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Scritto da Beato Giuseppe Allamano
19 gennaio
1919
Quad. XIV, 19-21
(19 Genn. 1919)
V-. Distacco dai parenti
Ho parlato dell'incompetenza dei parenti nella vocazione religiosa dei figli, sia
nella prima decisione, sia in seguito nell’uscirne. A questo riguardo praticamente non c'è mai, o quasi mai
necessità di uscire per soccorrerli nelle loro gravi necessità. Piuttosto dagli stanchi della
disciplina si prende questo pretesto per amore di libertà ecc...
Vediamo ora quali devono essere i rapporti dei religiosi, che durano in
religione, coi loro parenti, e come devono viverne staccati. Il mondo fa due accuse opposte ai religiosi e
più alle religiose: 1) di avere perduto il cuore, 2) di occuparsi troppo dei parenti e di volersi immischiare
nei loro affari.
1) La prima accusa non è vera.
Si, essi non amano e non devono amare i parenti carnalmente, ma li amano spiritualmente; che è
superiore all'amore naturale, e ben più utile ai parenti. Tutto il bene che operano e la loro stessa
santificazione porterà benedizioni alle loro famiglie, anche temporali. Es. P. Aimo. Vedranno in
punto di morte ed in Paradiso o nel Purgatorio quanto sia utile ai parenti l'aver dato a Dio
un figlio, o una figlia. Chi anche in questo mondo ricorderebbe le famiglie Gonzaga e Zaverio se un loro figlio non si
dedicava alle religioni. I religiosi tuttavia devono anche nelle loro orazioni non troppo ricordare i
parenti in particolare, pregando per i singoli bisogni, ma solamente in genere, lasciando al Signore il pensarvi.
Fare con Dio il patto: «meno penso io ai parenti, più ci pensate voi». Se Dio ci pensa, opera
e li benefica; se noi, faremo nulla e ci disturbiamo. - Dirà taluno: qui c'è crudeltà; sia, una
santa crudeltà, come a chi volendo seguitare Gesù e domandando di prima andare a sepellire il padre.
Gesù non glielo concesse e gli rispose: Sine, ut mortui sepeliant mortuos suos.
Chi non comprende tali doveri del religioso, o non ha vocazione,
o non vi corrisponde.
2) La seconda accusa ha purtroppo più
consistenza: Certi religiosi e religiose, dopo avere lasciati i parenti, sono tutta tenerezza per loro.
Si curano dei loro affari, in modo che pare debbano essi dirigerne la casa. Vogliono sapere tutte le peripezie che
loro succedono, vogliono entrare nei contratti e fino nei matrimonii. Si occupano di cercare benefattori per
soccorsi, e di ritirare i nipoti e le nipoti negli ospedali ed orfanatrofii. Con quanta preoccupazione e disturbo del
proprio spirito, lo sanno i superiori, che sono obbligati a cedere alle loro importunità. E
pensare che i fratelli e le sorelle in riconoscenza vanno lamentandosi che la suora è troppo curiosa, che meglio
facesse la suora, e li lasciasse in pace.
Diranno che ciò
fanno per loro bene spirituale; ma questa è una scusa del demonio. Anche qui si deve applicare: Nemo
propheta acceptus in patria sua (V. Rodriguez T. V cap. 1). Es. Abramo e S. Paolo.
Il Rodriguez aggiunge tre danni che ne derivano: il ricordo dannoso della vita
secolaresca; — l'imbeversi di massime e costumi secolari;
— ed il disturbarsi e dissiparsi nello spirito (Ivi).
Veniamo ai particolari: Andare alle case dei parenti, — le lettere;
ed il parlatorio sono i principali attacchi dei religiosi ai
parenti.
1) Si tenta di andare a casa per malattia colle scuse
del beneficio dell'aria nativa, di cure speciali e di non essere di gravame alla Comunità. Sotto tali
pretesti si domanda ed insiste e si estorce il consenso dei superiori. S. Alfonso dice che si vendono anche i
libri per curare gli ammalati. Il religioso deve solo accettare perciò il comando dei superiori, comando non
estorto da lui o dai parenti, i quali deve sconsigliare in ogni modo dal farne domanda, per non necessitare i
superiori. Aggiunge S. Alfonso che si deve solamente domandare per mortale infermità dei genitori ed altre
gravi necessità.
Non così fecero i Santi. S. Carlo
Borromeo, sebbene non religioso, diceva che quando andava a casa dei parenti, sempre se ne tornava raff
redato nello spirito. S. Vincenzo de' Paoli (V.S. Alfonso vol. IV p. 406). Di S. Lorenzo Giustiniani la S. Chiesa dice
nel Breviario: Nec in domesticum unquam hortum, nec in domum paternam intravit, nisi cum morienti matri extrema
pietatis officia siccis oculis persolvit. E laS. Chiesa lo nota per lodarlo. Così lodo i partenti D. Chiomio
ecc., e non tanto i militari che ritornano...
2) Le lettere ai
parenti devono essere poche. Non troppo tenere, — col dovuto permesso o meglio col comando dei
superiori. — Le ricevute poi dai parenti è bene non conservarle e non rileggerle pei detti
motivi. S. Alfonso dice che ai novizii difficilmente si permette di scrivere e di recarsi in parlatorio. Così si
faccia in Missione secondo le norme date dai superiori. Es. S. Ignazio.
3) Il parlatorio, scrive S. Alfonso, è il luogo dove il demonio più che altrove suol fare il suo
negozio. E parlando delle monache soggiunge: Grata chiusa e non frequentata, monastero santificato; grata aperta e
frequentata, monastero dissipato, e Dio non voglia peggio. Bisogna non solo tollerare, ma desiderare di esservi assistite.
— Che dire delle conferenze spirituali? Lo stesso S. Alfonso non le approva lunghe; e poi si facciano a tutte
insieme od in confessionale, dico io: Ne quae spiritu coeperitis, carne consummemini. La B. Margherita A. scelse
un lontano monastero per essere lungi dai parenti. S. M. Madd. de' Pazzi voleva che le sue suore fossero
selvatiche come cervi. S. Giacinto Morescotti diceva: la cortesia delle monache è di essere scortesi con troncare
in parlatorio ogni lungo discorso (La perf. Crist. p. 481).
Insomma, conchiudo con S.
Agostino: Nimia in suis pietas, impietas in Deum. Qui potest capere, capiat.
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Pubblicato: Lunedì, 12 Giugno 2006 23:00