì: contemplazione davanti al crocifisso; sabato: consacrato tutto a Maria.

253 Conf. MC, I, 419.

254 Conf. IMC, II, 674.

255 Conf. IMC, II, 674 – 675. Dal suo manoscritto: «al 1° pensiero: Gesù venne sulla terra per essere nostro modello. Inspice et fac saecundum exemplar. Ego sum via, veritas et vita. - Quos prescivit, et praedestinavit conformes fieri imqagini Filii sui (Neupveu, Sp. Del Crist.): S. Basilio: Omnis actio Salvatoris regula est. – Quindi S. Paolo: Vivo ego, jam non ego; vivit vero in me Christus. Prendiamolo a nostro modello nel fare bene le cose»: Conf. IMC, II, 669; Conf. MC, I, 417.

256 Conf. MC, I, 420.

257 Conf. IMC, II, 676. Dal manoscritto: «Al 2° pensiero. L’Imit.: Qui se Crucifixo conformaverunt in vita, accedent ad Chistum Judicem cum magna fiducia. Sovente esaminiamoci davanti a Gesù Sacramentato e facciamoci ora giudicare da Lui in tutti i nostri pensieri, affetti ed opere: Juste Judex ultionis, donum…»: Conf. IMC, II, 669 – 670; Conf. MC, I, 417.

258 Conf. MC, I, 420.

259 Conf. IMC, II, 677. Dal manoscritto: «Al 3° pensiero. S. Bernardo: Si modo mortuus esses, faceres istud?... Imit.: Sic te in omni factu et cogitatu deberes tenere, quasi hodie esse moriturus. Se sul serio pensassimo di dover morire subito dopo quella confessione, quella comunione, come le faremmo con impegno (Rodrig.). Es. di S. Luigi interrogato mentre faceva la ricreazione. Quitodie morior. Beatus ille servus…sic facientem»: Conf. IMC, II, 670; Conf. MC, I, 417.

260 Conf. MC, I, 421.

261 Conf. IMC, II, 677. Dal manoscritto: «Al 4° pensiero. Age quod agis. Mentre attendiamo ad una cosa, poniamo in essa tutto l’impegno, senza pensare al fatto prima o dopo. Così i confessori circondati da turba di penitenti. Specialmente in Chiesa, mandiamo via i pensieri estranei, anche in sé buoni, come di studio. Il demonio talora in mentre della preghiera ci fa ricordare ciò che prima cercavamo, anche lo scioglimento di difficoltà…; sono tentazioni del demonio, non lasciamoci ingannare con interrompere l’orazione e prender nota, fare un groppo al fazzoletto, o tenere metà dell’attenzione alla preghiera e metà a tener viva in mente la cosa. S. Bonaventura: scientia, quae pro virtute despicitur, per virtutem postmodum melius invenitur (Rodriguez). Cari miei, abbiamo bisogno di queste sante industrie per avanzare nella perfezione. Così facevano i Santi; così facciamo anche noi…»: Conf. IMC, II, 670; Conf. MC, I, 417.

262 Conf. MC, I, 421 – 422.

263 LUCIO CASTO (a cura), Giuseppe Cafasso, cit., pp. 686 - 697.

264 Processus Informativus, IV, 113 – 114.

265 Cf. Conf. IMC, I, 116.

266 Conf. IMC, I, 265.

267 Conf. MC, II, 282.

268 Conf. MC, III, 101.

269 Conf. MC, III, 501.

270 Conf. MC, I, 418 – 419.

271 Conf. IMC, II, 679.

272 LUIGI NICOLIS DI ROBILANT, San Giuseppe Cafasso, ed. Santuario della Consolata, Torino 1960, pp. 74 – 75.

273 Conf. IMC, II, 337; cf. anche: II, 156; III, 188.

274 Conf. IMC, III, 530.

275 Processus Informativus, III, 103.

276 Conf. IMC, I, 457.

277 Conf. IMC, I, 455; cf. anche: Conf. MC, II, 440, 441. Riguardo alle fonti: per il Cafasso, cf. specialmente le meditazioni sul Giansenismo, sul Peccato e sul Paradiso, sulla Misericordia negli esercizi spirituali al clero; come pure la meditazione sulla misericordia negli esercizi al popolo. Per l’Allamano, oltre ai molti luoghi nei quali ne parla di passaggio, cf.: Conf. IMC, I, 455 – 458; II, 156 – 157; 337 – 340; ; III, 187 – 188; 266 – 267; MC, I, 79 – 80; 146 – 148; II, 439 – 448.

278 L. N. DI ROBILANT, o.c., 74.

279 ID., o.c., 74 - 99

280 ID, o.c., 75.

281 Cf. Arch. Postulazione. Il titolo di questo capitolo e: “Giansenismo: - sua natura; - male che fece specialmente in Francia; ed in più stretta forma nell’antico Piemonte. – S. Vincenzo de’ Paoli lo combatte nascente, S. Alfonso è suscitato a spegnerlo”.

282 Conf. IMC, I, 455.

283 Conf. IMC, I, 557.

284 Conf. MC, II, 442.

285 Conf. IMC, II, 339.

286 Conf. MC, II, 539.

287 L. N. DI ROBILANT, o.c., 76.

288 Conf. IMC., II, 157.

289 Conf. MC, II, 11.

290 L. N. DI ROBILANT, o.c., 76.

291 ID., o.c., 79.

292 ID:, o.c., 86.

293 ID. o.c., 86.

294 Conf. IMC, II, 339.

295 Conf. IMC, II, 157.

296 Conf. MC, II, 448.

297 L. N. DI ROBILANT, o.c., 79.

298 Cf. PIER ANGELO GRAMAGLIA (a cura), GIUSEPPE CAFASSO, Missioni al popolo, Meditazioni, Effeta editrice, Cantalupa (TO) 2002, 241 – 269. Anche la meditazione sulla misericordia negli esercizi spirituali ai sacerdoti è altrettanto ricca su questo aspetto: cf. LUCIO CASTO (a cura), GIUSEPPE CAFASSO, Esercizi Spirituali al Clero, Meditazioni, Effeta editrice, Cantalupa (TO) 2003, 433 – 451.

299 P.A.GRAMAGLIA (a cura), o.c., 241.

300 ID, o.c., 252 – 253. Anche la descrizione dell’aspettativa del padre è fatta con altrettanta fantasia e commozione: cf. 252.

301 P. A. GRAMAGLIA (a cura), o.c., 247.

302 ID. o.c., 247 – 248. Il vescovo S. Austorio di Amasea fa una descrizione simile del Buon Pastore, con molta fantasia: cf. Breviario, II, 109 (giovedè della prima sett. Di Quaresima (Om. 13; PG 40, 355-358. 362).

303 L. CASTO (a cura), o.c., 437.

304 Conf. MC, II, 444.

305 Conf. IMC, II, 143.

306 Conf. IMC, II, 219.

307 In arch. della Postulazione.

308 A. GRAMAGLIA, o.c., 254 – 255.

309 Conf. MC, II, 441; cf. anche II, 439; IMC, I, 455; III, 266.

310 Conf. IMC, I, 455 – 456; Conf. MC, II, 440.

311 Conf. IMC, I, 457 – 458. Secondo la testimonianza del Traversa, il Cafasso diceva a proposito: «E che importa a me che l’una sia stretta e l’altra angusta? Purché ci passiamo, io ne ho abbastanza; non c’è mica bisogno di passare due alla volta»: L. N. DI ROBILANT, o.c., 89.

312 Conf. MC, II, II, 343 – 344.

313 L. N. DI ROBILANT, o.c. 90.

314 Conf. IMC, I, 456; cf. Conf. IMC, III, 267; cf. anche: Conf. MC, II, 440.

315 Conf. MC, II, 447 – 448.

316 L. N. DI ROBILANT, o.c., 75.

317 ID, o.c., 75.

318 Conf. MC, I, 80.

319 Conf. MC, I, 156.

320 Conf. MC, II, 443.

321 Conf. IMC, I, 457.

322 Conf. IMC, III, 188.

323 L. CASTO (a cura), o.c., 435. Questo tratto nel manoscritto è sbarrato.

324 Conf. IMC, I, 457.

325 Conf. IMC, II, 156.

326 L. N. DI ROBILANT, o.c., 89 – 90.

327 Conf. IMC, I, 456.

328 Conf. MC, II, 446 – 447; cf. anche la redazione di Sr. Carmela forneris altrettanto efficace: II, 444 – 445; cf. anche: Conf. IMC, III, 226.

329 Conf. IMC, III, 262 – 263. Il Fondatore qui riferisce il testo di Rm 12,3.

330 L. CASTO (a cura), o.c., 433.

331 Conf. MC, II, 443.

332 Conf.IMC, II, 375; MC, I, 192. l’Allamano riporta la testimonianza del C. Nasi e del Giordano.

333 Conf. MC, II, 434. L’Allamano si introduce con la parola: “Dicono che al solo vedere il nostro Venerabile”.

334 Conf. IMC, II, 378. L’Allamano riporta la testimonianza del Can. Nasi.

335 SALES L., Il Servo di Dio canonico Giuseppe Allamano…, Torino 1944, 462, 467.

336 Cf. S. GIUSEPPE. CAFASSO, Esercizi spirituali al clero, ed. Paoline, Alba 1955, pp. 361 – 379.

337 Cf. Conf. IMC, I, 280 – 282; III, 623 – 624. Conf. MC, II, 694 – 698; III, 336 – 345.

338 Quando spiega questa virtù, il Fondatore, nel suo manoscritto,annota: «La modestia è quella virtù che…(V. D. Caf. Istr.)»: Conf. IMC, I, 280; cf. anche: Conf. MC, II, 695. In più, l’Allamano lodava la famosa istruzione al clero del Cafasso sulla modestia:«Leggete la predica del Ven. Cafasso, leggetela bene»: Conf. MC, III, 338.

339 S.TH., II. II, q. 1 e 2: «[…] corporales motus et actiones, ut scilicet decenter et honeste fiant, tam in his quae serio, quam in his quae ludo aguntur».

340 Cf. Conf. IMC, III, 623; Conf. MC, III, 337.

341 Conf. MC, III, 338.

342 S.G.CAFASSO, o.c., 364 – 365.

343 ID., o.c., 373; cf. anche: 364.

344 Conf. MC, III, 338.

345 Conf. IMC, III, 414.

346 Conf. MC, III, 339.

347 S.G.CAFASSO, o.c., 366.

348 Conf. IMC, III, 623; Conf. MC, III, 337.

349 Conf. MC, III, 339.

350 Conf. IMC, I, 273.

351 Conf. MC, III, 338 – 339.

352 Conf. IMC, III, 414, 415. Questa frase è sicuramente uscita tale quale dalle labbra del Fondatore. Sia P. V. Merlo Pich e sia P. G. Richetta, che hanno trascritto separatamente la conferenza dell’11 aprile 1920, la riportano tale quale, anche se il Richetta è solo schematico in tutto il resto. Si vede che ha fatto impressione negli ascoltatori.

353 Conf. MC, III, 338 – 339.

354S.G.CAFASSO, o.c., 361 – 362.

355 Conf. IMC, III, 623. Conf. MC, III, 337.

356 S. G. CAFASSO, o.c., 367.

357 ID. o.c., 369 – 370.

358 ID. o.c., 371 – 372.

359 Cf. Conf. IMC, III, 623 – 624; Conf. MC, III, 336- 337.

360 Conf. MC, III, 338.

361 Non ho trovato nell’istruzione del Cafasso questa idea. Qui il Fondatore cita: P. Giord., Istr., p. 311.

362 Conf. MC, II, 694. Cf. Conf. IMC, I, 280. Il Fondatore cita: Fil 4,5; Col 3,12.

363 Conf. IMC, I, 281 – 282.

364 Conf. MC, II, 698.

365 Queste sono le parole del Concilio citate dal Cafasso: «Sic dece omnino clericos in sortem Domini vocatos, vitam moresque suos omnes componere, ut habitu, gestu, incessu, sermone, aliisque omnibus rebus nihil nisi grave, moderatum ac religione plenum praeseferant» (traduzione: «Così è assolutamente conveniente che i chierici, chiamati a far parte della sorte del Signore, regolino la vita e tutti i loro costumi, di modo che nell’abito, nel gesto, nel camminare, nel discorso, in tutte le altre cose, non facciano nulla che non sia grave, moderato e pieno di spirito religioso».

366 S.G. CAFASSO, o.c., 373 – 374.

367 Cf. Conf. IMC,I, 280; III, 624

368 Conf. MC, II, 695.

369 Conf. MC, II, 696 – 697.

370 Conf. MC, III, 340 – 341.

371 Conf. IMC, II, 36, 38 - 39.

372 Conf. IMC, III, 413 - 414; cf. anche 415.

373 S:G:CAFASSO, o.c., 376.

374 ID., o.c., 376 – 377.

375 Conf. MC, II, 695.

376 Conf. MC, II, 696.

377 Cf. quanto si è detto sopra parlando del vissuto concreto della modestia.

378 Conf. IMC, I, 282.

379 Conf. MC, II, 697.

380 Conf. MC, II, 698.

381 Conf. MC, III, 339.

382 Lett., VI, 421.

383 S:G:CAFASSO, o.c., 379.

384 Conf. IMC, I, 282.

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