Riflessioni

SI RASSOMIGLIAVANO IN TUTTO

 

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Lo scrittore salesiano A. Pedrini, nel volume “Don bosco e i Fondatori suoi contemporanei”, dedica un capitolo all’Allamano, intitolandolo: “Un don Cafasso redivivo” (Processus Informativus, I, 71). Questo titolo, molto indovinato, rispecchia bene il pensiero di quanti hanno avuto la fortuna di conoscere sia lo zio che il nipote. Facciamo volentieri nostra l’idea della rassomiglianza tra i due, che è una realtà indiscussa.

 

Ora rifletteremo sulla persona del Cafasso, ma partendo dalla visuale dell’Allamano. Più che una presentazione diretta del Cafasso, dunque, sarà proposta una visione d’insieme dei due. Sarà dato molto spazio della riflessione a risentire l’Allamano, quando indica lo zio come modello di vita. Sarà un modo diverso di affrontare il tema, nella speranza che riesca interessante ed utile. Credo che a nessun figlio o figlia dell’Allamano dispiaccia riflettere sul Cafasso e sul Fondatore insieme, senza separarli. Se c’è uno che ha stimato il Cafasso è proprio l’Allamano e nessuno più di lui ci aiuta a conoscere il Cafasso.

 

Ho intitolato questa prima riflessione: “Si rassomigliavano in tutto”. È un’affermazione che va spiegata, per non apparire drastica. Tra i due, di fatto, si nota una certa rassomiglianza fisica, ma soprattutto risulta evidente una grande e riconosciuta rassomiglianza morale e spirituale, a livello di vita di fede.

 

In questa pagina, soffermiamoci sulla somiglianza fisica. Non è una cosa straordinaria che i consanguinei abbiano lineamenti simili. Al dire di quanti li hanno conosciuti entrambi, l’Allamano richiamava abbastanza bene le sembianze dello zio materno. Certamente lo pensavano i suoi collaboratori al Santuario e al Convitto della Consolata. Sembra che lo pensasse l’Allamano stesso. Altrimenti, perché avrebbe accettato la proposta di posare di fronte ad uno scultore per fare un busto del Cafasso?

 

Sentiamo come il nostro P. F. Casadei racconta divertito questo fatto: «Di lui (dell’Allamano) esiste un busto di bronzo, di pregevole fattura, in dotazione all’ufficio del Superiore Generale. È opera dello scultore Luigi Calderini che per il santuario della Consolata scolpì anche le due statue di S. Massimo e del Beato Sebastiano Valfré, che ornano la facciata. È certo che per quel busto l’Allamano posò diverse volte, ma aveva accettato di farlo perché vittima di un innocente e fortunato tranello. Glielo avevano ordito i suoi collaboratori alla “Consolata”, pregandolo di posare davanti allo scultore che aveva il compito di studiare e tradurre in forma la fisionomia del Cafasso, in vista della sua beatificazione: la rassomiglianza dell’Allamano con lo zio sarebbe stata di valido aiuto all’artista. Ma quando, a lavoro inoltrato, poté dare uno sguardo furtivo al busto sbottò subito: “Ma questo sono io non mio zio”. E da quel giorno la soglia dello studio dello scultore non la varcò più. Ma ormai la trappola era scattata e la sua immagine più vera è adesso fusa per sempre nel bronzo». (In “Da Casa Madre, N. 2, 1990, pp. 8 – 9).



A questo punto, mi viene da ringraziare il Cafasso che è stato la causa per farci avere un busto del Fondatore, fatto dal vivo! E gli chiedo che ci aiuti, durante quest’anno, ad imprimere sempre più nel nostro spirito la fisionomia spirituale del suo santo nipote.

 

C’è un altro episodio, ma non storico, che si riferisce ancora alla rassomiglianza fisica tra i due. È stata la fantasia, ma soprattutto il cuore, del nostro P. A. Mattea ad inventarlo. Scrivendo sui quattro anni (1862 – 1866) che il Fondatore ha trascorso da ragazzo all’Oratorio Salesiano di Valdocco, P. Mattea immagina come sarebbe potuto avvenire il primo incontro tra Don Bosco e l’Allamano, suo nuovo allievo. Questo racconto immaginato è piaciuto, perché verosimile. Il Pedrini, che ho citato sopra, lo ha riportato nel suo volume su Don Bosco.

 

Leggiamolo dalla penna di P. Mattea: «Un pomeriggio della fine di ottobre del 1862, durante la ricreazione, Don Bosco notò un ragazzo sugli undici anni che se ne stava in disparte sotto i portici. Lo fissò attentamente, incredulo, e disse fra sé: “È una visione o realtà, questa?...Don Cafasso mi si presenta in mezzo ai ragazzi, lui stesso ragazzo?”. Si avvicina al giovinetto e l’interroga: “Chi sei tu?”. “Sono Giuseppe Allamano; vengo da Castelnuovo d’Asti e sono fratello di Natale”. Già è vero; adesso ricordo […]. Sai che sei somigliantissimo a don Cafasso? Tu sei anche suo nipote, vero?”. “Sì, signor don Bosco, ma l’ho visto una volta sola”» (in Giuseppe Allamano, Il Tesoriere della Consolata, N. 3, 1979, p. 14 [310], n. 10). Chissà se veramente Don bosco, che nutriva una profonda venerazione per il Cafasso, aveva veramente notato nell’Allamano qualcosa che richiamava lo zio! Non dico proprio fisicamente, ma nell’identità spirituale.

 

Sta di fatto che Don Bosco ha parlato con una certa confidenza e più volte del Cafasso all’Allamano. Lo avrebbe fatto se non avesse notato nell’Allamano qualche speciale legame con lo zio? Lo racconta il Fondatore durante il processo canonico per la beatificazione di Don bosco: «Aggiungo che Don Bosco, come mi riferì, si gloriava di essere stato l’ultimo a confessarsi da Don Cafasso, mentre questi, gravemente infermo, era prossimo a morire» (risposta alla domanda 61). E parlando del Cafasso agli allievi: «D. Bosco me lo diceva […] tutti i momenti: “Se io ho fatto qualche cosetta, lo devo a D. Cafasso”» (Conf. IMC, III, 536).

 

Domandiamoci: che significato può avere questa insistenza sulla rassomiglianza tra il Cafasso e l’Allamano, specialmente nei lineamenti del viso? Due santi dal cui volto appare evidente la consanguinità! Da questa semplice constatazione potremo partire per approfondire la nostra riflessione. Non è errato pensare che è stato lo Spirito a chiamarli ad una rassomiglianza più profonda, quella della identità sacerdotale ed apostolica. È toccato al nipote individuare e ripercorrere i passi dello zio. Pur rimanendo totalmente se stesso, dobbiamo riconoscere che ci è riuscito molto bene. Davvero il Cafasso e l’Allamano si rassomigliavano! Fisicamente lo hanno notato in molti. Moralmente lo hanno attestato tutti. Sulla loro rassomiglianza morale, di spirito, che è quella più importante, rifletteremo la prossima volta. Ma, per intanto, poniamo i loro due volti vicini, una accanto all’altro come li ha immaginati il pittore all’entrata della nuova chiesa parrocchiale di Castelnuovo, e contempliamoli.

 

 

L’ALLAMANO È UN ALTRO DON CAFASSO

 

Per illustrare la somiglianza spirituale tra il Cafasso e l’Allamano, inizio dalla testimonianza di mons. G. Giorsino, che ha conosciuto il Fondatore: «Il Can. Allamano è un altro D. Cafasso» (In arch. Postulazione, Testimonianze, 1, B; per altre testimonianze cf. TUBALDO I., o. c., I, 542, n. 1).

 

Tra il Cafasso e l’Allamano c’è stato soltanto un incontro, che però ha lasciato un’impronta in entrambi. Per quanto riguarda i sentimenti del Cafasso verso il nipotino, abbiamo una sola testimonianza nella lettera della maestra Benedetta Savio, che aveva avuto il Cafasso come confessore e direttore spirituale. Così scriveva all’Allamano nel 1895: «Lei che ne è quel prezioso tralcio che me ne aveva parlato quella S. Anima del Suo Amato Zio D. Cafasso, ho bisogno d’una grazia, e la spero per mezzo anche di Lei, che ne porta un sì bel nome di S. Giuseppe come il suo S. Zio, che ne è anche un degnissimo Ministro» (Lett., II, 73; cgf. Anche la testimonianza di P. Sales, che così riporta le parole della Savio: «di lei mi parlava sovente quella santa anima del suo amato zio» (Processus Informativus, III, 301). Stando a queste parole entusiastiche della maestra, sembrerebbe che il Cafasso avesse presagito, in qualche modo, l’avvenire luminoso del nipote.

 

Non si sa altro del Cafasso, ma si conosce l’impressione riportata dall’Allamano nell’unico incontro avvenuto a Castelnuovo. Così lo descrive P. Sales nella biografia: «Nel 1925 il can. Allamano, recatosi a Castelnuovo, appunto per le solenni feste della beatificazione, volle ricordare e rivivere, fra i parenti superstiti, quella scena. Fattasi portare una sedia, la collocò nel luogo preciso dive, 68 anni prima, Don Cafasso s’era seduto a ricevere l’omaggio dei nipotini, e con voce commossa disse: “È qui che ebbi la sua benedizione”» (SALES L., o. c., 14).

 

Come elevatezza di vita sacerdotale, il Cafasso è un modello di prim’ordine. Oltre alle virtù eroiche, conosciamo il valore del ministero del Cafasso nell’insegnamento della teologia morale ai giovani sacerdoti, al Convitto; nelle frequenti predicazioni di esercizi spirituali al clero, a S. Ignazio; nell’esercizio del ministero al confessionale, al letto dei moribondi ed accanto ai condannati a morte (cf. Lett., I, 448).

 

L’Allamano ha compiuto molte, ma non tutte le attività pastorali che hanno reso famoso lo zio, ma ne ha condiviso in pieno lo spirito apostolico. Non è esagerazione affemare che lo spirito del Cafasso si è posato sull’Allamano. Lo ha riconosciuto lo stesso Sommo Pontefice Pio XI, che, nel commovente Breve indirizzato all’Allamano per il 50° di sacerdozio, ha scritto queste memorabili parole: «In te, infatti, […] pare abbia lasciato erede del suo spirito l’illustre zio Giuseppe Cafasso […]» (cf. SALES L., Il Servo di Dio Canonico Giuseppe Allamano…, p. 488).

 

I giovani sacerdoti, che hanno avuta la fortuna di avere l’Allamano come educatore al Convitto, si erano accorti che tra il Cafasso e il loro Rettore esisteva una buona intesa di vita. I principi morali e ascetici, i consigli pratici per la vita pastorale, gli atteggiamenti, ecc. del Cafasso, di cui sentivano continuamente celebrare le meraviglie e che veniva presentato come il modello per eccellenza dei sacerdoti, li vedevano in certo modo rispecchiati nelle parole e nello stile di vita del loro Rettore.

 

A proposito, mi piace ricordare un emblematico dialogo tra un giovane sacerdote convittore, certo don G.B. Ressia, e l’Allamano. In occasione della ricognizione della salma del Cafasso al Santuario della Consolata, questo convittore, osservando da vicino l’Allamano, ha saputo cogliere l’intima e santa gioia, che gli traspariva sul volto e nei movimenti della persona. Mentre si accompagnava la salma al sepolcro, l’Allamano ha sussurrato a don Ressia con intima soddisfazione: «Vedi che belle feste riceve il Venerabile». Il giovane sacerdote, senza troppo pensarci, ha commentato: «Da qui ad alcuni anni…faranno anche a Lei così»; e lo disse così forte che tutti i compagni si misero a ridere. Un altro convittore lo ha ripreso: «Hai osato dire questo al Sig. Rettore? Sembra che tu lo voglia far morire già ora». «No – è stata la risposta – ma solo che verrà un tempo che faranno anche a lui questa festa, questo onore». L’Allamano, però, divenne subito serio e disse al Ressia: «Non dire queste sciocchezze, non sai che per avere questi onori bisogna essere gran santi, come lo era don Cafasso, ed io non lo sono». E don Ressia di rimando: «E Lei è un santo sicuro”». Ma l’Allamano con insistenza: «Ti dico di non parlare così, che non va bene» (cf.. “Tesoriere”, 3, 1980, pp. 12-13, TUBALDO I, o.c., IV, 34 - 35).



L’Allamano stimava molto la santità dello zio, lo proponeva come modello ai sacerdoti ed ai suoi allievi, e soprattutto si impegnava ad imitarlo nella propria vita. Questo era evidente a tutti. Lui non si riteneva affatto al livello del Cafasso, ma gli altri sì!



Se leggiamo le lettere ricevute dall’Allamano in occasione del giubileo sacerdotale, troviamo che in diverse di esse c’è un cenno che allude a questa speciale comunione tra lui e il Cafasso. Sarebbe assurdo pensare che quanti gli hanno scritto si siano messi d’accordo prima. La verità è che tra il Cafasso e l’Allamano c’era davvero una forte somiglianza di spirito.



Per tutti riporto quanto scrissero due Cardinali. Anzitutto, il Card. Gaetano Bisleti, allora Prefetto della Congregazione dei Seminari e delle Università degli studi: «Nel giorno non lontano del 20 settembre, tutti noi ci riuniremo intorno al Suo Venerabile zio e gli faremo dolce violenza perché interceda per Lei grazie opportune: […] per Lei che ce lo fa ricordare nella sua santa vita sacerdotale» (Lett., IX/2, 157). Poi il Card. Camillo Laurenti, allora Prefetto della Congregazione dei Religiosi: «Erede dello spirito del Santo su Zio, Ella ha svolto il Suo grandioso lavoro nei santi nascondimenti dell’umiltà» (Lett., IX/2, 178; per i Card. Cf. Lett., IX/2, 181 per il Card. A. Vico; 189, per il Card. G. Bonzano).



Ci sia piacevole sentire ancora un delicato accostamento del Cafasso all’Allamano tramite la Consolata. Un ex allievo del Convitto, il teologo Carlo Milano, inviando all’Allamano le congratulazione per il 50°, assicura le sue preghiere all’altare della Consolata, «ove la S.V. Veneratissima ha effuso il Suo Cuore nella preghiera, ove Maria le ha ispirato l’opera mirabile dell’Istituto Missionario, parlando al Suo spirito come un tempo parlava a quello del Venerabile suo Zio Don Giuseppe Cafasso» (Lett., IX/2, 214 – 215).

 

Noi siamo fieri di questo accostamento tra i due “nostri” santi. Lo riteniamo vero ed un onore per entrambi. La Chiesa, elevandoli agli onori degli altari lo ha confermato, come lo stesso Santo Padre Giovanni Paolo II ha detto nell’omelia pronunciata in Piazza S. Pietro durante la solenne funzione della beatificazione: «Il Beato Giuseppe Allamano, succedendo a suo zio, S. Giuseppe Cafasso, nella direzione del Convitto ecclesiastico della Consolata, ne emulò l’amore verso i sacerdoti e la sollecitudine per la loro formazione spirituale, intellettuale e pastorale».

 

 

IL CAFASSO DEVE ESSERE CONOSCIUTO

 

L’Allamano si è gradualmente convinto della santità dello zio don Cafasso. Come lui stesso ha deposto al processo di beatificazione: ne sentiva parlare con grande ammirazione dai parenti in casa, dai compaesani a Castelnuovo, dai sacerdoti più anziani quando era in seminario, prima come chierico e poi come direttore spirituale, e infine durante il ministero nel Convitto e al santuario della Consolata.

 

Convinto della santità dello zio, l’Allamano ha pensato che sarebbe stato un grande dono alla Chiesa di Torino e non solo, diffonderne la figura, la dottrina e la spiritualità. Quando era direttore spirituale in seminario, dietro consiglio di esimi sacerdoti, l’Allamano coraggiosamente ha incominciato a stendere una biografia del Cafasso, ma poi, per diverse ragioni, ha desistito. Aveva riempito 33 fogli, arrivando fino all’ingresso del Cafasso al Convitto. Lui stesso ha ammesso che la ragione principale che lo aveva convinto a non continuare era «il vedermi incapace di ben esprimere la stima e la venerazione che osservavo in quanti l’avevano conosciuto» (In TUBALDO I, o. c., I, p. 90, n. 228).

 

Anche Don Bosco aveva promesso di scrivere una biografia del Cafasso, che poi non ha realizzato, perché gli avevano portato via i documenti. Prima di morire, Don Bosco si è come giustificato con l’Allamano, incoraggiandolo a non desistere. Il Cafasso meritava una biografia subito. L’influenza di Don Bosco, ma soprattutto il sincero apprezzamento per il suo straordinario zio hanno convinto l’Allamano ad impegnarsi. Lo ha spiegato lui stesso: «Accolsi con riconoscenza il consiglio di D. Bosco […] e lo mandai ad effetto; ed ebbi davvero tante memorie che il Can. Colombero, Curato di S. Barbara, potè scrivere la prima vita del Cafasso» (In TUBALDO I., o. c., I, p. 544). In effetti la biografia scritta dal Colombero uscì nel 1895, dopo complicate vicende. L’impronta della mano del Fondatore, assieme a quella del Camisassa, è evidente. Lo stesso autore, scrivendo all’Allamano, riconosce che il volume « è in gran parte opera sua» (Lett., I, 561).

 

Ma prima della biografia, erano state pubblicate le meditazioni, nel 1892 e, un anno dopo, le istruzioni che il Cafasso aveva tenuto durante gli esercizi spirituali al clero. Lo scopo di queste pubblicazioni è dichiarato nella prefazione al testo delle meditazioni, a firma dell’Allamano: «[…] Prive ora queste prediche del calore e della vita che traevano dall’accento e dal gesto del sacro oratore, esse non parranno più che una pallida figura di quelle mirabili Meditazioni, le quali […] scuotevano profondamente le stesse anime più fredde, e lasciavano un’impressione incancellabile in chi le udiva anche una sola volta» (Lett., I, 448 – 449).

 

Così concludeva: «Nutro fiducia d’aver fatto cosa gradita ed utile ai venerandi colleghi nel Sacerdozio […], e così di poter cooperare in qualche modo alla continuazione del bene fatto dal venerato mio zio nella sua missione provvidenziale a vantaggio del clero» (Lett., I, 449).

 

Le reazioni a questo sforzo di far conoscere il Cafasso non sono tardate ad arrivare. È apparso presto evidente che l’impronta lasciata dal Cafasso era ancora molto viva. Persisteva, come si usa dire, una accertata “fama di santità”. Ed era una fama che meritava di essere ancora incrementata, perché non si limitasse ad una semplice ammirazione.

 

Sicuramente l’Allamano avrà gradito le numerose attestazioni di apprezzamento che ha ricevuto per le sue iniziative in favore della conoscenza del Cafasso. Possiamo dire, giacché lo conosciamo, che le ha gradite specialmente perché si è reso conto, per esperienza diretta, che fra i carismi che aveva ricevuto dallo Spirito, c’era anche quello di moltiplicare lo stile di santità sacerdotale propria del Cafasso. È come dire: collaborare perché la santità sacerdotale del Cafasso divenisse lo stile di vita soprattutto del clero. Anche su questo punto, zio e nipote si sono intesi bene ed hanno operato di comune accordo, uno dal Cielo e l’altro in terra!

 

Ecco qualcuno di questi ringraziamenti: «Hai fatto cosa non solo buona, ma ottima a stamparle: esse faranno al clero un gran bene. Se possiedi altri manoscritti di quel Sant’ Uomo, rendili pubblici; perché sarebbe un vero peccato che tesori così preziosi rimanessero nascosti»: don A. Fiore (Lett., I, 454).

 

«Nel leggerle parmi proprio di vedere quella bell’anima, ed udire la sua melliflua e fervida voce. Ella con averne procurata la stampa de’ suoi scritti ha ben meritato della Diocesi e del Clero»: teol. G. Moriondo (Lett., I, 456).

 

«Benché la memoria del compianto suo zio, Don Giuseppe Cafasso, durasse ancora viva e venerata presso il clero Piemontese che lo ebbe maestro di pietà e di sana dottrina morale, tuttavia la S. V. Ill.ma e Rev.ma ha fatto un insigne servizio […] pubblicando il mirabile volume»: Mons. F. G. Allaria (Lett. I, 459).

 

«Fra le tante e tante opere fatte dalla S. V. nel corso del suo santo ministero, io non dubito di affermare che questa, di dare alla stampa gli scritti del sempre compianto e immortale suo Zio, sia una delle più vantaggiose, specialmente per i tempi in cui viviamo»: P. I. Piattini (Lett., I, 463).

 

«Soddisfo ora al mio debito e ti ringrazio proprio di cuore e spero che quest’opera mi sarà utile, anzi mi sarà guida a pensare come il tuo santo Zio». Mons. G. B. Ressia (Lett., I, 473).

 

Concludo con il ringraziamento di don P. Matta, cugino dell’Allamano e nipote del Cafasso, che ci fa respirare un clima di famiglia: «Ti ringrazio pure del prezioso regalo: Meditazioni del nostro santo zio. Nel leggerle si rinnova in noi la stessa forte e salutare impressione, che si provava nel Santuario di Lanzo, quando uscivano dalla serafica bocca dell’autore. Questo lo sentii ripetere da molti. Mi rallegro pertanto con te del vantaggio arrecato al clero colla tua pubblicazione. Iddio secondi la tua pietosa e nobile impresa» (Lett., I, 483).

 

 

«COME PARENTE, NON DOVREI OCCUPARMENE»

 

All’Allamano stava a cuore che il Cafasso venisse conosciuto non solo per la sodezza della dottrina ascetica e morale e per l’importanza delle sue numerose attività pastorali, ma soprattutto per la santità. Di qui si comprende il suo impegno per iniziare e accompagnare lo svolgimento della causa di beatificazione, prima a Torino e poi a Roma. Questa causa, a cominciare dal 1895, lo ha occupato moltissimo. Basta sfogliare i volumi della corrispondenza del Fondatore, per vedere quanti problemi abbia dovuto trattare per scritto con il Postulatore della causa presso la Congregazione dei Riti, come pure con i Cardinali, per le ponenze durante il processo, e con gli avvocati. Senza essere il postulatore, in pratica l’Allamano era il motore che faceva funzionare tutto, per cui ogni interessato si riferiva logicamente a lui.

 

Per approfondire la conoscenza della sintonia spirituale che si è formata tra zio e nipote, è utile capire il perché l’Allamano si sia avventurato in un impegno di cui non era facile prevedere la conclusione. È certo che, come lui stesso ha più volte spiegato, ha agito non a motivo della parentela, ma per un ideale più elevato: «Ho introdotto questo processo, posso dire, non tanto per affezione o parentela, quanto pel bene che può produrre l’esaltazione di questo uomo, affinché quelli che leggeranno le sue virtù, divengano bravi sacerdoti, bravi cristiani e voi bravi missionari» (Conf. IMC, I, 192).

 

Il Can. N. Baravalle, che conosceva molto bene l’Allamano, in una testimonianza extra-processuale, ha confermato questa motivazione: «Egli non si compiacque mai della parentela del Beato, e sovente durante la discussione della causa diceva: “Io, come parente, dovrei neppure accuparmene, e non è questo lo spirito che mi spinge; io lo faccio come Rettore del Convitto per cui essendo succeduto a Lui nell’insegnamento e nella direzione del Clero, è mio dovere segnalare al Clero le virtù e la santità del Cafasso» (Testimonianza, Arch. IMC).

 

Nel nostro ambiente erano chiare le vere motivazione che hanno mosso il Fondatore ad iniziare la causa. Così testimonia il P. D. Ferrero al processo: «Ricordo poi, che avendogli manifestato il nostro vivo desiderio della Beatificazione del Cafasso, anche perché era suo Zio, egli rispose: “Ah! Se fosse solo per il motivo che è congiunto mio, non avrei fatto tutto questo. È per la gloria di Dio» (Processus Informativus, IV, 479). E Sr. Francesca Giuseppina Tempo: «Parlando della beatificazione di suo zio Don Cafasso, diceva che si era interessato tanto, e tanto aveva lavorato e fatto pregare a questo scopo, anche perché fosse proposto a modello di virtù ai Sacerdoti che lavoravano per l bene delle anime» (Processus Informativus, I, 427). Il P. L. Sales attesta: «Quando gli si accennava la parentela sua col Cafasso, diceva: “che ciò lo umiliava, tanto se ne sentiva indegno”» (Processus Informativus, III, 457).

 

Anche la nipote Pia Clotilde ha rilasciato una testimonianza significativa: «Di ritorno da Roma, dopo la solenne beatificazione del Servo di Dio Giuseppe Cafasso, mi diceva confidenzialmente un giorno: “[…] Il Signore ha ispirato un Allamano ad iniziare questa causa: il l’ho seguita con fervore, ho lavorato, ho fatto volonterosamente tanti sacrifici. Nulla ho risparmiato per la gloria di Dio e per l’esaltazione del suo servo”» (in Arch. Postulazione, Testimonianze).

 

L’Allamano era conscio che il Cafasso poteva essere, non solo un modello di vita, ma anche un efficace intercessore presso Dio. Più di una volta ha invitato a rivolgersi a lui con la preghiera. La causa canonica, però, gli ha dato qualche preoccupazione, non tanto per provare l’eroicità della virtù, quanto per ottenere i due miracoli richiesti per giungere alla beatificazione. Non tutti i casi da lui proposti sono stati ritenuti degni di attenzione. L’Allamano invitava a pregare per ottenere grazie e miracoli per intercessione del Cafasso. Così scriveva a Sr. Giuseppina Battaglia, in convalescenza a casa, il 14 febbraio 1919: «Ti mando alcune reliquie e foglietti del nostro Venerabile per fargli fare tante grazie» (Lett., VIII, 294). Lui stesso agiva in prima persona. Tra tutti i casi, ne riporto uno abbastanza curioso, riferito dal Can. N. Baravalle durante il processo informativo. Si tratta della famiglia dell’avvocato Marchisio, la cui figliola era sordomuta: «Il Can. Allamano avrebbe desiderato per questa figliuola un miracolo per intercessione del Cafasso per la sua beatificazione. A questo scopo aveva invitato tutta la famiglia ad assistere alla ricognizione della salma del Cafasso. Quando invitò la famiglia suddetta ad avvicinarsi alle reliquie, il Servo di Dio era tutto assorto. Pose le sue mani con quelle della sordomuta sul teschio del Cafasso, invocando ardentemente il miracolo» (Processus Informativus, IV, 88). Per la guarigione di questa sordomuta l’Allamano ha anche fatto pregare, come risulta dalla lettera scritta al P. G. Gallea, superiore di casa madre, il 12 giugno 1919: «Da domani, incominciando la novena del nostro Venerabile, tutti i giorni fa recitare tre Pater, Ave gloria per la guarigione di una Sordo-Muta» (Lett., VIII, 390).

 

Per capire il vero pensiero del nostro Padre riguardo i miracoli, ascoltiamolo di ritorno da Roma, dopo la beatificazione dello zio. Racconta che i Cardinali, entusiasti del nuovo beato, gli avevano detto: «Ora tocca a voi farlo far santo, ottenendone i miracoli».Il suo commento fa capire che tra lui e il Cafasso c’era un’intesa ad un livello un po’ diverso: «Questo è un buon principio. E voi domandate grazie spirituali, queste piacciono più a lui e le fa più volentieri. Ma siccome queste non bastano domandate pure grazie materiali, soprattutto miracoli di chirurgia (si fa una novena, poi una seconda, una terza senza mai stancarsi). Soprattutto domandate vero spirito religioso» (Conf. IMC, III, 723).

 

Non si può concludere meglio queste riflessioni che rileggendo le delicate parole del Fondatore, con le quali termina la lettera circolare dell’11 maggio 1925, dopo la beatificazione del Cafasso: «Pregatelo anche per me affinché il Beato mi ottenga di finire la mia carriera e possa, a suo tempo, raggiungerlo nel bel Paradiso» (Lett., X, 285).

 

 

DUE INCONTRI SPECIALI

 

Il Cafasso e l’Allamano si sono certamente incontrati una volta sola, a Casteluovo, quando il fondatore aveva sei anni.. Tra di loro, però, si è creata gradatamente una comunione interiore, che è andata crescendo, fino a raggiungere un’intensità che noi riusciamo solamente ad intravedere.

 

A parte l’incontro di persona a Castelnuovo, mi piace evidenziare due altri incontri tra l’Allamano e il Cafasso, non più di persona, ma ugualmente molto intensi, che chiamerei speciali, per il loro significato spirituale. Li presento con le parole del Can. N. Baravalle, testimone diretto. Su di essi, ognuno può fare le riflessioni che ritiene più verosimili ed utili.

 

Un incontro speciale è stato sicuramente quello avvenuto poco prima della beatificazione del Cafasso, in occasione della composizione dei suoi resti mortali nella speciale teca che li contiene ancora oggi e davanti alla quale ci siamo inginocchiati più volte a pregare. Ecco la testimonianza processuale del Can. N. Baravalle, che era presente al fatto: «Si era alla vigilia della grande ed attesa festa della Beatificazione del Cafasso. Le sue reliquie erano state racchiuse in una bellissima maschera rivestita di preziosi indumenti sacerdotali, e si stava per farne il solenne trasporto dall’annesso Convitto al Santuario. A questa cerimonia […] la Chiesa dà la massima solennità, concedendo che le reliquie vengano accompagnate col baldacchino e con due incensieri. Presiedeva l’Arcivescovo, cui facevano pure corona parecchi Vescovi. Il Can. Allamano era il parente più prossimo del Beato, il promotore della Causa, il Superiore del Santuario e del Convitto, e si sarebbe atteso di veder procedere il Servo di Dio in tanta gloria rivestito delle divise canonicali, con posto distinto. Invece, il Servo di Dio venne con noi del Santuario dietro le sacre Reliquie, colla sola talare, portando la torcia accesa. Era sofferente, commosso ed esultante, ma nulla traspariva della sua santa esultanza. Si trascinava in modo così penoso, che ad un certo punto dovette appoggiarsi alla torcia che portava, ed io ero in pena che venisse meno. Giunto al Santuario, non ebbe posto distinto: si eclissò, e non ricomparve se non dopo la funzione per ringraziare le personalità intervenute alla funzione. Tale, del resto, era il suo proposito, di nascondersi sempre» (Processus Informativus, IV, 113 – 114). Certo, il Fondatore non aveva bisogno di nessun posto speciale. Il suo incontro con il Cafasso si realizzava ad un diverso livello, in un posto che nessun altro aveva ancora occupato.

 

Un altro incontro speciale tra zio e nipote avvenne nella basilica di S. Pietro, il 3 maggio 1925, giorno della beatificazione. Quello fu un incontro che, in un certo senso, pose definitivamente l’Allamano accanto al Cafasso e glorificò entrambi. Ecco alcuni tratti di una affettuosa testimonianza del Can. N. Baravalle, che si trovava con l’Allamano a Roma: «Il giorno della beatificazione fu per Lui una fatica immane per la sua salute precaria. Pure prese parte alla funzione del mattino e poi del pomeriggio come trasfigurato senza dimostrare stanchezza né fatica. I suoi occhi guardavano pieni di lacrime la gloria del Cafasso e poi si chinavano in ardente preghiera curandosi poco o nulla della folla e dei dignitari che presenziavano. […] Non è possibile descrivere la scena della presentazione ufficiale al Santo Padre […], (che) accolse con particolare effusione il Can. Allamano […]. Uscito il Santo Padre una turba enorme si accalcò non per vedere uno dei miracolati presenti, ma piuttosto per avvicinare il Nipote del Beato del quale i giornali aveva ripetutamente parlato. Trasportato da una marea e spinto in tutti i modi Egli sorrideva, benediceva e ringraziava per tante dimostrazioni alle quali non poteva sottrarsi. Nessuno ha goduto come Lui quella giornata […]. Il Can. Cappella che era con Lui a mensa coi Superiori maggiori dei Salesiani, era in grande apprensione per la salute del Rettore, perché si nutriva pochissimo e pareva vivere solamente di soddisfazioni spirituali» (Lett. X, 267 – 268).

 

In mezzo a quella solennità, dov’era veramente il cuore del nostro Padre? Lo confida lui stesso nella lettera circolare ai missionari e alle missionarie dell’11 maggio 1925: «Non è a dire che vi abbia ricordati tutti in quel solenne momento, in cui venne proclamato il Decreto Papale e venne scoperto il Santo Dipinto. Ho vivamente raccomandato al Beato il nostro Istituto, ed implorato per voi tutti le grazie necessarie ed utili alla vostra maggiore santificazione e per la conversone degli infedeli» (Lett. X, 284). In quel momento, nessuno si era accorto, ma il cuore del Fondatore era con i suoi figli e figlie, in Africa e in Italia.

 

Leggendo queste parole, dato che siamo nel mese della Madonna, mi viene spontaneo pensare ad un’altra lettera circolare, molto anteriore, scritta dal Fondatore ai missionari del Kenya, dopo le solenni celebrazioni del 1904 per l’ottavo centenario del ritrovamento dell’effigie della Consolata: «Se i chierici vostri confratelli furono giustamente orgogliosi di assumersi in quei giorni la rappresentanza di voi ai piedi della Consolata, io me ne feci un dovere specialissimo. Lasciai in certo modo da parte le altre mie attribuzioni per non ricordare che la mia qualità di padre di questa nuova Famiglia, e come tale vi presentai tutti e ciascuno di voi in particolare, a quella buona Madre, chiedendole instantantemente non tanto l’incremento materiale dell’Istituto, quanto la grazia che continuasse anzi crescesse in voi la volontà e l’impegno di santificare voi stessi, mentre zelate la conversione dei poveri infedeli» (Lett., IV, 226 – 227). Anche in quella solenne circostanza, nessuno certamente si era accorto di quella fuga spirituale dell’Allamano in Kenya. Alla Consolata ha chiesto la stessa grazia, che chiederà al Cafasso 20 anni dopo: che i suoi figli fossero missionari santi.

 

 

«IO HO L’IDEA DEL CAFASSO»

 

Indubbiamente S. Giuseppe Cafasso è stato uno dei modelli molto valorizzati dall’Allamano nella sua attività formativa, sia al Convitto che nell’Istituto. Certo, se prendiamo in esame la dottrina ascetica del Fondatore, contenuta nelle conferenze e nelle lettere, troviamo che il modello per eccellenza che addita è sempre Gesù. Difficile che parli di una virtù senza che spieghi subito come Gesù l’ha esercitata e proposta. Però, volendo stabilire una graduatoria non quantitativa, ma qualitativa dei modelli, direi che, dopo Gesù, si trova subito la Madonna e, dopo di lei, una serie di santi, tra i quali il Cafasso ha un posto di privilegio, che cresce col passare del tempo. Per noi è importante capire il perché di questo frequente ricorso del Fondatore allo zio.

 

Trovo una spiegazione plausibile in quella confidenza fatta dall’Allamano agli allievi, già nel lontano 1906, che è come una sintesi del suo ideale di vita sacerdotale: «I miei anni sono più pochi, ma fossero pur molti, voglio spenderli in fare il bene e farlo bene; io ho l’idea del Ven. D. Cafasso, che il bene bisogna farlo bene e non rumorosamente» (Conf. IMC, I, 116). Io ho l’idea del Cafasso: il Fondatore si rendeva conto di avere assimilato molti elementi della spiritualità del Cafasso. Nei mesi che verranno, proporrò dei confronti tra il pensiero del Cafasso e quello dell’Allamano su alcuni impegni fondamentali della vita cristiana. Credo che vi troveremo molta rispondenza, precisando, però, che il Fondatore ha una sua identità inconfondibile, che lo distingue da tutti i santi, compreso il Cafasso. Quando lui assume da un altro un punto di dottrina o uno suggerimento di vita, poco alla volta lo personalizza, tanto che poi è difficile stabilire ciò che appartiene alla fonte e ciò che è proprio dell’Allamano.

 

Che poi lo stesso Allamano, nella sua attività di educatore di sacerdoti, abbia valorizzato il Cafasso come modello, è largamente affermato dai testimoni. Riporto il pensiero di uno dei suoi più stretti collaboratori, il Can. G. Cappella, che così depone al processo: «Il Servo di Dio nella direzione del Convitto e nella formazione del Clero cercava di tener vivo in ogni modo lo spirito del Beato Cafasso, che verso il Convitto aveva tante benemerenze. […] Si richiamava sempre agli esempi del suo Beato Zio; ne ricordava le massime, da cui ne traeva le dovute applicazioni per la formazione dello spirito sacerdotale. Anche nelle conversazioni famigliari, sia coi Sacerdoti addetti al Santuario, e sia coi Convittori, soleva portare il discorso sulla vita e sulle opere del suo Santo Antecessore e congiunto. Anche a tavola sapeva portare il discorso sul Beato, tanto che io posso affermare di averne appresa tutta la vita dal suo racconto» (Processus Informativus, I, 198 - 199).

 

Gli stessi convittori si erano resi conto che il Cafasso veniva proposto dall’Allamano come un modello di prim’ordine. Afferma don A. Bertolo: «Nel convitto sotto il suo Rettorato aleggiava lo spirito del Beato Cafasso» (I, Processus Informativus, 112). Anche i convittori esterni avevano la stessa impressione. Attesta don G. Bechis: «Alla vigilia di Natale dell’anno 1905 ci accolse tutti noi esterni […] e mi ricordo che ai nostri auguri di Buon Natale Egli ci rispose, ringraziando non solo, ma raccomandandoci, sull’esempio del suo Beato Zio Cafasso, la devota celebrazione della S. Messa». E termina la testimonianza con questo giudizio lusinghiero: «Il Canonico Allamano era uno dei primi discepoli, non solo, del Beato suo Zio il Cafasso, ma anche uno di quei (sacerdoti) […], ove lo spirito del Beato Cafasso riviveva immutato e perfetto» (Arch. Postulazione, Testimonianze). Il P. Gallea afferma: «Nella sua mansione di Rettore del Convitto, cercò di far rivivere lo spirito ed il metodo del suo zio S. Giuseppe Cafasso» (Processus Informativus, III, p. 13).

 

Oltre al fatto che il Cafasso era per l’Allamano un modello elevato, ma anche facile da seguire per i sacerdoti, c’è un’altra ragione importante, secondo Mons. F. Perlo, che spiega il perché della sua insistenza sul Cafasso. Nella deposizione al processo, dopo aver affermato, in accordo con gli altri testimoni, che «Fu sua cura costante di conservare lo spirito del Beato Cafasso» (Processus Informativus, II, 611), Mons. F. Perlo continua: «aggiungo che l’opera per il Beato Cafasso da lui svolta aveva anche il compito di combattere e contrastare l’eresia giansenistica che tanto male aveva fatto nella vicina Francia, con minaccia di invadere il Piemonte» (Processus Informativus, II, 663). Credo che l’obiettivo dell’Allamano di tornare all’insegnamento della morale meno rigida di S. Alfonso, già insegnata dal Cafasso, si possa facilmente leggere tra le righe della lettera che ha scritto a Mons. Gastaldi, il 24 giugno 1882, per chiedere il ritorno del Convitto alla Consolata (cf. Lett., I, 140 – 145).

 

Nell’Istituto era accolto con favore il metodo del Fondatore di educare i suoi missionari, valorizzando lo spirito del Cafasso. Il P. G. Gallea, che è cresciuto in quel clima, ha affermato che per capire il concetto che l’Allamano aveva del sacerdozio e come intendeva educare i suoi missionari, «bisognerebbe leggere quello che S. Giuseppe Cafasso predicava negli esercizi spirituali al clero». Ed ecco come ha concluso: «Il Servo di Dio, pervaso totalmente dello spirito del suo Santo Zio, e, come lui, nato fatto per essere educatore del clero, sentiva profondamente la sua vocazione di dare origine ad una istituzione che facesse vivere in tutta la sua interezza l’ideale del Sacerdote, chiamato dal Cafasso: “raggio vivente della divinità su questa terra”» (Processus Informativus, III, 183).

 

Conferma di tutto ciò sono le parole del Fondatore, scritte dopo la beatificazione del Cafasso: «Egli è pure nostro speciale Protettore e come dite “vostro Zio”, e come tale lo dovete onorare ed imitare. […] Io penso con ciò di avervi procurato un gran mezzo di perfezione, e di avere in parte compiuta la mia Missione a vostro riguardo» (Lett., X, 284). Il Cafasso, per volontà dell’Allamano, è stato così dichiarato non solo protettore, ma anche modello dei Missionari e delle Missionarie della Consolata.

 

 

IL CAFASSO VOLEVA ESSERE MISSIONARIO

 

Per l’Allamano anche il Cafasso aveva spirito missionario, come risulta da queste parole dette nella conferenza del 13 febbraio 1921: «Egli aveva questa ambizione di farsi missionario, ma non l’han lasciato andare: ed egli l’ha fatto di qui. Nella Propagazione della Fede il Convitto (dove il Cafasso era Rettore) aveva sempre il primo posto. Ogni sacerdote zelante dev’essere missionario; se è zelante vuole condurre tutti in Paradiso…non è contento di quelli che ha attorno, ma vuole salvare anche tutti gli altri. Ed il Cafasso aveva molto zelo» (Conf. IMC, III, 530).

 

Nella conferenza del 19 marzo 1921: «In qualunque stato e in ogni tempo fate come lui, anche le cose piccole fatele sempre bene. Questo vi serva di sprone…se egli fosse nato adesso certamente si sarebbe fatto Missionario, perché un prete zelante non si contenta di queste quisquilie: ma allora non c’era nessun Istituto. Una volta andando a S. Ignazio, parlava delle Missioni come uno che sente di dentro l’ardore e l’amore delle anime» (Conf. IMC, III, 549).

 

 

LE TRE VIRTÙ DELL’APOSTOLO

 

Le “tre virtù dell’uomo apostolico” del Cafasso sono diventate i “Tre ricordi ai partenti” per l’Allamano. Incominciamo da qui a confrontare zio e nipote su alcuni punti salienti della loro spiritualità.

 

Nella meditazione “Sopra la vita pubblica di Gesù Cristo” degli esercizi spirituali al clero, il Cafasso ad un certo punto afferma: «Se bramiamo cavar frutto dalle nostre fatiche [apostoliche], ecco le tre cose che ci sono indispensabili: 1. spirito di orazione, e di unione con Dio; 2. spirito di dolcezza, e mansuetudine; 3. spirito di totale e sincero disinteresse: queste sono le tre speciali virtù, che fece spiccare il nostro divin Redentore nel suo ministero» (L. CASTO (a cura), Giuseppe Cafasso, Esercizi spirituali al clero, Meditazioni, ed. Effetà, Cantalupa (To) 2003, p. 550). Più avanti riassume: «[…] lo che vuol dire, che l’uomo Apostolico deve essere Uomo di preghiera, tutto Carità, e che in tutte le sue azioni non abbia altro di mira che l’onore, e la gloria [di] Dio, e la salute delle anime» (ID, o.c., p. 564).

 

Il Fondatore si è trovato subito in sintonia con questa meditazione, perché gli era congeniale l’impostazione di fondo: dal modello per eccellenza che è Gesù scaturiscono le virtù proprie dell’apostolo. La forza dei suggerimenti sia del Cafasso che dell’Allamano deriva dal fatto che per entrambi il punto di partenza è la persona di Gesù, il modello per eccellenza. Il Fondatore ovviamente ha adattato le riflessioni del Cafasso alla realtà propria dei suoi missionari. Ecco il manoscritto della predica per la funzione di partenza di Don Morino, avvenuta al santuario di S. Ignazio il 6 settembre 1908: «Orbene N.S.G.C. nella sua Vita Apostolica esercitò a nostro esempio tre virtù principali, che sono come i caratteri dell’uomo apostolico. Lo dice il nostro Venerabile Cafasso, che lo predicò da questo altare [a S. Ignazio]. N.S.G.C. ebbe: lo spirito di preghiera, lo spirito di mansuetudine e lo spirito di distacco [il Cafasso dice: “disinteresse”] (V. Pred. Ven. Cafasso – Med. Vita pubblica)» (Conf. IMC, I, 264). Praticamente tutte le omelie o conferenze fatte in seguito, in occasione di partenze, sia di missionari che di suore, seguono questo stesso schema. È interessante notare come l’Allamano, quando poi sviluppa una ad una queste tre virtù, segua il filo di pensiero del Cafasso, adattandolo, però, alle esigenze della missione “ad gentes”.

 

La prima virtù dell’apostolo, dunque, è lo “spirito di preghiera”. Il Cafasso fa questo commento:«Ecco Signori miei qual deve essere in un uomo apostolico la grande preparazione […]: pregare prima di mettersi a lavorare, pregare mentre si lavora, pregare dopo aver lavorato: così fece il primo de’ Sacerdoti Cristo Gesù, così fecero gli Apostoli, così tutti gli uomini Apostolici, e così deve fare ogni Sacerdote, che voglia lavorare con zelo, e con frutto nella vigna del Signore» (L. CASTO (a cura), Giuseppe Cafasso, Esercizi spirituali al clero, Meditazioni, ed. Effetà, Cantalupa (To) 2003, p. 551).

 

L’Allamano così spiega ai Padri Carlo Re e Giovanni Borello, partenti per il Kenya, lo spirito di preghiera: «Il primo ricordo adunque è questo: Siate uomini di orazione! Non avere mai paura di pregare troppo!...Io mi rallegro coi nostri missionari che tengon fermo sulle pratiche di pietà […]. Altrimenti, se non sarete uomini di orazione, sarete strumenti inetti della grazia di Dio…Intanto faremo del bene in quanto saremo uniti con N.S. […] Dunque, prima di tutto: spirito di orazione…Guai se vi dimenticherete di N. Signore» (Conf. IMC, III, 497). Ecco la conclusione: «Abbiamo bisogno di pregare e pregare molto, anche ed appunto perché siamo Missionari» (Conf. IMC, III, 722).

 

La seconda virtù dell’apostolo per il Cafasso è lo “spirito di dolcezza e di mansuetudine”. Così la commenta: «Oh se sapessimo quanto sia necessaria in noi questa virtù, e quanto importi; deduciamolo da questo: non si contentò il Signore di darci i luminosi esempi, sono pur tanti e patenti, ma pure non ne fu pago: ci ricordò d’imparare da lui ad essere mite, e mansueto; ma nemmeno questo bastò: nell’atto che mandò i suoi Apostoli e noi nella loro persona, ci fece avvertiti che non ci mandava come leoni a farci temere, a spaventare, a dominare, ma come tante pecorelle ed agnellini ad attirarci colla nostra dolcezza, e mansuetudine il cuore di tutti» (L. CASTO (a cura), Giuseppe Cafasso, Esercizi spirituali al clero, Meditazioni, ed. Effetà, Cantalupa (To) 2003, p. 555).

 

Per l’Allamano: «L’esperienza prova che i nostri missionari in tanto fanno del bene in quanto sono mansueti; e qualche fatto d’ira accaduto ha allontanato gli indigeni, dicendo il missionario padre cattivo”» (Conf. IMC, II, 159). Il secondo ricordo che lasciava ai partenti, sulla scia del Cafasso, era precisamente: «lo spirito di mansuetudine, di carità, di pazienza» e commentava: «Ah, quanto è necessaria […]. Non se ne ha mai abbastanza. E quando dovremo avere questa mansuetudine? Sempre e con tutti […]. Allora il Signore benedirà le vostre fatiche!» (Conf. IMC, III, 497). Alla mansuetudine si può ricollegare anche la “delicatezza: «La nostra Consolata è delicata e vuole che i suoi figli siano delicati» (Conf. IMC, III, 414).

 

Infine la terza virtù dell’apostolo per il Cafasso è lo “spirito di disinteresse”: «Finalmente il terzo esempio che ci lasciò il divin Redentore nella sua pubblica vita fu di un gran disinteresse: l’unica sua mira fu sempre quella di fare la volontà del suo Padre, di cercare unicamente il suo onore e la sua gloria. […] Oh! Se tutti noi, se tutti i sacerdoti fossero ripieni e guidati da questo spirito di distaccamento e di disinteresse, oh!, quanti disordini di meno, quanto bene di più si farebbe nel nostro Ministero» (L. CASTO (a cura), Giuseppe Cafasso, Esercizi spirituali al clero, Meditazioni, ed. Effetà, Cantalupa (To) 2003, pp. 558, 560).

 

Nel suo terzo ricordo ai partenti il Fondatore si distacca un po’ dal Cafasso. Pur insistendo anche lui sulla necessità di fare sempre la volontà di Dio, di agire unicamente per la sua gloria, all’inizio della missione dei suoi figli preferisce richiamare l’attenzione sul distacco, perché è convinto che il missionario deve essere un uomo “libero”: «Terzo ricordo: spirito di distacco…”Ma! Mi direte, che ci siamo distaccati dai parenti, da questa casa […] da tutti!…”, lo so! Ma fate ancora di più!…Distaccatevi anche da voi stessi, da tutte le comodità, e da tutte queste piccole miserie. Il signore penserà sempre a voi, come ha pensato allora agli Apostoli» (Conf. IMC, III, 498).

 

 

«DOMANDATE AL VENERABILE…»

 

Il valore della preghiera per un apostolo, assieme all’equilibrio tra azione e contemplazione, tra lavoro e preghiera, è stato un tema proposto con grande intensità dal Cafasso e dall’Allamano. Entrambi erano convinti che l’apostolato è valido solo se parte da una sincera comunione con Dio. La loro esperienza personale, poi, ne era una sicura conferma.

 

Il Cafasso ha trattato questo tema per i sacerdoti, durante gli esercizi spirituali, nella meditazione sulla «Vita pubblica di Gesù» Ad un certo punto, egli fa questa considerazione per chi dice che non ha tempo, né salute o voglia di pregare: « […] e non aveva da fare il Redentore, eppure che faceva: lasciava tutti, abbandonava ogni cosa, e si ritirava a solo per raccogliersi, e pregare, e con ciò species tibi datur…forma prescribitur [ti dà l’esempio] del come devi far tu» (L. CASTO (a cura), Giuseppe Cafasso, Esercizi spirituali al clero, Meditazioni, ed. Effetà, Cantalupa (To) 2003, p. 566).

 

Il tema è ripreso, in maniera più ampia, nella istruzione sulla «Orazione» propria del sacerdote. Modello insuperabile è sempre Gesù: «Il divin Redentore, Capo e Maestro di tutti i sacerdoti, ogni qualvolta poteva godere qualche momento di respiro dalle continue sue fatiche, come leggiamo nel Vangelo, si ritirava e pregava». Più avanti, il Cafasso spiega «Che significa uomo di preghiera»: «Per dirlo brevemente ed in termini chiari, uomo di orazione vuol dire un uomo del mestiere. Come uomo d’armi, uomo di commercio, uomo di lettere, uomo di campagna, significa letteralmente e secondo tutti una persona dedicata, consacrata al maneggio delle armi, degli affari, allo studio delle lettere, alla coltura della campagna, così uomo d’orazione vuol dire un uomo che si è dato, che si è consacrato alla preghiera, e non soltanto di nome, ma che di essa fa la continua e giornaliera sua occupazione, i suoi pensieri dominanti, i suoi discorsi, le occupazioni sue tutte sono dirette alla preghiera. […] Osservatelo in casa, in chiesa, perfino nelle contrade, voi lo vedrete pregar continuamente: se studia, prega: se lavora, prega: se si diverte, prega: se mangia, se dorme, prega. Ma come può essere? È dunque sempre in ginocchio? – Non è necessario questo: egli prega, perché quel che fa, qualunque sia la cosa, lo fa con quel fine, cioè a dire per l’onore, per la gloria dl suo Dio; prega, perché di tanto in tanto si ricorda di Dio, pensa a Lui, si slancia verso di Lui, parla con Lui» (S. GIUSEPPE CAFASSO, Esercizi spirituali al Clero, ed. Paoline, Alba 1955, pp. 406 – 407).

 

L’Allamano è stato colpito da queste riflessioni, soprattutto dall’affermazione che la preghiera è il “mestiere” del sacerdote. Nella conferenza agli allievi del 21 novembre 1915, ha spiegato l’importanza della preghiera per il missionario proprio a partire da questa affermazione del Cafasso: «Specialmente è necessaria l'orazione ai sacerdoti ed ai missionarii. Essi devono essere uomini di preghiera, direi del mestiere, per sé e per le anime loro commesse (V. Ven. Cafasso, Istruz. sull'Oraz.)» (Conf. IMC, II, 415). Questo è il suo manoscritto, ma a viva voce la spiegazione è stata più incisiva: «Il nostro Ven. Cafasso del Sacerdote, e noi diciamo tanto più del Missionario, diceva che doveva essere un uomo di preghiera; le parole sono un po' materiali, ma come si dice: un uomo è del tal mestiere, così possiamo dire per esprimere la necessità che ha il Sacerdote di pregare» (Conf. IMC, II, 417).

 

Sempre nel contesto di questa conferenza, il Fondatore ha fatto un’affermazione molto forte sul rapporto tra preghiera e lavoro: «Il Ven. Cafasso diceva che aveva paura di chi lavorava troppo nel ministero» (Conf. IMC, II, 418). Basandosi sullo stesso suo manoscritto e nello stesso giorno, egli è stato addirittura più esplicito con le suore: «Il Ven. Cafasso diceva: Mi fan pena i sacerdoti che han troppo da lavorare... Se si prega di più, si lavora poi di più, si studierà più in fretta... Ma non dire: Chi lavora prega... Non è vero; cioè è giusto e falso: è giusto se fatto per obbedienza, perché è volontà di Dio. Per esempio, in cucina, quella che sta sotto mentre le altre sono in chiesa, lo fa per dovere, manda qualche aspirazione a Dio, si unisce alle altre: è preghiera. Ma quando si fa per capriccio... quando uno si carica di lavoro, per volontà propria, che alla sera si sente stanco e si lamenta di non aver potuto pregare, allora…Possibile che in quei casi ci sia uno zelo così discreto, così puro? […]. Il Ven. Cafasso diceva: Il mestiere delle persone consacrate a Dio è pregare. - Bisogna che siamo persone di orazione, che tutto quel che facciamo l'indirizziamo a Dio»ۚ (Conf. MC, I, 231).

 

Il modello più convincente di intensità nella preghiera e di equilibrio tra lavoro e preghiera, anche per l’Allamano, è Gesù. Seguendo quasi alla lettera lo sviluppo della meditazione del Cafasso sulla vita pubblica di Gesù, fa queste riflessioni: «N. Signore si preparò alla Sua Celeste missione colla preghiera nella casa di Nazaret e prossimamente con quaranta giorni nel deserto. Durante poi le sue fatiche apostoliche si ritirava di tanto in tanto a pregare, e vi passava anche le notti intiere: erat pernoctans in oratione Dei. E durante il lavoro apostolico sollevava sovente gli occhi e la mente al Suo Eterno Padre. Perché così fece Gesù, che essendo Dio era sempre unito al Padre, quindi non aveva bisogno di tali esterne dimostrazioni di preghiera? […] (V. Pred. cit.). Che pensare, che dire di quei missionari che credono di adempiere all'offizio di apostolo con girare, lavorare e fare molte cose e molto rumore, lasciando perciò o diminuendo gli esercizi di pietà colla scusa del molto lavoro? Gesù aveva più a fare che noi..., doveva in tre anni compiere la Sua missione ben più alta ed estesa della nostra, eppure si ritira e prega, e con ciò non teme di perdere tempo o sottrarlo al maggior bene delle anime per cui era venuto dal Cielo» (Conf. IMC, I, 265).

E per finire ascoltiamo questo interrogativo, un po’ provocatorio, che il Fondatore pone agli allievi: «Domandate al Venerabile se ha lasciato qualche volta il breviario, il rosario, la meditazione perché aveva molto da fare! Se non aveva tempo di giorno, faceva di notte. […] Insomma, è tanto facile scambiare le cose: prima di tutto fare santi noi, e poi prima pregare e poi fare del bene agli altri, e non lavorare, lavorare, lavorare solo» (Conf.- IMC, II, 608).

 

 

«CHI SALVERÀ PIÙ ANIME?»

 

L’interrogativo: “Chi salverà più anime” è del Cafasso e anche dell’Allamano. Il vocabolario è quello del loro tempo, ma il suo contenuto è evidente e più che mai valido. Così come suona, entrambi lo hanno pronunciato con convinzione: il Cafasso, durante la meditazione conclusiva degli esercizi spirituali ai sacerdoti; l’Allamano, in un allegro incontro con gli allievi a Rivoli.

 

Prima di ascoltare le loro parole, è conveniente ricordare che la spiritualità del Cafasso e quella dell’Allamano erano di tipo attivo. Essi erano apostoli in contatto con la gente, impegnati in molte e importanti opere, tanto da suscitare ammirazione, come lo stesso Fondatore ha dovuto riconoscere. Tuttavia, non si sono lasciati soverchiare dall’attivismo ed hanno saputo armonizzare, in modo spontaneo ed integrale, la contemplazione con l’azione, la preghiera con il lavoro.

 

È sintomatico che uno degli ultimi ricordi del Cafasso rilasciati ai sacerdoti al termine degli esercizi spirituali riguardi proprio l’impegno per la salvezza eterna dell’uomo. Ecco le sue parole: «E chi di noi, fratelli, siamo qui un certo numero, chi di noi salverà più anime, chi di noi in paradiso avrà una maggior corona d’anime da noi salvate, ecco finalmente l’ultimo pensiero con cui finiremo. Chi sarà? Né io, né voi al momento possiamo saperlo, ma il desiderio di salvarne molte, l’impegno di poter esser quel tale lo possiamo avere tutti […] Anime adunque, fratelli, anime, pel cielo. Datemi anime, o Signore andava ripetendo S. Francesco di Sales, anime o Signore, se volete che io provi un po’ di contento in questo mondo. […] Sia che preghi un Ecclesiastico, sia che studi, sia che lavori, questa deve essere la sua mira, il suo oggetto: anime e non altro» (L. CASTO (a cura), Giuseppe Cafasso, Esercizi spirituali al clero, Meditazioni, ed. Effetà, Cantalupa (To) 2003, pp. 715 - 716).

 

Il discorso sulla salvezza delle anime come obiettivo del ministero sacerdotale il Cafasso l’ha fatto anche in altri contesti. Ne riporto uno, desumendolo dall’istruzione intitolata «Conforti e consolazioni del sacerdote». Un consolazione per il sacerdote è lavorare per la gloria di Dio: «Il suo pensiero, la sua occupazione, il suo affare è questo: procurare, aumentare, dilatare la gloria del Signore sulla terra; strappare le anime dall’inferno e radunar gente per il Cielo; sforzarsi continuamente per risparmiar qualche offesa al suo Signore e far sì che vi sia qualche peccato di meno in questo mondo» (GIUSEPPE CAFASSO, o.c., 601). Ed ecco la conclusione: «Anime e peccati, ecco tutta la conclusione, tutto il termine del mio dire; anime e peccati, ecco i due anelli tra cui racchiudo quanto sono andato dicendo in questi giorni. Dammi anime, o Signore, diciamo con quell’apostolo di carità, S. Francesco di Sales, dammi anime da salvare. Dammi peccati da combattere, da sterminare» (L. CASTO (a cura), Giuseppe Cafasso, Esercizi spirituali al clero, Meditazioni, ed. Effetà, Cantalupa (To) 2003, pp. 608 - 609).

 

Sicuramente tra l’Allamano e lo zio si scorge una grande sintonia su questo terreno, addirittura nel modo di porgere i pensieri. Così pensava l’Allamano: «Il Ven. Cafasso: “Lavoriamo, diceva, ci riposeremo in Paradiso”: Le stimava Egli le anime! Aveva lo zelo che proviene dalla sete delle anime» (Conf. IMC, III, 661).

 

Come il Cafasso, anche il Fondatore rivolge la stessa domanda sulla salvezza delle anime, non ai sacerdoti, ma ad un bambino, secondo una curioso racconto di P. L. Sales alle suore. Ascoltiamolo: «Quando eravamo chierici, tutte le settimane facevamo la passeggiata a Rivoli, e giunti alla villa ci mettevamo seduti sulle panche a semicerchio intorno al Can. Allamano che ci intratteneva con pensieri spirituali. Era ricchissimo di pensieri. Quella volta, c’era anche la signora Rosanna, benefattrice dell’Istituto, e il Padre la fece sedere accanto a lui, e noi chierici tutti insieme. Questa signora aveva un bambino come quelli della vostra scuola materna, e il Can. Allamano gli dice: “Senti, fammi un po’ passare tutti e indicami quello che salverà più anime”» (cf. Spigolature...).

 

La dizione “salvare le anime”, sulla bocca del Fondatore, trova alcune variazioni efficaci, come: ”convertire le anime”, “santificare le anime”, “mandare in paradiso le anime”. Per l’lui si tratta ovviamente di «Salvare quelle anime che nessuno vuol salvare, a cui nessuno pensa», cioè le anime degli “infedeli” (Conf. IMC, III, 661).

 

Merita notare questa dimensione missionaria che il Fondatore ha saputo abitualmente imprimere alle sue parole, perché fa parte della sua identità più profonda di padre di missionari. Per esempio: «Solamente facendo voi santi e grandi santi, potrete ottenere il secondo fine del nostro Istituto: salvare, salvare molte anime infedeli» (Conf. IMC, I, 423); «L’Istituto confida molto nelle vocazioni di sacerdoti, (che) vedendo più che sufficiente il loro numero per la cura delle anime nei nostri paesi, pel desiderio di salvare maggiori anime, per cui si sono fatti sacerdoti, generosamente sacrificano […] una già acquistata posizione per correre a salvare tante anime che ancora giacciono nelle tenebre dell’infedeltà, per cui N.S. Gesù Cristo è pure morto» (Conf. IMC, II, 19). «Questo è lo scopo del sacerdote e del missionario: zelare la gloria di Dio colla salute delle anime» (Conf. IMC, III, 461).

 

In questo contesto è logico ricordare l’abbondante ricorso dell’Allamano alla celebre frase di S. Francesco di Sales, che pure il Cafasso conosce bene: “Dammi anime, togli il resto”, che gli serve per spiegare la necessità che un missionario senta la “sete delle anime”. Così esortava i Padri G. Aimo-Boot e G.B. Rolfo in partenza per le missioni, il 3 dicembre 1908, festa di S. Francesco Zaverio: «Ecco, miei cari, la sete che dovete avere di anime. Dite anche voi con un altro San Francesco: da mihi animas, coetera tolle: anime, Signore, e nient’altro» (Conf. IMC, .I, 279).

 

 

IL VERTICE DELL’INTESA

 

L’intesa che stiamo ammirando tra il Cafasso e l’Allamano riguarda in certo senso tutta la loro spiritualità, ma ha un vertice, che mi pare espresso dalle parole già riferite del Fondatore: «Io ho l’idea del Ven. D. Cafasso, che il bene bisogna farlo bene e non rumorosamente» (Conf. IMC, I, 116).

 

“Il bene fatto bene”, “fare bene il bene”, ecc., sono espressioni familiari nel nostro ambiente, che il Fondatore ha ereditato dallo zio, facendole proprie e proponendole a noi come la via maestra per raggiungere la santità missionaria.

 

Effettivamente, come costante della pedagogia del Cafasso c’è proprio la convinzione che la santità consiste nel vivere “bene” la realtà ordinaria di ogni giorno e non nel “fare cose straordinarie”. Basta leggere le meditazioni e le istruzioni che teneva durante gli esercizi spirituali per rendersi conto che il Cafasso proponeva questo tipo di cammino verso la santità, perché lo riteneva “concreto”, “facile” e “completo”. Non è fuori posto ritenere che il Cafasso, a sua volta, su questo punto fosse in sintonia con la spiritualità di S. Francesco di Sales.

 

C’è una meditazione del Cafasso, riservata all’ultimo giorno degli esercizi, intitolata “Sopra le occupazioni giornaliere”, che sostanzialmente tratta solo di questo tema. Merita rileggerne qualche brano, perché probabilmente essa è stata la principale fonte di ispirazione per il Fondatore: «Già noi dobbiamo essere santi […]; ma sapete voi chi intenda io per santo, e chi lo sia? Io intendo per santo, e lo è realmente quel sacerdote che si occupa in ministeri, in azioni proprie del suo stato, anche comuni, ed ordinarie; non solo si occupa, ma si preoccupa, e fa quanto può per farle bene: qual è la vita di un buon sacerdote, come passa i suoi giorni? Prega, celebra, studia, confessa, predica, istruisce, consola, consiglia, visita, si solleva, ecco la tela delle occupazioni di un buon sacerdote: niente di straordinario, niente di rumoroso, tutto comune, ordinario» (ID. o.c., 684). Questo testo è barrato dal Cafasso stesso, il che significa che forse non lo ha pronunciato, ma contiene il suo vero pensiero, espresso sotto tante angolature differenti, come risulta da tutta la meditazione.

 

Più avanti il Cafasso insiste sul suo pensiero: «Nemmeno poi è necessario che il sacerdote faccia nel suo stato opere grandi e strepitose per essere un vero e santo Ministro Evangelico: le opere grandi sono poche, e pochi sono chiamati a farle, ed è alle volte una grande e funesta illusione voler tendere a cose grandi e frattanto si trascurano le comuni, le ordinarie. […] Opere adunque di zelo, di gloria di Dio, e della salute delle anime, ma opere comuni, ordinarie; dico comuni non già che sien tali per loro natura, giacché la minima cosa divien massima quando sia diretta a quel fine, ma le chiamo comuni, per intendere quelle che giornalmente sono alla mano» (ID, o.c., p. 686).

 

Ed ecco la vera fonte d’ispirazione per il Cafasso, come sarà per l’Allamano: «Con ciò però non crediamo che basti per essere un vero sacerdote passare i nostri giorni in azioni tali, io direi che sarebbe il meno: il meglio anzi il tutto sta nel farle bene, di modo che di un sacerdote si possa dire a proporzione quello che dicevasi del figliuol di Dio. Marc. Cap. 7 che ha fatto bene tutte le cose» (ID., o.c., p. 687). Queste parole sono seguite da altre barrate, ma molto significative: «Da ciò veda ognuno quanto importi l’impegnarsi a far bene le cose comuni, e quanto ci debba esser consolante il sapere che la nostra santità, e perfezione ci sia tanto alle mani, ed in una cosa così facile, e domestica» (ibid.). Il Cafasso non si limita a queste affermazioni, ma prosegue ad indicare che cosa significhi fare “bene” le cose ordinarie: «Che cosa adunque si ricerca per farle bene? Io le riduco a due: 1. farle unicamente e puramente per Dio. 2. farle estremamente in un modo che sia degno di quel Dio, per cui le facciamo. Primieramente fare le nostre azioni tutte quante solo per Dio» (ID. o.c., p. 688).

 

A parte il linguaggio un po’ anteriore nello stile, non ci pare di risentire il Fondatore? Sappiamo che lui si ispirava a due serie di modelli: anzitutto al modello per eccellenza che è Gesù («Ha fatto bene ogni cosa»: Mc 7,37), assieme a Maria, nel mistero della Visitazione; poi anche a modelli umani, in particolare a S. Francesco di Sales e al Cafasso. Sentiamo l’Allamano stesso in due testi, che ritengo tra i più illuminanti:

 

Nella conferenza del 3 settembre 1916, tutta sul commento a Mc 7,37: «Nel S. Vangelo della Domenica passata, si racconta il miracolo di N. S.G.C, della guarigione di un sordo-muto. A questo fatto le turbe meravigliate..., esclamarono: bene omnia fecit—fece tutte le cose bene. Pare che come conseguenza dell'accaduto, dovessero dire: fece cose grandi, miracolose... No, ma: bene omnia fecit. Con queste tre parole fecero molto miglior elogio, affermando che Gesù non solo nelle cose straordinarie, ma anche nelle ordinarie e comuni faceva tutto bene. Vediamo come veramente N.S. in tutta la sua vita fece bene ogni cosa; per poi vedere se noi pure, imitandolo facciamo tutto bene» (Conf. IMC, II, 668).

 

E durante il ritiro mensile del 2 luglio precedente, festa della “Visitazione di Maria SS.”: «Lo scopo di S. Francesco di Sales era che (le sue suore) conducessero una vita ordinaria, non aspre penitenze, non digiuni…[…]. Voi dovete condurre una vita ordinaria come la Madonna; sarà stato quello di assistere S. Elisabetta, […], accompagnare S. Giuseppe, quando tornava guardare il bambino, quelle cose lì…in quei tre mesi, la Madonna ha fatto la vita ordinaria. Ha fatto tutto lo straordinario nell’ordinario. Come il nostro Venerabile si diceva che vivendo ordinariamente faceva le cose in modo straordinario. Così la Madonna, faceva come le nostre buone donne, che vanno ad aiutare le vicine, comperare, faceva quello che deve fare una buona donna in casa, come una buona serva. Perciò non faceva cose straordinarie, e S. Francesco non voleva che le sue suore facessero miracoli, ma solo bene le cose ordinarie» (Conf. IMC, II, 626).

 

 

HANNO PERCORSO LA STESSA STRADA

 

Che l’Allamano abbia comminato sulle orme dello zio, pur conservando una sua spiccata e riconoscibile personalità, credo che sia risultato evidente dalle riflessioni che ho proposto durante questi mesi. Stando alla documentazione, si deve riconoscere che zio e nipote si sono rassomigliati in tante virtù. Ovviamente è stato il nipote che, entusiasta della personalità spirituale dello zio, ne ha assunto e maturato convinzioni e atteggiamenti, evidenziando quanto gli era più congeniale interpretando i contenuti in senso missionario per i suoi figli e figlie. È impressionante come il Fondatore conoscesse bene il Cafasso e quante volte lo abbia nominato durante le conferenze, ripetendo il famoso ritornello: «Il Ven. Cafasso diceva…».

 

Ecco, schematicamente, qualche esempio di virtù o di atteggiamenti per i quali il nipote ha attinto dallo zio, proponendolo come modello sicuro.

 

Speranza e confidenza in Dio. Per l’Allamano il Cafasso è maestro di speranza e di confidenza in Dio: «Il nostro Venerabile aveva tanta speranza, sua caratteristica, da infonderla anche nelle anime disperate, come scrisse D. Bosco» (Conf. IMC, II, 337; cf. anche, II, 156 – 157; III, 188). Agli allievi, con evidente soddisfazione, fece questa confidenza circa il processo di beatificazione del Cafasso,: «Quando si trattava di rispondere alla domanda: quale fosse la sua virtù principale, s’imbrogliavano; tutto era principale, poi han detto che la principale era lo zelo per la salute delle anime. Altri dicevano che era la confidenza in Dio: infatti di confidenza ne aveva per sé e per gli altri» (Conf. IMC, III, 530). Il P. G. Gallea, nella deposizione processuale, afferma del Fondatore: «È indubitato che il Servo di Dio sia stato adorno della virtù della speranza soprannaturale nella quale cercò di riprodurre in sé lo zio S. Giuseppe Cafasso. […] E prendeva dal Cafasso le frasi più incisive ed atte a ravvivare la speranza e la piena fiducia nella misericordia di Dio» (Processus Informativus, III, 103).

 

Dono del consiglio. Ecco un’altra deposizione del P. G. Gallea: «Le doti che lo rendevano consigliere così ricercato sono, per quanto sperimentai io stesso, quelle stesse che possedeva San Guseppe Cafasso, e che il Robilant elenca come segue: “capiva subito la questione fino a fondo, e pare che piuttosto la intuisse; prontezza, brevità e chiarezza nel rispondere: parola eminentemente autorevole; risultati soddisfacenti nel seguire il suo consiglio”» (Processus Informativus, III, 143). È davvero sintomatico che per illustrare il dono del consiglio nell’Allamano il P. Gallea si limiti a riferire le parole che il Robilant aveva usato per il Cafasso!

 

Ministero della Confessione. Il Can. G. Cappella così depone: «Lo zelo che (l’Allamano) dimostrò per il ministero delle confessioni, conferma quanto egli aborrisse il peccato e si adoperasse per salvare il peccatore. Modellato alla scuola del Beato Cafasso, suo zio, […] il Servo di Dio si prestava molto volentieri a confessare. Ancora negli ultimi anni, non era mai che si lagnasse di dovere fare ripetutamente le scale quando fosse chiamato a confessare. [… Nel confessare era breve, preciso; […] praticava costantemente il metodo del B. Cafasso, per procurare maggior profitto delle anime, e maggior guadagno della gloria di Dio» (Processus Informativus, I, 265, 267).

 

Modestia e temperanza. Ancora la deposizione di P. G. Gallea: «Nel Servo di Dio rifulse pure la virtù della temperanza. Moderò il suo portamento esteriore in modo che una delle sue qualità caratteristiche consisteva in quella decenza e proprietà di portamento da riprodurre, anche in questo, molto da vicino la modestia dello zio, San Giuseppe Cafasso» (Processus Informatvus, III, p. 173).

Il Cafasso, all’inizio dell’istruzione sulla modestia, si pone questo quesito: «Quale deve essere esternamente un sacerdote, e che cosa ci vuole per formarlo? Egli deve essere un raggio, uno specchio della divinità. Quel Dio, che è invisibile ad occhio umano su questa terra, ha voluto in certo modo porgere agli uomini il conforto della sua presenza, affinché quasi rimirarlo, avvicinandosi a lui e parlargli; e perciò che fece? Scelse un uomo, lo separò dal resto degli altri, lo rivestì dei suoi poteri e lo elevò tant’alto da costituirlo suo ministro e rappresentante in terra» (S. GIUSEPPE CAFASSO, Esercizi spirituali al clero, cit., pp. 261 – 262).Questo principio l’Allamano lo ha trasferito al missionario. Così scrive al P. A. Dal Canton in Kenya: «Tu ben sai quale spirito io desideri dai nostri missionarii. Che siano ben fondati nello spirito di Fede, sicché operino per Dio e nella loro condotta rappresentino Dio stesso in faccia ai neri. Se puoi averla leggi la predica sulla modestia del nostro Venerabile» (Lett., VI, 421).

 

La Madonna vicina in punto di morte. Merita di essere ancora ricordato un aspetto legato alla nostra spiritualità mariana. Il Fondatore diceva: «Desideriamo che Maria SS venga ad assisterci in punto di morte. I Santi lo desideravano. Il Ven. Cafasso diceva: Ah se potessi averla accanto al letto di morte!... E l'ha avuta» (Conf. IMC, III, 169). Di fatto il Cafasso, nella meditazione sulla morte del giusto, rivolge questa implorazione alla Madonna: «Oh!...fosse un po’ vero, o cara Madre, che nelle mie agonie […] vi vedessi con questi miei occhi a comparire; oh che speranza mi darebbe un’occhiata di quei vostri occhi, una parola sola che sortisse da quelle labbra […]» (L. CASTO (a cura), Giuseppe Cafasso, Esercizi spirituali al clero, Meditazioni, ed. Effetà, Cantalupa (To) 2003, p. 371). Ancora il Fondatore: «Se la Madonna mi dicesse: Vuoi sentirla la mia voce? – No, no, direi, la sentirò poi in Paradiso: Se vuol venire ad assistermi in punto di morte, bene; questo lo desidero» (Conf. MC, III, 405). Sr. Emerenziana Tealdi depone al processo: «Soleva il Servo di Dio ricordare che il Beato Cafasso era solito recitare un’Ave Maria per ottenere la grazia di vedere la Madonna in punto di morte; ci suggeriva di fare altrettanto per avere anche noi quella grazia segnalatissima» (Processus Informativus, II, 554 – 555).

 

Concludo con la testimonianza della nipote Pia Clotilde: «Ricordo le parole rivoltegli dal Card. Gamba poche ore prima della sua morte: “Canonico, la Consolata che ella ha servito per quarantatre anni, è sulla soglia del Paradiso che lo attende”. Ed egli sorrideva guardandone l’effigie» (Processus Informativus, II, 941, 929).

 

 

IL CAFASSO DIEDE UN GRAN COLPO AL GIANSENISMO

 

Per comprendere pienamente l’azione del Cafasso contro il rigorismo morale, è necessario tenere conto del suo insegnamento sulla speranza e confidenza in Dio. Come maestro di teologia morale, il Cafasso ha seguito la dottrina di S. Alfonso ed ha lottato con tutte le forze contro il Giansenismo. In pratica, in campo di giudizio morale, ha abbracciato la “benignità” e la “misericordia”, ripudiando la ”durezza” e la “rigidità”. Questa sua prerogativa è stata universalmente riconosciuta ed, effettivamente, è uno dei suoi meriti principali come maestro del clero e guida di coscienze. Uno dei testimoni al processo ha deposto che la speranza del Cafasso fu l’arma con cui «diede un gran colpo al Giansenismo» (L.N. DI ROBILANT, San Giuseppe Cafasso, Ed. Santuario della Consolata, Torino 1960, p. 74).

 

L’Abate L. N. Di Robilant, nella biografia, scritta su incarico dell’Allamano, ha un capitolo intero su questo argomento, intitolato: “Il Giansenismo” (L:N: DI ROBILANT, o.c., pp. 74 – 99). In esso, oltre alle testimonianze, riporta molte espressioni del Cafasso in difesa della “benignità” e contro il “rigorismo” morale. Ecco le parole stesse del Cafasso: «Queste anime il diavolo non le può vincere con gli allettamenti del mondo, e guarda di superarle con chiudere il loro cuore; […] l’uomo tanto fa quanto spera, la speranza è quella che dà la vita, e non è meraviglia, se si vive male quando si spera poco» (L:N: DI ROBILANT, o.c., p. 75).

 

 

L’ALLAMANO EREDITÒ LO SPIRITO DEL CAFASSO

 

Al Fondatore piaceva questo capitolo sul Giansenismo della biografia dello zio. Nel suo manoscritto per la conferenza sulla “Speranza” del 3 novembre 1912, annota: «La speranza e confidenza in Dio fu la caratteristica di D. Cafasso. Basta leggere il capo della di lui vita sul Giansenismo» (Conf. IMC, I, 455). E nello svolgimento è stato altrettanto preciso: «Così possiamo dire del Ven. Cafasso per la speranza e confidenza in Dio. Questa è la sua virtù specialissima, la sua virtù eroica. Rileggete quel capitolo della sua confidenza in Dio, dategli uno sguardo» (Conf. IMC, I, 557). Notiamo che il capitolo del Di Robilant sul “Giansenismo” per il Fondatore è diventato il capitolo sulla “Confidenza in Dio”.

 

Che cosa significhi questo atteggiamento del Cafasso lo ha spiegato il Fondatore alle suore, in un modo elementare, nella conferenza del 15 dicembre 1918 sulla “Speranza e confidenza in Dio”: «La caratteristica del Ven. Cafasso era la confidenza, perciò egli combatté molto il Giansenismo. Il Giansenismo era destinato a scoraggiare le anime. Allora si diceva: Andare alla Comunione? Ah! Guai a te; e se si facesse una confessione, una Comunione mal fatta? – E così con quelle paure, con quei timori, allontanavano la gente dai Sacramenti. Il nostro Venerabile era destinato a staccare le ultime tracce del Giansenismo in Piemonte» (Conf. MC, II, 442).

 

Anche con gli allievi missionari il Fondatore ha trattato questo aspetto nella conferenza del 22 agosto 1915 su “Fede – Speranza – Carità”: «Possiamo farci santi e non dobbiamo aver paura di sperare molto. Il carattere del Venerabile era la confidenza in Dio. E l’ho deposto anch’io nei processi. Il Signore voleva cancellare per mezzo suo gli ultimi avanzi del giansenismo e perciò lui aveva questa virtù e ne aveva tanta da infonderla anche negli altri, e l’infondeva anche nei disperati, e lui li faceva andare dritti in Paradiso» (Conf. MC, II, 339). Di questo influsso positivo del Cafasso si erano accorti anche a Roma. Il Fondatore, parlando alle suore, ha riportato il pensiero ammirato del Card. G. Van Rossum, Prefetto di Propaganda Fide: «Mi disse che Don Cafasso è il S. Alfonso del Piemonte» (Conf. MC, II, 539).

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