MORTIFICAZIONE ESTERNA

14 marzo 1915
Quad.X, 18- 20
Dom. IV di Quaresima
Della mortif. esterna
La mortificazione è il secondo mezzo indicatoci da N. S.G.C, per vincere le battaglie contro la S. Castità: in jejunio. Con questa parola i Santi ed i maestri di spirito intesero sempre la mortificazione del corpo e dello spirito. La S. Chiesa nella Liturgia della Quaresima, specialmen­te nelle Orazioni e nel Prefazio ci spiega a questo modo il digiuno qua­resimale (V.).
Oggi parliamo della mortificazione esterna dei sensi del corpo, co­me mezzo per conservarci casti. In tutti i tempi si praticò questa morti­ficazione, in antico ed anche al presente; non solamente presso gli ere­mi ed ordini penitenti ma in quante persone vogliono vivere da buone cristiane e più da pie e religiose. Anche al presente vi sono nel mondo persone che portano cilicii, si danno la disciplina e castigano il proprio corpo, come faceva S. Paolo: castigo corpus meum et in servitutem re­digo. Il nostro corpo è un cavallo sbrigliato; guai a non frenarlo. Anche e forse più al presente pei maggiori incentivi: caro concupiscit adversum spiritum. Ci vuol certamente prudenza in cose gravi, e consiglio per non danneggiare la sanità, ed anche per certe eccessive sensibilità cor­porali, ma ciò posto, e poi sempre nelle piccole mortificazioni corporali la salute non solo non ne soffre, ma ne guadagna, come i Santi peniten­ti che vissero più di 100 anni; ed i medici stessi trovano salutare il digiu­no quaresimale e la astinenza dalle carni alcune volte nella settimana.
Veniamo ai sensi particolari. Il nostro corpo più prospera se si tie­ne sobrio e si nutre di cibi volgari. Esempio Daniele ed i compagni. Di­ce lo Scaramelli: il voler trattare delicatamente il nostro corpo, e pensa­re che non calcitri, è una stoltezza. S. Gerolamo repugnantem spiritui carnem hebdomadarum inedia subjugabat. Un medico (presso il Dubois) si stupiva come potessero conservarsi casti certi sacerdoti che ve­deva sì frequenti ai festini...
L'uso dei liquori è dannoso alla salute, ed alcuni governi li proibi­scono, e sono incentivo all'incontinenza; così il molto vino. Società di temperanza. Permettetemi che vi dica ciò che per esperienza penso; nel­le comunità religiose più che nelle case private si manca nel vizio della gola. Il demonio tenta in ciò per vincere in altro. Non conscii delle spe­se che costa il vitto, e sotto lo specioso pretesto di conservarsi sani e ro­busti, si mangia più del necessario, si cercano preferenze; se ammalati si è incontentabili... Questo è un dolore dei superiori che vedono i sogget­ti troppo solleciti del mangiare e mai contenti. Eppure pel voto di po­vertà dovrebbero star contenti del puro necessario ed ancor godere di mancare di qualche cosa. Quanta materia di Purgatorio, e non sia d'in­ferno. Comparve una suora dopo morte, ed interrogata (dicendosi in Purgatorio) per qual cagione le religiose andassero più in purgatorio, rispose: pel vizio della gola e per le tante sollecitudini per contentarla. S. Bonaventura dà ottime norme: Ne comedas ante tempus (neppur col pensiero); vel saepius quam decet (more pecudum), ne nimia aviditate et impetu quodam vores (sicut lupi et cani famelici); — ne te nimium impleas (alioquin non te reficis); — ne nimis lauta quaeras et exquisita (Piae lect. p. 252).
Quanto al senso della vista, ricordate il patto di Giobbe co' suoi occhi. E qui intendiamoci bene. Non si può, né si deve fuggire le don­ne, che sono pure creature come noi; e voi in missione dovrete lavorare insieme. È ammirabile il contegno di S. Luigi, ma non in tutto da pro­porsi a voi. Ciò che dovete sempre fare si è di non fissare in faccia, ma guardare semplicemente e con indifferenza come fanno gli occhi mode­sti; nel parlare poi colle medesime dobbiamo essere brevi secondo il bi­sogno, e con discorsi e parole serie, non di cose inutili e con parole sdol­cinate. S. Agostino: cum foeminis sermo brevis et rigidus, cioè serio se­condo il Ven. Cafasso. Accostumiamoci a non voler vedere tutto per cui passiamo, acquistato l'abito di mortificarci anche nel non vedere cose lecite, saremo pronti a ritirare l'occhio caduto sulle cose illecite.
Sull 'udito, bisogna non essere curiosi di notizie del mondo, come dei matrimonii ecc. del paese, specialmente in parlatorio: ad majora natus sum; - quid ad me; - sine mortuos, mortuos sepelire.
Della lingua, parlai altra volta. Quanto al senso del tatto, dice S. Giov. Climaco: nil hoc sensu periculosius. S. Paolo: scias vas tuum possidere in sanctificationem et. Il nostro corpo venne santificato dai Sacr. del Battesimo, Cresima, Ordine (pei sacerdoti) e da tante Comu­nioni. Dio e l'Angelo Custode ci sono presenti anche se soli ed all'oscu­ro. Via i baci e le troppe e prolungate strette di mano...
Bisogna assuefare il corpo al freddo ed al caldo, al duro e non alle delicatezze.
P.P. Albertone, quad. VI, 85-91
14 Marzo
La sorella del Ch. Sciolla ha provveduto i [paramenti] per la cappella. E... vanno bene; si usano generalmente bianchi, ma non c'è prescrizioni, e vanno bene anche rossi. E vedete, vivendo di provvidenza il Signore ci pensa. È come in Africa, c'è sempre bisogno di pianete, ma il Signore provvede. Più aumentano le stazioni, più la provvidenza ci pensa a mandare. Tra tutti si fa tutto. Mons. Massaia quando ebbe da consacrare Mons. De Jacobis non ave­va il Pastorale, e dovette usare una canna.
Ma veniamo a noi. Nulla dies sine linea. Abbiamo detto l'altra volta che i mezzi per combattere, e acquistare questa virtù erano l'orazione e il digiuno. Hoc genus demoniorum non ejicitur nisi oratione et jejunium (sic). Della pre­ghiera ne abbiamo parlato l'altra volta, ora del digiuno. Ora appunto siamo in tempo proprio, e pel digiuno della quaresima. Tutte le preghiere del breviario in questo tempo parlano del digiuno, che serve a farci mondi e casti. E la cau­sa è nel Prefazio della quaresima che dice: «vitia comprimit» il digiuno, la mortificazione nel cibo e nella bevanda si comprimono i vizi, e li schiaccia. «Virtutem largiris et premia», ci dà la virtù ed il premio della virtù.
Ma sotto il nome di digiuno si intende la mortificazione in generale del corpo e dello spirito. La mortificazione esterna fu sempre praticata da tutti i santi e non c'è santo che non fosse mortificato. E abbiamo visto nei processi del nostro Venerabile che non si comincia la canonizzazione di un santo, se non si prova che fosse mortificato, così dicono le costituzioni di Benedetto XIV sulla canonizzazione dei santi, che servono sempre ancora adesso.
È necessaria tanto la mortificazione che se non c'è segno di mortificazio­ne non si cominciano i processi. E, vedete, non solo la mortificazione va bene per gli eremiti che vivevano di erbe e legumi, ma tutti gli antichi e presenti tut­ti, senza stare dietro al mondo che dice che non è più tempo, che sono cose di una volta; no, sono cose del presente, e so di una comunità in cui tutti hanno il cilicio. Ma non abbiamo bisogno di andare dove si fa questo ex professo. Ma anche nel mondo questi mezzi sono usati, con prudenza, se no si fa del male alla salute. Ma non van per tutti; ci sono tanti che sono tanto sensibili e a cui non fan del bene. Ci vuole prudenza, e naturalmente il consiglio, ed il permes­so. Ma non bisogna credere che siano cose di altri tempi; se lo erano altre volte lo sono anche adesso. Se noi non siamo capaci, umiliamoci, che tutto questo serve alla santificazione. Ma io voglio parlarvene come vi ho detto come mez­zo contro la castità (sic).
S. Paolo dice: Castigo corpus meum et ad servitutem redigo, ne forte cum aliis praedicaverim, ipse reprobus officiar: Lo soggiogo e lo schiaccio, perché dopo di aver predicato agli altri, non sia io fatto reprobo. E queste mortifica­zioni domano la carne, e la concupiscenza.
Lo Scaramelli dice: Il trattar delicatamente la carne ed il voler poi essere casti è una stoltezza. Il voler essere ben trattati, e poi volersi conservare casti, non è possibile. Spiritus concupiscit adversus caro, et caro concupiscit adversus spiritus (sic). Se uno guadagna un altro perde. Ci vuole dunque stima per tutti questi mezzi di cui si doma il corpo come sono il dormir duro, ecc. Ma ve­niamo al particolare; alla mortificazione dei sensi.
Gusto. Oh, questo gusto. Vedete che cosa si dice di S. Girolamo: Repu-gnantem spiritui carnem hebdomadarum inedia subjugabat. Stava in peniten­za per delle settimane per domare lo spirito che ripugnava alla carne. Quando era a Bethlem quanta penitenza ha fatto. E si ricordava di mangiare solo per star vivo e si percuoteva il petto con un sasso, eppure veniva turbato anche al­lora, e anche allora gli veniva in mente quello che aveva visto a Roma, e lui per essere sicuro faceva penitenza.
Dubois dice: Quando io vedo dei parroci così frequenti ai festini, oggi, domani, ecc. non posso comprendere come possano conservare la castità. In vino luxuria. Così chi mangia troppo, la carne ricalcitra. Vedete, questo medi­co dice così. E poi si sta anche meglio di salute. Abbiamo l'esempio di Daniele che per riuscire a star meglio, anche pel corpo domandava all'eunuco che l'aveva in custodia di essere nutrito con soli legumi, per non mangiare le carni offerte agli idoli, e prometteva di stare anche meglio di corpo. E l'eunuco ha fatto la prova e ha visto che sia lui sia gli altri suoi compagni che facevano co­me lui, erano formosiores, et corposiores, una parola di questo genere, per di­re che erano anche meglio formati di corpo degli altri. Dunque non mangiare delicatamente. Si legge di certi eremiti che con tutte le loro penitenze vissero fino a 110, 120 anni. S. Bonaventura diceva queste cose. Ne comedas ante tempus. Non mangiare prima del tempo; e neppure pensarci. Ci sono di quelli che non possono stare senza avere sempre qualche cosa in bocca, non possono stare se non hanno sempre il loro caffè, ecc. Quando hanno da tardare la mes­sa, pare la fin del mondo; e, via, anche fare un piccolo sacrifizio, bisogna esse­re capaci. Dunque: Non prima. Vel saepius quam decet. Non mangiare più spesso di quello che convenga, e, dice, more pecudum. Proprio come le pecore che vanno e vengono, un po' di qua e un po' di là, hanno sempre qualche cosa in bocca. Nec nimia aviditate, et impetu quodam vores sicut lupi et canes fa­melici. Non come lupi che divorano; ma con calma e a posto; non come le be­stie. E quando si ha molto appetito si deve andare ancor più adagio per morti­ficarsi un poco. Nec te nimium impleas. Non fare come i Kikuiu che mettono giù tutto quello che hanno, e poi per tre giorni non mangiano più. Alioqui te non reficis; chi mangia più di quello che deve, e certo non gli fa bene. Tanto ha mangiato e tanto... Il cibo si prende perché stia nel corpo con tranquillità sia assorbito, per sostenere. Chi mangia troppo, come ha mangiato, così... sempre furgiunare si diventa tanti tubi. Ci sono alcuni che se non si riempiono finché ce ne sta, non sono contenti. E no! non reficis.
Ne nimis lauta quaeras et exquisita. Non cercare le cose laute e squisite;
ma qui siete in comunità e non è troppo il caso. Ma qualche volta tuttavia non si è in comunità, e dovete comportarvi così. E così quando sarete sopra il ba­stimento dovete usare lo stesso contegno; e se non imparate fin di qui, a fare le cose secondo la regola. Farete poi spropositi se non imparate. Specialmente uno non avvezzo a servirsi da sé, fa come si dice, come i frati: vindicta fratruum. Non si pensa che ci sono anche altri che debbono servirsi, e può succe­dere sul bastimento; si mangia quattro volte al giorno, ma come diceva il sig. Vicerettore, non sono piatti enormi, massime ciò che circonda la carne. E per­ciò non bisogna tirar giù come se non ci fossero altri, se non il domestico è ob­bligato ad andare a prendere dell'altro. Così è della frutta, ce ne sarà uno caduno, e chi ne pigliasse due o tre, o anche cinque, per mettere in tasca, per mettere in saccoccia!? e arriva che, non è come qui che il formaggio si mette sulle paste, là si dà in tavola, bisogna essere discreti, se ne piglia un poco. E chi ne pigliasse uno, due, tre cucchiai? getta lì dentro! Sono piccole cosette ma se non state attenti farete poi fare brutta figura anche all'Istituto. Non sono mica cose non mai avvenute... sono cose possibili. Se no la gente dice: quello lì è delicato, ma quel là... Non credere che i kikuiu non distinguano fra padre e padre. Bisogna stare attenti anche qui. Possono succedere. Quel frate che si racconta che si serviva sempre l'ultimo per umiltà, e invece si serviva l'ultimo, ma prendeva tutto quello che rimaneva. E così è passato il formaggio, che se ne piglia sempre un pezzettino, e l'ha preso tutto. E vedete, non mi stupirei che fosse accaduto. Che se qualcuno di voi mi facesse di questi gesti... C'era qualcuno che non badava mai se c'erano altri ed altre pietanze, e così pigliava molto a principio e faceva stare senza gli altri, e poi non pigliava più. E gli al­tri hanno detto: Qualche volta gliela faremo vedere. E così hanno preso tutto e hanno lasciato il piatto vuoto; e l'hanno mortificato ed emendato. Che non succeda fra di noi. Bisogna mangiare per vivere. Perché c'è molto bisogna mangiare molto? No; il necessario, e basta. Nelle case in generale si dice: «Oh, tanto questa roba va in malora, bisogna mangiarla». Niente affatto, se si mangia al posto di altro che si mangerebbe, sì; ma se si mangia solo tanto per­ché non vada in malora, e non ce n'è bisogno, è meglio che vada in malora. Queste cosette appartengono alla delicatezza, ma anche a questa virtù. Dun­que non mangiare fuori pasto, e a pasto non eccedere e pensare che questo ci avvicina alle bestie.                   & nbsp; 
Vista. Superbia oculorum. E un'occasione grave per la castità. Vedete che cosa diceva Giobbe: pactum pepigi cum oculis meis, ne unquam cogitarent de virgine. Di non pensare mai a nessuna donna, nessuna vergine. Ma, dico­no, che cosa ha da fare questo cogli occhi? Parrebbe che non vada. Gli occhi non pensano. Sì, ma gli occhi sono le finestre, sono le porte per cui entra il pensiero, la concupiscenza. Se vogliamo non esserne disturbati, bisogna tener­li a posto. E come si tengono a posto? Chiusi? Di S. Luigi che era stato tanto tempo al servizio della Regina di Spagna, come paggio, eppure non sapeva co­me fosse fatta. E così anche di sua madre, non l'aveva mai guardata in faccia. Sono esempi da non disprezzare, ma non si può sempre imitarli. S. Agostino dice: «Etsi oculi mei... vedano, figantur tamen in neminem». Non fissare. E così se qualche cosa mi fa impressione, li ritiro. Si va alle volte per Torino, che voglia è questa di vedere tutto... E una curiosità morbosa. Fotografie, giorna­li. Come fa male vedere anche certi preti; e stanno là, ci darei due schiaffi!... E dicono: «tanto per vedere...». Neppure! Non va neppure per i secolari, e si ferma un prete! Una buona madre di famiglia ha veduto suo figlio così, e non l'ha più lasciato andare da solo. Basta un'occhiata anche rapida per avere ten­tazioni per tutta la vita. Ah, se avessimo mai visto! Bisogna guardare con in­differenza. Etsi oculi mei jaciantur in aliquo, figantur tamen in nemine. Non fissare. Cosi l'impressione va via, passa più facilmente. Quei là antichi si chiu­devano, per non vedere, ma noi che abbiamo da vivere. Dunque stiamo atten­ti; ma un mezzo migliore per la padronanza di sé, è di non volere guardare tut­to quanto quello che è lecito di guardare. Non si muore se non si guarda. Fate­lo questo sforzo. Non voglio guardare; così guardare poco per volta. Se que­sto si fa nel buono, si è sicuri che nel resto che non è buono non si avrà da te­mere tanto; ma se si vuole guardare tutto, quello che è lecito, certo che ... Non essere curiosi. In quanto poi alle donne. Ecco, vedete, Suor questa o quell'al­tra, per voi è tutto lo stesso. E come si chiami. Suor Paola e Suor Antonia, fa tutto lo stesso per voi, non dovete saperlo, voi dovete chiamare la suora. E poi il puro necessario. Colle donne e colle suore; sermo vester sit brevis et rigidus. In Africa ci sarà bisogno di trattare colle suore, ma brevemente e rigido, il ne­cessario; duro, non dico non caritatevole, ma breve e serio. Così voi non dove­te sapere che si fa di là (dalle suore). Parole necessarie, non melate, non sgra­ziose, e basta, serie. E così anche in Africa, il puro necessario come anime del purgatorio, che hanno paura di bruciarsi, e siamo di terra. Non vorrei poi che per paura di vedere una suora... si andasse agli eccessi, son creature come noi. Vedete, S. Agostino non ha voluto in casa sua nipote, non tanto per sua nipo­te, quanto perché se ci veniva sua nipote sarebbero venute anche altre donne. In parlatorio poi, bene, si, ma non è necessaria tutta quella espansione. Ba­ciarsi... Se si può farne a meno, è meglio. Non si offendono mica, si edifica­no. Che bisogno c'è di baciarsi, ma, poco a poco. Non dico che sia un male baciare la mamma, ma va tanto male in certi parlatori, baci di qua, baci di là, e così per le mani, che voglia di toccar la mano. Mi pare che anche in questo c'è il modo... un santo avrebbe un certo riserbo. Non sono cose cattive, ma tuttavia... vedete, il diavolo fa venire l'idea che quella è solo una cugina, sì ma è sempre una donna. Alle volte si dice: «Sì, ma è tanto brutta e vecchia...» — Sì, ma alle volte turba più ancora. Questo è delicato, ma volevo dirvelo, non per mettere degli scrupoli, ma solo perché abbiamo del riserbo. Quando ven­gono i parenti, che necessità di sapere tutto quanto del paese, matrimonii, ecc. per i ragazzi pazienza, ma voi, non è il caso di sapere queste cose. Più ci occuppiamo di queste cose, più ne avremo la testa piena e il diavolo, ne mette al­tre ancora. Certo non possiamo non dire che siano creature come noi, e che ce ne siano delle sante, e la Madonna per la prima, ma modus in rebus.
Riguardo l'udito, non essere troppo curiosi, non essere di quelli che van­no sempre per radunar notizie. Per fortuna non sapete cosa fanno adesso, non leggete giornali, e neanco io, ecc., romanzi e fattacci, che empiono la testa, tuttavia fa anche per voi. Che bisogno di sapete tante storie...«Unusquisque sciat vas suum possidere in sanctificationem».
Il tatto. Se siamo in grazia di Dio il nostro corpo è tempio vivente di N. Signore Gesù Cristo, e rispettiamoci. S. Giov. Climaco diceva: Nil hoc sensu periculosius. Nulla è più pericoloso di questo senso. Delicatezza, attenti, Dio è presente. E così riguardo ai compagni, non moine, vicendevolmente non si fanno. Anche per gioco, toccarsi leggermente, non c'è bisogno di gettarsi uno addosso all'altro. Nelle regole fatte da Mons. Gastaldi c'era che fra l'uno e l'altro ci fosse sempre un cubito. E poi nessuna amicizia particolare. Quanto a vini e liquori non parlo; vino è lussuria. Ho trovato un foglietto che diceva che c'è 300 giorni di indulgenza a che (sic) un giorno non beve vino, voglio assicu­rarmi se è vero. Vedete, Dott. Boccasso, Dott. Nicola non bevono vino, anche per riguardo al corpo, non tutti i medici lo fanno per virtù; ma almeno noi, modico vino utere propter stomachum tuum; e voi ne avete tutti bisogno di un poco perché siete tutti debolucci. Ma anche se ne aveste, saprete astenervene, me lo promettete. Si dice: Non sono avvezzo a bere liquori. Vedete, tutte que­ste cose sono tutte cose di istruzione e di esperienza mia. E perché impariate che il corpo si deve tenere a posto. L'anima deve dominare; non il corpo sull'anima. Sapete di S. Bernardo che una volta bevette un bicchiere di olio in­vece di acqua. Non aveva neppure il senso del gusto. Noi non è necessario di venire a quel punto, ma solo che né coi pensieri, né con altro non ci lasciamo dominare. Siamo noi che dobbiamo dominare.
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