SANTITÀ

15 aprile 1923
 
P.P. Borello, quad. 43-45
Signor Rettore. 15 Aprile 1923
Mentre era ammalato, la mia testa, che non era ammalata, lavorava e tra gli altri pensieri che vi duravano, questo dominava: «Ma questi giovani che sono entrati sono tutti buoni e corrispondono alla vocazione?». Siete venuti dopo tanti sacrifizi; chi ha dovuto lottare di qua e di là...: la vostra entrata fu straordinaria o per i parenti od anche per certi Superiori. Vi aspettavate qui un Paradiso celeste? Non avevate dei fini umani, ma vi attendavate in fondo Missionari e Religiosi santi. Ed ecco che entrati, può darsi che qualcuno abbia do­vuto dire: «Credevo di trovare dei Santi, ed invece...». E non pensa costui che è egli pel primo a non farsi santo, che il Signore permette qui dei difetti per farci fare dei meriti. Quello che ora non vedete adempito non deve disanimar­vi, e voi non dovete badare agli altri, ma a fare voi ciò che dovete fare. Se ognuno facesse un po' d'esame chi potrebbe dire con tutta coscienza «ho nien­te da rimproverarmi?». Io spero che tutti lo possono dire: sono venuto per farmi santo ed ho adempito a quanto doveva. Sono contento: non dite sola­mente ciò per superbia, perché basterebbe questo...
I difetti che non vi dovrebbero essere sono quelli sostanziali alla vocazio­ne. Ammetto difetti di carattere, purché ci sia il proposito di emendarsi. Cia­scuno deve pensare a corrispondere ed a santificarsi e se tutti facessero questo proponimento, tutti sarebbero santi. Se io pretendo perfezione negli altri, de­vo io essere perfetto per primo, perché quelli che verranno la trovino in me. Prendiamo solo il bene da quelli che ci sono attorno: come S. Antonio Abate che visitava i monasteri ad imparare il bene senza badare ai difetti: da uno ap­prendeva il silenzio, da un altro la penitenza... Così noi: Oh, come mi piace quel tale: che modestia, come prega bene, non come io sempre con la testa in aria, con delle storie... Così bisogna fare e non aspettare che sian santi gli altri per agire. Bisogna lavorare subito: anche per noi ci sono quelle parole: «Si vocem eius audieritis, nolite obdurare corda vestra...». Non parliamo di coloro che per non corrispondere perdono la vocazione. Ci vuole carattere, non di quelle debolezze che per un nonnulla «factus sum conturbatus». Un po' di costanza, di virtù per tenere fermo. Anche Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre hanno peccato; e noi che siamo nella Casa di Dio dove «l'aria è buona», l'aria che forma i Santi. Ciascuno deve rendere conto di sé senza lasciare che passi una settimana e poi dover dire: «non son contento: non c'è gran male, ma neppure gran bene». Nemmeno non deve avvenire che alla fine d'un giorno, io debba dire: «quest'oggi non ho fatto tutto proprio bene...; oggi non una gia­culatoria, non una Comunione spirituale; non mi sono sollevato il cuore nello studio della teologia per ringraziare il Signore del Mistero che vado studiando e neppur nel lavoro ho avuto un buon pensiero...». Bisogna pensare e badare alle cose! Così non deve accadere che per un po' di freddo (dell'anima), per­ché l'esame o il Rosario non si dicono colla Comunità, si tralasciano, così l'Angelus. Perché ciò? Non pensiamo a ciò che facciamo.
Siamo qui per farci santi e santi religiosi: «Sancti estote...», è un coman­do. «Estote perfecti sicut Pater vester qui in coelis est...» è un dovere e non so­lo un consiglio. Fine primario dell'Istituto è la nostra santificazione, cui dob­biamo attendere anche pel fine secondario di salvare gli infedeli. Lo dicono i nostri Missionari; «certe conversioni non si ottengono se non si è santi». Non aspettare ad esserlo in Africa! Se aspettate allora, vi perderete persin la fede. Qui dobbiamo farci santi e prepararne una buona dose, altrimenti andremo laggiù con pericolo di dannarci fin noi. Impariamo a prepararci e non è mai troppa la preparazione. Tutti all'Ordinazione hanno rincrescimento di non essersi abbastanza preparati: e fosse ciò umiltà, ma purtroppo è verità! Anche solo per essere in pace con noi, per vivere felici dobbiamo attendere alla santi­ficazione. «Pax multa diligentibus Deum...... Era il pensiero dominante nella mia malattia e diceva: «Se potessi far penetrare l'intima persuasione che essi non badano agli altri se non per ciò che essi si ajutino a farsi santi il più possi­bile ed il più presto possibile». Questa è la preghiera che faceva per voi. Ho sempre ottime notizie di voi: ma il padre e la madre hanno sempre paure per i figli.
Badate: 1) essere attenti ad allontanare da noi le cose mondane. Che im­porta a me, per esempio, che oggi sia a Torino il figlio del re? Preghiamo per Casa reale: è superiore; ma poi... perché stare lì a guardare, a perdere la matti­nata e persin la Messa?... Capita sovente quando possiamo avere in mano un qualche pezzo di giornale, anche la Gazzetta del Popolo, con che curiosità la divorano. Quid ad me? Quante velleità per la testa: in una Comunità queste storie bisogna mandarle via. Io non ho mai visto nessun teatro in Torino, ep­pure vivo ancora. Quante volte si conoscono le cose prima di me e del Superio­re: si va in parlatorio, si domanda, s'interroga... Quid hoc ad aeternitatem? Nella preghiera avremo la testa piena... Eppure la curiosità è un difetto dei giovani: la nostra testa è una piazza. Non troppo curiosi: a noi il dovere deve bastare.
2) Attenti a non aver né simpatie, né antipatie. Simpatie sempre riprove­voli. Le antipatie, che vengono ordinariamente per difetto fisico bisogna sop­portarle: se non sempre lo si può correggere, almeno con qualche atto di carità si tira a noi. Ai nostri occhi siano tutti eguali ed allora «quam bonum habitare fratres in unum». Bisogna subito reprimere le antipatie; tutti conoscono i no­stri difetti e noi soli non li conosciamo; vicendevolmente colla correzione fra­terna si potrebbe fare tanto del bene. Ma non bisogna offendersi se veniamo corretti.
Queste cose andavo considerando nella mia malattia, avendo sempre la testa libera, benché il mal di capo sia mio solito: altre volte vi dirò ancora di ciò che pensava allora. Bisogna che imparate a salire la scala della santità. Ve­dete, anch'io, come Sant'Agostino «territus terreo» sento una grande respon­sabilità e voglio parlare... Una volta quand'ero Superiore in Seminario mi rac­comandava ai Chierici, essendo di costituzione debole, che non mi facessero morire; ed ora se volete ancora allungarmi un po' la vita, se quest'è la volontà di Dio, siate buoni e docili.
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