CONDIZIONI PER LA CONFESSIONE

14 maggio 1916
Quad. XI, 35- 36
(14 Maggio 1916)
Condizione per ben fare le confessioni ordinarie
S. Alfonso scrive: Chi sa confessarsi, sa salvarsi. Al che soggiunge Mons. Rossi (Man. dei Sem.): altro è sapere, altro è fare: non tutti met­tono in pratica ciò che sanno; quindi non tutti si confessano bene. Mons. Formica Vescovo di Cuneo diceva al P. Bruno: Predicando al Clero insista perché non facciano le confessioni con tanta disinvoltura... S. Vincenzo de Paoli diceva: andate sempre confessarvi con tanta confidenza, che nulla detragga alla riverenza; e con tanta ri­verenza che nulla tolga alla confidenza. — E soggiungeva: bisogna fare ogni confessione come se fosse l'ultima della nostra vita, e dovessimo subito dal Tribunale del Sacerdote presentarci al Tribunale di Dio (P. Bruno).
1) Confessarsi con frequenza. Non parlo della paura di abusarne, come dicevano i Giansenisti. Dico tuttavia che sovente invece di aspet­tare il giorno della confessione con desiderio, si pensa a ciò come ad un peso, e potendo si cerca di ritardarlo per piccole scuse. Inganno! si ri­tarda una grande grazia e si perde il fervore. Non così facevano i Santi come ho già detto. Le Congregazioni Religiose prescrivono ed esortano a confessarsi con frequenza. Gli stessi Filippini, che pure non sono frati si confessano ter in hebdomada. I nostri missionari se lo potessero, quanto farebbero bene a confessarsi più sovente degli otto giorni!
2) Confessarsi con fede. L'elezione del confessore sia in Comuni­tà, come in Missione è fatta dai Superiori a nome di Dio, ed i destinati sono i scelti tra i mille o diecimila di S. Francesco di Sales e del B. Giov. Avila. Bisogna ravvivare la fede, pensando che ci confessiamo a Dio:
Ego te abs., c'è il secreto inviolabile; e poi è un uomo, non un Angelo, forse peccatore come noi. Lo stesso Papa si confessa da un sacerdote inferiore. È in esso qualunque un padre, un giudice ed un medico.
Badiamo di non cambiarlo per falso rossore, ma solo per mancan­za del confessore ordinario.
3) Premettervi serio esame. Non scrupoli, né confessare le virtù od i peccati altrui; ma i proprii, veri, avvertiti e volontari anche piccoli, e per certezza del Sacramento, qualche peccato almeno in specie della vi­ta passata. Dice S. Agostino: Semper confitere, quia semper habes quod confitearis, difficile enim est in hac vita, ut sic homo mundetur, ut nihil inveniat in se quod confiteatur. (P. Bruno).
Il nostro esame sia su tutte le nostre azioni, parole e pensieri, e co­me dice Mons. Rossi, non solamente su due o tre cose solite. Esaminia­mo non solo i peccati (frutti) ma anche i difetti (albero) che talora sono necessarii per l'integrità. Dire la fonte dei peccati p. es. mancanza di ca­rità per motivo d'invidia...
4) Pel dolore o contrizione sapete quale dev'essere secondo il Cate­chismo. Non è necessario sentirlo, ma desiderare di averlo. S. Tommaso: duplex est dolor, unus in voluntate, alius in parte sensitiva. Il solo primo è necessario il quale nil aliud est, quam displicentia peccati praeteriti. In pratica chi lo domanda a Dio e vorrebbe non aver fatto quel male e propone colla grazia di non più commetterlo, stia tranquillo, sebbene tema e si tenga da sé quasi certo di ricadervi.
Mons. La Motte Vescovo d'Amiens per avere il dolore faceva tre stazioni: all'Inferno, al Paradiso, dove nil inquinatum... al Calvario. Ed io aggiungo al Purgatorio, dove usque ad ultimum quadrantem..., e con S. Agostino: eodem igne cremantur damnati et purgantur electi.
Per la remissione bisogna avere il dolore di tute le colpe anche leg-giere, ma non per ciò dobbiamo sempre riconfessarcene. Dice bene S. Tommaso: Poenitentia duplex est: interior et exterior. Prima durare debet usque ad finem vitae, semper enim homini displicere debet, quod peccavit. Es. S. Pietro e S. Agostino. Secunda, qua confitetur sacerdoti absolventi non oportet quod duret usque ad finem vitae, sed usque ad determinatum tempus secundum mensuram peccati, juxta arbitrium sacerdotis. (Scaram. Tratt. I p. 283).
P.P. Albertone, quad. VII, 89-92; 104-105
14 Maggio 1916
La gente vengono in sacrestia alla Consolata a domandare se è vero che la Regina Madre ha promesso un milione alla Consolata se si farà la pace. Ri­spondo che è un desiderio pio... al solito, una diceria... Ha mandato 500 lire giorni sono per i poveri della Consolata. L'ha già fatto quest'inverno e mi so­no venuti in taglio! Quando viene a Torino si ricorda sempre. E ancora una Regina dell'antico stampo. Sa che la Consolata è patrona di Torino e tutti ri­corrono alla Consolata. Per fortuna non è pubblicato, altrimenti mi mettereb­bero in croce... Essi! la pace è un desiderio... Come quel frate che dicono comparso in mezzo ai soldati e che ha detto che la pace si farà ai tredici, gior­no di S. Antonio. E sono andati a chiamare ai Cappuccini, — non sarebbe neppure dei cappuccini, ma dei minoriti — e che sono andati al monte, e han­no fatto radunare tutti i frati, e che non l'hanno trovato ed hanno detto che essi ne sapevan niente. Questo prova il desiderio generale che si ha che ci sia la pace. E qualche sintomo c'è già, ma! Speriamo che il Signore abbia pietà della nostra miseria.
Vi sono lettere di D. Ferrero e di Occelli, rispondono punto per punto alla circolare che ho loro mandata. Ma in particolare Davide mi risponde punto per punto a tutto. Non la leggo perché è confidenziale; quando sono confiden­ziali non le faccio vedere a nessuno, neppure al Sig. Prefetto. Non vi leggo la sostanza, ma un pochino la forma, e... fa tanto piacere. Passa in rassegna tut­te le domande, comincia il primo punto...ecc. «... quando il Signore è lontano mi porto, come V.S. mi disse — nel quinto punto ecc. ... nel sesto punto ri­sponderò» — eh! va molto bene, è un rendiconto che si deve fare ai superiori legittimi. Non dei peccati, ma di quello che hanno il diritto di sapere. È preci­so, risponde ad ogni cosa; il Signore lo conservi! ritorni rinfrancato. Fortunati quelli che sono in molti! Lui fa quel che può e Deo gratias!
Qualche parola sull'argomento dell'ultima volta, dell'ultima Domenica. Abbiamo trattato della confessione dei peccati veniali, ed ora tratteremo delle condizioni richieste per farla bene. S. Alfonso dice che chi sa confessarsi, sa salvarsi; sono sue parole. E Mons. Rossi di Pinerolo soggiunge poi ancora che altro è sapere confessarsi, altro è poi confessarsi realmente bene come si deve, sono sue parole. Altro è sapere, altro è fare; non tutti quelli che sanno si confessano poi bene. Dice Mons...., antico Vescovo di Cuneo, dice che bisogna insistere molto ai sacerdoti sul confessarsi perché ne traggano maggior profit­to possibile, e non la facciano con tanta disinvoltura. Adesso non succede, perché avete fissato il giorno e l'ora della confessione, ma in parrocchia si vie­ne per dire due parole, si chiacchiera di un po' di tutto, e poi: «sa! confessia­moci!» — Eh, no! bisogna almeno passare un momento in sacrestia, in chiesa, sapere che si passa dallo spirito degli affari del mondo, dal ridere, dal bere, a un sacramento; alle volte si va con troppa disinvoltura.
Ciò premesso, della frequenza si è già parlato, mentre siete nell'istituto, sta alla regola; non che si sia obbligati a confessarsi tutte le settimane, ma po­tendolo, è una santa pratica e non devesi sentirne solo il peso, ma il bisogno anche senza bisogno. Riguardo alle condizioni perché la confessione sia ben fatta, bisogna che prima di tutto si faccia con fede; poi dev'essere ben fatta, poi ci sia il dolore. Riguardo alla fede, bisogna ravvivarla bene, prima di con­fessarsi, se fossimo liberi di scegliere tra mille o tredici mila confessori come S. Giov. d'Avila diceva, la scelta invece qui è già fatta e perciò è fatta da Dio; e se sono due o tre possiamo scegliere tra quei lì. E stiamo certi che il confessore della comunità è quello scelto e voluto da Dio. Il Ven. Olier si confessava da S. Vincenzo de Paoli, ed ha dovuto lasciarlo; e... non s'intendevano, può esse­re un santo e non fare per me. Nel confessore S. Teresa guardava la scienza, perché diceva che a quella essa non poteva supplire; qui non si tratta di sceglie­re, ma quando se ne ha uno continuare ad andare da quella, e non per i più grossi andare da uno, e per gli altri da un altro. Non va! Certo che c'è libertà, ma non va bene. Perché non siamo regolati; va per l'assoluzione, se pure..., ma non va per la direzione. Quando c'è motivo, ma quando non c'è fissiamo­ci. Quando uno ha bisogno del medico, non cerchiamo mica quello che ci pia­ce di più, ma quello che sa di più. Non cercare uno che dica: i suoi doveri li sa e faccia! E così si continua sempre con gli stessi piccoli difetti. Bisogna amare quelli che ci scuotono, che ci parlano con più...! Il Ven. Cafasso diceva: pare che a confessare un prete... sa già tutto!... no! in quell'atto lì sono anche giu­dice. Non fare delle prediche in confessionale, che sarei fuori di ufficio, no;
ma neppure dire: il suo dovere lo sa, e s'aggiusti! Lo sa, sì, ma non ci pensa a farlo. Ma non è il caso: ma non cercare solo quello che è più buono. Un chieri­co si confessava da un vicecurato che non aveva fatto la meditazione, l'esame ecc. E l'altro: ma non è peccato! È vero, ma non bisogna: e poi se si confessa in generale è perché c'è un po' di mancanza di buona volontà; e poi si va a confessarsi anche per la direzione. Qui bisogna confessarci da chi dobbiamo, in missione da chi c'è: partono da due missioni, s'incontrano sotto un albero a metà strada, e andare a fare la scelta! È già fatta da nostro Signore. E poi non bisogna anche andare all'eccesso: perché manca quelli, uno non va più a con­fessarsi. Se non c'è quelli, si chiama un altro. Facciamo così, e confessiamoci anche che ci vedano; c'era uno: mando a chiamare lei, perché mi confessi. E... se non c'è vado io in confessionale! Alle volte si dice che i preti non si confes­sano. Bisogna che anche gli altri vedano che anche noi un po' siamo seduti e un po' anche ci inginocchiamo. Non essere dunque ristretti, ma servirci anche di chi possiamo. Ma soprattutto poi ravvivare la fede. Non è più don tale, o tal altro, è il Signore. Ego te absolvo, sì perché ha la facoltà, ma ravvivare la fede, non fare pasticci per imbrogliare, o fare le cose troppo corte; tagliuzza­re, ecc. Fede! Can. Re diceva che si sarebbe confessato là... dov'è? a quel paracarro, al monumento che c'è in piazza Savoia. «Su d'un paracher!». Ravvi­vare la fede; là; il confessore è superiore a me; fosse anche il Papa, si confessa da un cappuccino, o non so, in quell'atto lì, è superiore al Papa, che è peniten­te, e porta la specie del peccato, e se non porta peccati non può dargli l'assolu­zione. Ravvivare la fede, non credersi di confessarsi dal tale che abbia meno virtù di me, che sarebbe anche superbia, e neppure meno scienza di me, ma mi confesso ad uno che è padre giudice e medico. Questo è il principale riguardo allo spirito di fede.
Ora l'esame. Questi peccati poiché non sono mortali, non fa bisogno di confessarli, tuttavia se si vuole ricevere l'assoluzione bisogna confessare i principali, i più salienti. E se vogliamo che ci siano perdonati tutti dobbiamo mettere il dolore su tutti: basta confessare qualunque peccato fatto, in parti­colare, le tre o quattro cose più salienti. Alcuni si confessano: ho fatto un pec­cato contro la carità: andiamo più avanti! Con un altro me ne farebbe niente, e invece con quel lì per giocare dò un pugno. Vedete? Non bisogna confessare solo l'atto esterno contro la carità, ma anche l'altro di invidia interno. E lo di­ce lo Scaramelli: siamo soliti a confessare sempre le stesse cose perché non fac­ciamo l'esame come si dovrebbe fare. Non ci esaminiamo bene. Ho mancato tre volte di impazienza, una volta [ho] mancato di ubbidienza, di carità, e sempre così! Perché non mettiamo assieme anche tutti gli esami di tutti i gior­ni? Bisogna stare attenti su tutti i difetti della giornata: rimuoviamo, e ritrove­remo le cose e così non diremo sempre le due o tre cose solite. Capisco, sono le cose dominanti, ma sarebbe bene confessarsi anche delle altre; alcuni non si esaminano mai sul tempo perduto, è anche una cosa da confessare.
Questo è riguardo all'esame; ora al dolore, è questo quello in cui più fa­cilmente manchiamo: siccome ci confessiamo di cose piccole, e allora man­chiamo nel dolore, e andiamo a confessarci senza dolore, e così non c'è mate­ria di confessione, e bisogna che ci sia, remota e prossima, come dicono i mo­ralisti. Mons. La Motte, per il dolore faceva tre stazioni: una all'inferno, una al Paradiso e una al calvario. E noi a questo possiamo aggiungere il purgato­rio per eccitare il dolore. Non fa bisogno di molta preparazione, ma almeno un poco. Pensiamo al Paradiso: i peccati ci fanno star più bassi: all'inferno: e... qui spernit modica paullatim decidet! Sapete di S. Teresa che il Signore le aveva fatto vedere il suo posto all'inferno se non avesse vinto certe piccole cosette. Fa sempre del bene. Poi al calvario: qui più facilmente si può eccitare il dolore. Non solo per la morte di N. Signore: ma dobbiamo meditare anche tutti gli altri oltraggi che rappresentano i peccati veniali. Poi al Purgatorio: eodem igne... dice S. Agostino. È anche un mezzo a cui appigliarci. S. Tommaso dice: Duplex est dolor, unus in voluntate, alius in parte sensitiva: solo il primo è necessario, non è necessario sparger lacrime. Basta volerlo, non è ne­cessario di sentirlo: dolor est displicentia peccati praeteriti. Non è necessario sentirlo, ma desiderarlo. Di regola, se uno veramente desidera di averlo, c'è, diceva Mons. Bertagna, sebbene la cosa non suoni egualmente, tuttavia chi in pratica desidera di averlo e fa quello che può per averlo, in pratica l'ha, e quindi può stare tranquillo, perché non est in [parte] sensitiva sed in voluntate.
E dopo confessati i peccati, si deve sempre aver paura, e piangere i pecca­ti commessi? I giansenisti applicavano così quel testo: de peccato propitiato noli esse sine metu!... Ma no! Un signore un giorno si è presentato a me e mi ha detto: due anni fa mi son confessato facendo la confessione generale — non c'è mancanza di sigillo perché tanto voi non sapete niente chi sia — e mi ha detto, son sempre stato tranquillo e adesso comincia a venirmi qualche tur­bamento: devo tenermi tranquillo nei dubbi che mi viene? — E, si deve la­sciarla star lì — Ma dicono alcuni: S. Pietro ha sempre avuto due lacrime che gli hanno poi persino rigate le guancie. Ecco S. Tommaso dice: poenitentia duplex est: interna et externa: prima, usque ad finem vitae; secunda, non oportet quod duret usque ad finem vitae, sed usque ad determinatum tempus secundum naturam peccati. La penitenza interna: S. Luigi ha sempre pianto quei due o tre peccatuzzi che aveva. E S. Paolo tutta la vita ha sempre pianto di avere prima del battesimo trattati male i cristiani. E S. Pietro lo stesso. S. Agostino moribondo, domandava ancora perdono dei suoi peccati e recitava i salmi penitenziali. Eppure S. Paolo aveva ricevuto il battesimo ed era sicuro che era tutto perdonato. State attenti, altro è questo dolore esterno che deve durare tutta la vita, altro è quel dolore per il quale confessiamo i peccati che non è necessario che duri tutta la vita, e che perciò ce ne confessiamo sempre, ma bisogna finirla. E vedete come è bene espresso da S. Tommaso: poeniten­tia duplex est: ecc. l'interna usque ad finem vitae, la seconda non oportet, non è necessaria; non ritornare indietro sempre alle stesse cose, in quanto è perdo­nato non pensarci più, perché il diavolo è lui che vuole distrarci, per farci perdere la confidenza in Dio: e il Signore potrebbe dirci: ma usquequo gravi cor­de? E fino a quando stare lì, sempre in pena, sempre lì, su! il dolore stia, ma confessarci non più! Il dolore stia più o meno secundum mensuram peccati, ma la confessione tutt'al più una seconda volta, e poi basta. Per i confessati facciamo un torto a nostro Signore, fuori di confessione, sì...; ma in confes­sione, no. Non ritornare come se non si fosse stati perdonati. Se il confessore dice: adesso basta! E finito. S. Vincenzo de Paoli diceva che dobbiamo andar­ci a confessare con tanta confidenza che nulla detragga alla riverenza, e con tanta riverenza che nulla detragga alla confidenza. Come se dovessimo fare sempre la confessione a N. Signore. E come se fosse l'ultima e se dopo quella dovessimo passare all'eternità. E se fosse l'ultima? Ci penserei! Ah, no! Quel tale che è andato — si contava, per dire — un prete che andava a dire messa e mentre andava doveva passare in chiesa sopra un pozzo nel quale una volta si seppellivano i morti, e mentre andava si è capovolta la pietra della bocca e lui è caduto... è andato giù in mezzo a quei morti. E gridava: per carità, un con­fessore! — Ma se andava a dire messa doveva essere preparato a comparire avanti a N. Signore. Assi! altro è andare a dir Messa, altro è andare al tribuna­le di Dio. Ah! Vergogna! Guardate come si sbaglia alle volte! Ma non c'è no­stro Signore lo stesso? non è lo stesso? Dunque deve essere lo stesso come se si avesse da passare da un tribunale all'altro. Bisognerebbe stare attenti ad ap­prezzare. Sarebbe bene confessarsi anche tutti i giorni, come i santi, ma se tut­tavia non si può per buone ragioni, almeno fare bene quella che si fa tutte le settimane.
Esami puliti. Certuni fanno le cose con tanta nebbia che finiscono di non confessarsi. Contiam sulle dita! Se non fate perdere la pazienza al confessore ed ai compagni — guarda quel là come è lungo! — E se c'è da dire qualche co­sa diciamola dopo. Qualche giorno fa c'era un sacerdote, un profugo che ave­va da andare a confessare delle suore, e mi domandava consiglio, come dove­va fare. E gli dicevo: sia breve! Il confessionale non è un pulpito! Non è il luo­go. E vero che è maestro, ma non è predicatore. Ma però sta anche a noi il non dire le cose imbrogliate. Non fare la storia del lupo altrimenti si fa un guazza­buglio. E non si riflette al dolore, e facendo le cose lunghe si va a rischio di fa­re delle nullità.
Sì, ringraziamo il Signore che ci ha dato il benefizio della confessione. Che ci ha dato il modo sicuro di avere il perdono dei peccati. Secunda post naufragium tabula. Non è un peso, ma un aiuto. N. Signore stesso prima di dare la Comunione agli Apostoli, ha lavato loro i piedi.
E certamente il più bel modo per avere il perdono dei peccati è il sacra­mento della penitenza.
 (In cortile)
Ebbene? Cosa fate? Giocate?... Vammi a prendere la berretta, e intanto portami il cappello in sala (...).
... Tu ti sentiresti così umile da fare come il Beato Sebastiano Valfrè che ha preso un grosso quadro sulle spalle e poi lo portava trionfalmente per Tori­no? Qualche giorno bisogna che ne mandiamo qualcuno per le strade a gridare in mezzo a tutta la gente che passa: «Son folle! son folle!...». E i santi lo face­vano, e invece noi... abbiamo paura di lasciarci vedere con i parenti perché non son vestiti da signori. E c'è tanto pericolo di questo, sapete, ... se fossero vestiti come vorremmo noi, oh! che tutto il mondo li vedesse... invece, se ve­stiti da poveri contadini, alla maniera che vestono nei paesi, facciamo tutto il possibile per nasconderli. Adesso avete il parlatorio lassù, nessuno può veder­li, ma se il parlatorio fosse qui, e che per entrare dovessero passare in mezzo agli altri, non so se tutti sareste contenti, che vedessero i vostri parenti. E inve­ce dobbiamo essere contenti. E se ci facessero un po' come faceva S. Filippo a quelli che andavano a confessarsi da lui? Sai tu, Michelino, cosa comandava di fare S. Filippo? Diglielo un po' tu? (Ch. Merlo Pich) — comandava, che an­dassero per Roma con la barba tagliata solo a metà. Eh, già! oppure come ha fatto fare a quella donna che parlava sempre male degli altri, le ha dato per penitenza che prendesse una gallina viva, e poi girasse per le strade di Roma, e in mentre le togliesse le penne... la spennacchiasse; si capisce che la gallina gri­dava, e tutta la gente le diceva: ma cosa fai? sei venuta pazza? Ed in quella maniera lì si è corretta.
Il Duca di Genova voleva fare Arcivescovo di Torino il B. Sebastiano Valfrè, ed egli per non accettare manda a chiamare in fretta suo fratello, che era uno di quei pejsan dei paesi, e quando è stato qui a Torino, così vestito com'era, l'ha mica fatto cambiare niente, l'ha condotto al palazzo reale, e da­vanti al Duca si è messo a dire: «Come? Volete fare arcivescovo uno che ha un fratello così? Cosa volete che sia capace a fare, se sono così grossolani di fami­glia?», e il Duca ha dovuto lasciarlo, e farne un altro. E sapete S. Vincenzo de Paoli, quello che ha anche fatto. Un giorno è venuto a trovarlo suo fratello che era contadino, e perciò era anche lui mal vestito. E S. Vincenzo ha prova­to un po' di rossore, vedendosi insieme ad un fratello in quella maniera. Ebbe­ne, alla sera fa suonare che si raduni tutta la Comunità, e poi domanda perdo­no in pubblico che si era vergognato della maniera di vestire di suo fratello.
Mi ricordo che mi ha fatto impressione in seminario un bravo chierico. Là in seminario c'era un campanello, e c'è ancora adesso, mi pare, che si suonava solo quando veniva l'Arcivescovo a trovarci, così tutti restavano avvisati e si lasciava tutto e si veniva fuori a riceverlo. Un giorno viene una vecchia di montagna, tutta vestita alla moda antica, con in testa certe cose lunghe come si costumava allora, era di Balme, voi che siete stati a S. Ignazio sapete come vanno vestiti da quelle parti là. Ebbene costei arriva al Seminario, e si che sa­peva..., invece di tirare l'altro campanello tira quello lì dell'Arcivescovo. Al­lora noi che eravamo a scuola siamo venuti tutti fuori in fretta, e poi invece del Vescovo c'era quella vecchierella; e tanto più che aveva visto che l'uscio era aperto, ed era venuta dentro. Ebbene, quel chierico mi ha fatta tanta im­pressione: l'è subito corso incontro, l'ha presa per il braccio, e ha detto: «È mia mamma!». Fossimo stati noi, neh?!... avremmo subito detto: e perché sei venuta adesso?.... hai tirato quel campanello là!! Avremmo voluto nasconderla subito, che nessuno la vedesse, vestita com'era. Invece quel chierico, niente... «è mia madre», e l'ha salutata tutto grazioso come si deve fare.
L'altro giorno ho detto al Teol. Gaido alla Consolata: «Vieni un po' qui, fa un po' il saluto come ve lo fanno fare là in quartiere». E dice che prima di tutto fanno stare a un passo di distanza, sull'attenti, e poi che bisogna tenere le dita unite, e anche il pollice, d'obbligo, anche il pollice, non lasciarlo anda­re dove vuole. Ben bene, ho detto: lo dirò ai miei giovani: se i militari esigono che a fare il saluto si tenga il pollice unito a tutte le altre dita, non è poi la fine del mondo se il Rettore insiste sempre che si tengano le dita unite della mano, a fare il segno della croce.
giuseppeallamano.consolata.org