Zio e Nipote

 

ZIO E NIPOTE: CAFASSO E ALLAMANO

LETTURA PARALLELA DELLA SPIRITUALITÀ

DI DUE UOMINI DI DIO

 

Cafasso003Il beato Giuseppe Allamano iniziò da giovane una graduale scoperta della santità dello zio materno, S. Giuseppe Cafasso, che andò approfondendo con gli anni. Ecco come lui stesso spiega questa felice esperienza: «Fin dalla prima età, al sentir parlare così bene in casa e dai compaesani del Cafasso come di un sacerdote modello e caritatevole, lo ammiravo; questa ammirazione aumentò quando, trovandomi all’oratorio salesiano per gli studi ginnasiali, lo udivo proposto come modello da Don Bosco. In seguito, da chierico, per il maggiore contatto con i sacerdoti della diocesi, si accresceva sempre più la mia stima verso il Servo di Dio. Fatto poi sacerdote nel 1873, per l’accresciuta comunicazione con i sacerdoti, massime al convitto, ove andavo per udire le conferenze, appresi a stimarlo ancora di più».

 

È certo che da questa esperienza l'Allamano fu profondamente segnato sia come uomo che come sacerdote. Gli fu facile convincersi che sarebbe stato un grande dono alla Chiesa di Torino, e non solo, diffondere la conoscenza della santità del Cafasso. Dietro consiglio di esimi sacerdoti, tra cui Don Bosco, raccolse e ordinò tutte le possibili testimonianze, di modo che non si perdesse nessuna notizia dello zio. Inoltre, lui stesso incominciò a stenderne una biografia, riempiendo 33 fogli protocollo, che però non si sentì di continuare. La ragione, come lui stesso ammise, era «il vedermi incapace di ben esprimere la stima e la venerazione che osservavo in quanti l’avevano conosciuto».

 

Iniziative dell'Allamano per fare conoscere il Cafasso. Convinto com'era della santità dello zio, l'Allamano intraprese ben presto una serie di iniziative per diffonderne la conoscenza. Iniziò curando personalmente l’edizione delle meditazioni e delle istruzioni che il Cafasso aveva tenuto ai sacerdoti durante gli esercizi spirituali (1892-1893): Scrisse nell'introduzione: «Nutro fiducia d’aver fatto cosa gradita ed utile ai venerandi colleghi nel sacerdozio, e così di poter cooperare in qualche modo alla continuazione del bene fatto dal venerato mio zio nella sua missione provvidenziale a vantaggio del clero». Continuò con la pubblicazione di due biografie del Cafasso, una redatta dal can. Giacomo Colombero (1895) e un'altra dal teol. Luigi Nicolis di Robilant, uscita postuma nel 1912. Infine, si interessò per la traslazione della salma dal cimitero al santuario della Consolata (1896).

 

L'iniziativa per eccellenza, che comportò un superlavoro per l'Allamano, fu la causa di beatificazione del Cafasso, iniziata il 16 febbraio 1895 presso il tribunale ecclesiastico di Torino e trasferita a Roma nel 1899. Senza esserne il postulatore, in pratica l’Allamano fu il motore che faceva funzionare tutto. Sensibile e attento com'era, si rendeva conto che, come nipote, poteva dare l’impressione di agire spinto da ragioni di sangue. Ovviamente non era questo il suo spirito, come spiegò ai suoi giovani missionari: «Ho introdotto questo processo, posso dire, non tanto per affezione o parentela, quanto per il bene che può produrre l’esaltazione di questo uomo, affinché quelli che leggeranno le sue virtù, divengano bravi sacerdoti, bravi cristiani e voi bravi missionari». Ritornò, in seguito, sullo stesso concetto durante la discussione della causa: «Io, come parente, dovrei neppure occuparmene, e non è questo lo spirito che mi spinge; io lo faccio come rettore del convitto per cui, essendo succeduto a lui nell’insegnamento e nella direzione del clero, è mio dovere segnalare al clero le virtù e la santità del Cafasso».

 

Quando il Cafasso venne beatificato, il 3 maggio 1925, l'Allamano sentì di avere svolto la missione che Dio gli aveva ispirato. Poté essere presente alla solenne cerimonia nella basilica di S. Pietro a Roma. Merita leggere la testimonianza di quell'evento scritta dal Can. Nicola Baravalle, anche lui presente: «Il giorno della beatificazione fu per il Can. Allamano una fatica immane per la sua salute precaria. Pure prese parte alla funzione del mattino e poi del pomeriggio come trasfigurato senza dimostrare stanchezza né fatica. I suoi occhi guardavano pieni di lacrime la gloria del Cafasso e poi si chinavano in ardente preghiera curandosi poco o nulla della folla e dei dignitari che presenziavano. Non è possibile descrivere la scena della presentazione ufficiale dell'Allamano al Santo Padre Pio XI. Uscito il Santo Padre una turba enorme si accalcò non per vedere uno dei miracolati presenti, ma piuttosto per avvicinare il nipote del beato del quale i giornali avevano ripetutamente parlato. Trasportato da una marea e spinto in tutti i modi egli sorrideva, benediceva e ringraziava per tante dimostrazioni alle quali non poteva sottrarsi. Nessuno ha goduto come lui quella giornata».

 

Il Cafasso proposto come modello di vita. Prima che agli altri, l’Allamano propose a se stesso il Cafasso come modello di vita cristiana e sacerdotale fino alla santità. Quanti ebbero la fortuna di conoscere entrambi non dubitarono di affermare dell’Allamano che era un “Cafasso redivivo”. Il beato Luigi Boccardo, che l'Allamano aveva scelto come direttore spirituale al convitto ecclesiastico, affermò: «Si potrebbe ripetere di lui, quasi alla lettera, quanto fu scritto del suo beato zio”». Lo stesso Sommo Pontefice Pio XI, nel Breve Apostolico del 5 agosto 1923, documento ufficiale con il quale esprimeva la propria partecipazione al giubileo sacerdotale dell'Allamano, dopo avere sottolineato le benemerenze per l'educazione del clero, non dubitò di affermare: «In te, infatti, pare abbia lasciato erede del suo spirito l'illustre zio Giuseppe Cafasso».

 

Merita, perciò, lasciarci prendere dalla curiosità e approfondire questo tema: come l'Allamano ha saputo comprendere e personalizzare i principali valori della spiritualità del Cafasso. È davvero stimolante leggere in parallelo la spiritualità di questi due santi sacerdoti. Tanto più che l'Allamano non ha tenuto per sé la spiritualità del Cafasso, ma l'ha trasmessa a quanto avvicinava nel suo ministero, soprattutto ai suoi missionari e missionarie. Sono attuali le parole che l'Allamano indirizzò loro per scritto appena tornato da Roma dopo la beatificazione: «Il Beato Giuseppe Cafasso è pure nostro speciale Protettore e come voi dite “vostro Zio”, e come tale lo dovete onorare e imitarne le virtù. Egli in Paradiso vi farà da potente intercessore e, così ardente della salute delle anime, vi aiuterà nel lavoro della missione».

 

Tra il Cafasso e l'Allamano è facile scorgere una buona sintonia praticamente su tutto ciò che riguarda la spiritualità. Sappiamo che fu il nipote a scrutare con curiosità e simpatia la personalità della zio, assumendola in grande misura. In certo senso si può dire che nell'Allamano rivivono molti elementi dell'identità cristiana, sacerdotale e apostolica del Cafasso. Ciò lo si nota con facilità sia nella vita personale dell'Allamano che nel suo insegnamento. Vediamo come, facendo alcuni esempi su temi di particolare interesse.

 

Il vertice della sintonia tra i due uomini di Dio. L’intesa tra il Cafasso e l’Allamano ha un vertice, che mi pare esattamente espresso dal noto principio caro ad entrambi, cioè: “fare bene il bene”. Questo principio, se seguito con coerenza, porta dritto alla santità. È certo che il Cafasso non insegnò una via straordinaria per tendere alla perfezione cristiana, ma solo un cammino coerente al vangelo. Ecco come si esprimeva in una meditazione ai sacerdoti, nel suo simpatico italiano dell'800: «Pochi di noi sono chiamati ad azioni straordinarie, e poi anche chiamati queste cose straordinarie e rare non possono dare il carattere e formare la tessitura della nostra vita; e che gioverebbe finalmente far bene e perfettamente un’opera in sé eroica, se passata quella si facessero poi mediocremente le altre? Chi aspira ad essere un sacerdote santo e perfetto non pensi a fare cose grandi, e straordinarie, ma o grandi o piccole che esse siano pensi solo a farle bene, e con ciò solo sarà perfetto. Le opere grandi sono poche, e pochi sono chiamati a farle, ed è alle volte una grande e funesta illusione voler tendere a cose grandi e frattanto si trascurano le comuni, le ordinarie».

 

C'è ancora un dettaglio nel pensiero del Cafasso che sarebbe un peccato sorvolare. Così lo spiega lui stesso: «Vi sono dei Santi assai grandi davanti a Dio, la vita dei quali è stata oscura, e nascosta, le cui azioni nulla hanno avuto di strepitoso e di mirabile, né di essi il mondo ha parlato. Erano grandi per la loro santità, ma tutta la loro santità era ristretta in cose piccole. Erano grandi per la loro umiltà, e la loro umiltà li portava sempre ad eleggere gli ultimi impieghi, e le azioni più basse». A volere essere sintetici, si può dire che per il Cafasso “la santità non fa rumore”.

 

Il pensiero del Cafasso aprì alla mente dell'Allamano un orizzonte molto ampio. Se ne impossessò subito, lo rese concreto e lo trasmise con convinzione a quanti avvicinava. Ecco il suo discorso, semplice e franco, ai primi giovani che si preparavo per la missione, pochi mesi dopo l'inaugurazione della casa madre: «La forma che dovete prendere nell’Istituto è quella che il Signore m’ispirò e m’ispira, ed io voglio assolutamente che l’Istituto si perfezioni e viva vita perfetta. Sono d’avviso che il bene bisogna farlo bene; altrimenti fra tante mie occupazioni non mi sarei sobbarcato ancora questa gravissima della fondazione di sì importante Istituto». Queste parole, pronunciate da un Allamano cinquantenne, quindi nel pieno della propria maturità di uomo e di sacerdote, dimostrano quanto fosse in sintonia con lo spirito del Cafasso su questo punto fondamentale. “Il bene fatto bene”, come cammino verso la santità, divenne quasi un ritornello nell'insegnamento dell'Allamano. Ripropose più volte la stessa idea, quasi per chiarirla meglio: «I miei anni sono più pochi, ma fossero pur molti, voglio spenderli in fare il bene e farlo bene; io ho l’idea del Venerabile Don Cafasso, che il bene bisogna farlo bene e non rumorosamente». Come si vede, anche l'Allamano era dell'idea che “la santità non fa rumore”. E applicava questo criterio anche all'attività missionaria dell'Istituto: «Nel nostro piccolo, faremo il bene senza rumore. Ciascuna Comunità ha il suo spirito».

 

Per spiegare in concreto che cosa significa “fare bene il bene”, l'Allamano si rifece ancora all'insegnamento dello zio: «Qual è il modo, i mezzi per fare tutte le cose bene? Vediamo i pensieri del Venerabile Cafasso per passare bene la giornata. E se si passa bene la giornata, si passano bene anche le settimane, i mesi, gli anni». E poi spiegava: «Ecco i quattro suggerimenti del nostro Cafasso: fare ogni cosa come la farebbe lo stesso Signore Gesù Cristo; compiere le nostre azioni come vorremmo averle compiute quando ce ne sarà chiesto conto al tribunale di Dio; fare ogni cosa come se fosse l'ultima della nostra vita; e, infine, come se non ne avessimo altre da fare».

 

Il loro modello per eccellenza. Il Cafasso non inventò il principio del “fare bene il bene”, ma lo dedusse semplicemente dal Vangelo. Il suo ragionamento, valido per tutti i cristiani e non solo per i sacerdoti, era di una linearità ineccepibile: chi vuole seguire Gesù Cristo deve ispirarsi direttamente a lui, che è il modello per eccellenza di ogni virtù. Ed ecco l'applicazione pratica per i sacerdoti: «Nel nostro ministero rappresentiamo la persona di Gesù Cristo; operiamo per lui, ed in vece sua, di modo che dobbiamo procurare dal canto nostro di far quelle azioni in quel modo che le farebbe lo stesso Gesù Cristo; di modo che di un sacerdote si possa dire in proporzione quello che si diceva del figliuol di Dio: che ha fatto bene tutte le cose». Qui il Cafasso si riferiva all'episodio della guarigione di un giovane sordomuto, narrato dall'evangelista Marco, di fonte al quale la gente piena di stupore esclamò: «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e parlare i muti!» (Mc 7,37).

 

L'Allamano colse dallo zio la stessa fonte di ispirazione. Anche per lui questo testo di Marco divenne una cavallo di battaglia per insegnare ai suoi giovani ad agire sempre con correttezza. Mi limito a riportare quanto disse ai missionari nella conferenza del 3 settembre 1916, perché riassume bene il suo pensiero: «Nel santo Vangelo si racconta il miracolo operato da Gesù della guarigione di un sordomuto. A questo fatto le turbe meravigliate esclamarono: “fece tutte le cose bene”. Pare che come conseguenza dell'accaduto, dovessero dire: fece cose grandi, miracolose... No, ma: fece tutto bene! Con queste tre parole fecero il miglior elogio, affermando che Gesù non solo nelle cose straordinarie, ma anche nelle ordinarie e comuni faceva tutto bene. Vediamo come veramente Nostro Signore in tutta la sua vita fece bene ogni cosa; per poi vedere se noi pure, imitandolo, facciamo tutto bene». Questo tipo di ragionamento era ricorrente nell'insegnamento dell'Allamano, al punto che un giorno ebbe il coraggio di fare questo augurio ai suoi giovani pieni di vita, senza temere di turbarli: «Sulla vostra tomba, quando morirete, bisognerebbe poter scrivere: ha fatto tutto bene!».

 

Una virtù che li accomuna e caratterizza. Soprattutto in un aspetto il Cafasso e l'Allamano si rassomigliarono in pieno. Entrambi erano gli “uomini della speranza”. Si può dire che la speranza era il loro DNA. E non si trattava solo di una dote umana, connessa con la loro forte personalità contadina, perché la speranza che vivevano e insegnavano era una squisita virtù soprannaturale, infusa dallo Spirito e da essi tenacemente sviluppata. Disse l'Allamano del Cafasso: «La speranza fu da lui esercitata in modo specialissimo, fu anzi la sua virtù caratteristica: Aveva tanta speranza da infonderla anche nelle anime disperate». Veramente il Cafasso era ritenuto dai suoi contemporanei il “santo della speranza” o, come disse Don Bosco: «La speranza era chiamata la virtù di Don Cafasso. Egli aveva il dono di cambiare la disperazione in viva speranza».

 

Il Cafasso era dispiaciuto che persone buone spesso si lasciassero sopraffare dalla diffidenza. Spiegava: «Queste anime il diavolo non le può vincere con gli allettamenti del mondo, e cerca di superarle con chiudere il loro cuore; l’uomo tanto fa quanto spera, la speranza è quella che dà la vita, e non è meraviglia, se si vive male quando si spera poco». In modo piuttosto drastico, spiegava che la mancanza di speranza e di confidenza in Dio è «un peccato da folli».

 

Questo modo di ragionare dello zio piacque tanto all'Allamano. Questo fu il suo commento: «Il Venerabile Cafasso chiama la mancanza di confidenza in Dio il peccato dei folli: perché non confidare? Persuadiamoci che Gesù è morto per noi. Possiamo sbagliare, ma non stiamo lì melanconici. Noi siamo folli se abbiamo diffidenza; bisogna sperare molto». E concludeva: «Non dobbiamo aver paura di sperare molto. Non si spera mai troppo».

 

Un discorso che non finirebbe. Se volessimo riflettere su tutti i punti di sintonia tra il Cafasso e l'Allamano dovremmo continuare ancora per molto. Non si esagera nel dire che, dopo Gesù e la Madonna, il Cafasso fu il modello di vita più seguito dall'Allamano. Basta esaminare le sue conferenze, per rendersi conto quante volte e con quanta spontaneità egli si riferiva allo spirito dello zio. Non c'è spazio per seguirlo in questo percorso, ma mi piace almeno fare due esempi.

 

Riguardo la pietà mariana: «Come pure Don Cafasso diceva spesso, specialmente in confessionale, “Ricordatevi che avete anche una seconda Madre, Maria, che vi ama molto più che non la prima; s’intende però che non le prende il posto”. In una madre si ha fiducia, le si vuole bene». Ancora: «Don Cafasso diceva ai suoi sacerdoti: quando andate a predicare, associatevi con la Madonna. Andate a predicare tutti e due, e dite così: io farò la voce, Tu farai la predica. Egli diceva che la Madonna era la sua socia. Tra tutti e due facevano tutto. Diceva che l’aiutava a far del bene. Otteneva la grazia, perché la predica si imprimesse nei cuori. Io veramente volevo togliere questa parola “socia”, eppure è lui che l’ha detta».

 

Riguardo la comprensione del Mistero Eucaristico troviamo che nel Cafasso e nell'Allamano passava la stessa corrente. Del Cafasso un sacerdote lasciò detto: «Celebrava da santo. Io lo guardavo ed ero quasi fuori di me per la meraviglia nel vederlo con un’aria così bella che m’incantava». E dell'Allamano un laico che gli serviva la S. Messa: «Quando celebrava sembrava un angelo. All'elevazione era mia abitudine guardarlo, perché gli veniva sempre un sorriso sincero come se sorridesse a qualcuno». La gente si accorgeva che erano sacerdoti con la stessa passione eucaristica.

 

Chiudo riferendo la reazione dell'Allamano quando, durante l'accademia in onore del Cafasso dopo la beatificazione, gli fecero notare che ormai lui «era rimasto l'unico erede del suo sangue». Questa frase impressionò, perché con accento convinto e commosso disse: «L'essere erede del suo sangue per me è un'umiliazione». Per noi, invece, è un onore.

giuseppeallamano.consolata.org