La chiesa di S. Andrea di Torino, ora santuario della Consolata

1. I monaci dell’abbazia di Novalesa

 

«E sebbene fosse la più remota, con l’ausilio del soccorso divino fu restaurata in modo da divenire la più bella di tutte… . Affollata da uomini nobili, nella parte estrema della città, offre a tutti uno spettacolo solenne». Così, poco dopo la metà dell’XI secolo, l’anonimo monaco cronista dell’abbazia di Novalesa descriveva la chiesa di S. Andrea di Torino1.

La chiesa, descritta dal cronista come la più bella di tutte, sorgeva a nord-ovest della città, a ridosso delle antiche mura romane, non lontano da Porta Segusina, ed era stata restaurata dal monaco Bruningo poco prima dell’anno Mille2. La precedente chiesa, in cui i monaci erano stati accolti, era infatti stata ritenuta da Gezone, abate di S. Pietro di Breme negli anni 980-1002, troppo piccola per la comunità monastica che vi risiedeva da quasi cento anni, dal momento in cui i monaci dell’abbazia dei SS. Pietro e Andrea di Novalesa, guidati dall’abate Domniverto, avevano abbandonato la loro abbazia e si erano rifugiati in Torino. La fuga a Torino dei monaci novalicensi era infatti avvenuta nei primi decenni del secolo X, quando i Saraceni, muovendo da un luogo denominato «Frassinetum Saracenorum», non lontano da Saint-Tropez, erano penetrati nelle Alpi occidentali fino a raggiungere la valle di Susa, provocando in tal modo la fine della vita monastica nell’abbazia di Novalesa3.

Per il monaco cronista, che con una certa retorica ne scriveva la storia, l’abbazia di Novalesa era stata una grande e memorabile istituzione monastica, al punto da rinnovarne la memoria, da provocare sentimenti di nostalgia nei monaci e da essere sempre considerata come la «sancta mater ecclesia», dalla quale erano fuggiti a causa delle scorrerie saracene; e tutto questo anche quando, non molti anni dopo il loro arrivo a Torino, l’abbazia era stata ricostruita a Breme, nella Lomellina, su un terreno donato dal marchese d’Ivrea Adalberto4. La miglior prova del vigore religioso e spirituale di quella antica tradizione monastica – sembra suggerire il cronista – fu data appunto dalla sua sopravvivenza prima a Torino nella chiesa di S. Andrea e poi in S. Pietro di Breme.

L’abbazia di Novalesa fu ricostruita come priorato dipendente da Breme verso la fine del secolo X. L’abate Gezone, durante il suo abbaziato (980-1002), aveva infatti inviato un monaco a Novalesa per restaurare il monastero abbandonato. Egli trovò la casa di Dio piena di sterpi e parte delle mura delle chiese ancora in piedi: «domus Dei plene lucis invenit… moenia vero ecclesiarum minime confringebantur»5. Segno che la chiesa o le chiese non furono completamente distrutte dai saraceni e che il monaco ne fu il restauratore più che il ricostruttore. La comunità dei monaci, rinnovata l’antica abbazia come priorato dipendente da S. Pietro di Breme, elaborò l’idea di una propria autonomia, fondata sul prestigio del luogo e della sua storia, sulle frequenti donazioni destinate espressamente al priorato dei SS. Pietro e Andrea di Novalesa6 e sulla facoltà concessa ai monaci di eleggere essi stessi il priore, confermato poi dall’abate di Breme.

Il cronista, che si dichiara parente del monaco che restaurò l’abbazia di Novalesa, non sempre è chiaro nel ricostruirne le vicende, soprattutto nell’indicare in quale chiesa di Torino i novalicensi trovarono rifugio. Alcuni degli episodi narrati nella Cronaca, che sconvolsero la vita della comunità nei primi anni del secolo X, a quanto pare furono ricostruiti da eruditi e vennero segnalati come «frammenti» dei capitoli perduti. È forse per questo motivo che i monaci risultano ospitati prima nella chiesa dei SS. Andrea e Clemente, edificata fuori delle mura della città, e poi all’interno nella chiesa di S. Andrea. Due distinte chiese, quindi, che tuttavia non sembrano tali, ma semplicemente una sola chiesa, quella che sorgeva dentro le mura della città.

Il primo di questi frammenti narra come l’abate Domniverto, giunto a Torino, «edificò un monastero in honore dei santi Andrea e Clemente, o, per dir meglio, essendo questo già edificato e membro della sua abbatia, ma scomodo per tanti habitatori, lo riparò meglio, che ei poté, et vi finì i suoi giorni». Il secondo frammento racconta che «v’era in questa città una chiesa dedicata a Sant’Andrea e a San Clemente, che oggi si chiama San Benedetto, presso la porta sigusina, e che già da molto tempo apparteneva all’abbazia novaliciense»7. Nel testo originale del libro V della Cronaca, al capitolo 5, il cronista afferma invece che il marchese d’Ivrea Adalberto (896-929), «vedendo i nostri possedimenti devastati da pagani e i monaci che morivano di miseria, donò una chiesa consacrata in onore di Sant’Andrea presso le mura della città e prossima alla porta comitale, dove ora i monaci attendono agli uffici divini»8.

È probabilmente questa la versione più esatta del testo riguardante la chiesa in cui i monaci, fuggendo dalla Novalesa, furono ospitati. Non esisteva infatti a Torino, fuori delle mura della città, un luogo o una chiesa in onore di S. Clemente. Anche l’identificazione della chiesa dei SS. Andrea e Clemente, «che oggi si chiama San Benedetto», con la chiesa di S. Benedetto, non è verosimile. Una chiesa dedicata a S. Benedetto esisteva sicuramente in Torino, anch’essa situata presso Porta Segusina, non lontano quindi da S. Andrea, ma aveva annesso un ospedale e dipendeva dalla canonica di Rivalta Torinese, istituita nel 1096 circa da Umberto, abate di S. Maria di Pinerolo, anch’essa dedicata, come la Novalesa, ai SS. Pietro e Andrea, e diventata in seguito, nella seconda metà del XIII secolo, abbazia cistercense. Fuori di Torino, al di là della Dora Riparia, vi era inoltre un luogo denominato «valle di S. Benedetto», che dipendeva anch’esso da Rivalta9.

Infine, un altro episodio, narrato nei frammenti, dove si descrive l’esistenza di un castrum presso Porta Segusina che avrebbe custodito due prigionieri saraceni, i quali fuggendo avrebbero incendiato la chiesa dei SS. Andrea e Clemente, ha tutto il sapore di uno di quegli stereotipi che la paura dei Saraceni aveva ingenerato nella gente e nello stesso cronista. L’episodio è narrato all’inizio del libro V della Cronaca, ma senza tenere conto della successione degli avvenimenti, poiché a quel fatto si accenna nel capitolo primo, mentre avrebbe dovuto essere posteriore alla donazione di S. Andrea da parte del marchese Adalberto. Si tratta comunque di un capitolo assai lacunoso a causa della scomparsa quasi completa della scrittura10.

Lo sdoppiamento delle due chiese non sembra, quindi, avere alcun fondamento. I monaci, fuggendo dalla Novalesa, trovarono il loro primo rifugio nell’unica chiesa dedicata a S. Andrea, che si trovava dentro le mura romane di Torino, presso Porta Segusina, l’attuale santuario della Consolata. Anche Francesco Gabotto e Giovanni Tabacco sono concordi nel ritenere che lo sdoppiamento sia basato sui frammenti del libro quarto della Cronaca e sull’equivoco del cronista, che si rivela non sempre ben informato su quegli avvenimenti, accaduti più di un secolo prima, e sulla topografia della città nel X secolo11.

Un altro problema si affaccia leggendo la Cronaca, quello del monaco Bruningo che verso la fine del secolo X avrebbe ricostruito o, meglio, ristrutturato la chiesa di S. Andrea. Bruningo ricevette l’incarico direttamente dall’abate di Breme Gezone (980-1002), perché, narra il cronista, l’abside della chiesa era considerata piccola: «ut adiret locum ad hunc et strueret absidam sancti Andreę, que tunc parva habebatur». Le espressioni usate sono chiaramente riferite all’abside della chiesa, la parte cioè rivolta a oriente come in tutte le chiese romaniche. Le parole che seguono, ossia che la chiesa fu restaurata in modo da divenire la più bella di tutte, potrebbero però suggerire che la chiesa fosse stata completamente ristrutturata da Bruningo al punto da offrire alla città uno spettacolo solenne: «magnum spectaculum confert omnibus»12.

Il monastero di S. Andrea era certamente già ben costruito nel 1020, come dimostra un documento mediante cui Wala e Autberto, che professavano legge longobarda, ed Everardo, che invece era di legge salica, restituirono all’abate di Breme la metà di un possesso in Caselle o forse Caselette: documento che era stato redatto in Torino «ante ostium monasterii sancti Andree»13.

La morte di Bruningo è ricordata nel Necrologio di Novalesa e in quello del priorato di S. Andrea in una scrittura dell’XI secolo; in esso viene definito «prepositus huius cenobii atque constructor».14 Espressioni alquanto generiche che sembrano suggerire che non solo Bruningo fu uno dei primi prepositi o, meglio, priori della comunità monastica di S. Andrea, ma che egli sia stato colui che ristrutturò e ampliò tutto il complesso della chiesa. Le sue grandi capacità di architetto-costruttore non possono però riguardare la restaurazione dell’antica abbazia di Novalesa, che, come abbiamo già visto, fu ricostruita da un monaco anonimo, parente del cronista: «quem multi noverunt propinquum (meus) fuisse»15. Ma, scrive il cronista dell’abbazia di Novalesa, non va dimenticato che Bruningo «andava sovente con il pensiero al monastero della Nuova Luce e mise impegno e strumenti perché fosse riedificata»16.

Venendo a Torino, i monaci novalicensi portarono con loro le reliquie, le croci preziose, i vasi sacri e i codici della loro biblioteca; di questi codici quattrocento furono dati al preposito della Chiesa torinese Riculfo: un numero che indica la ricchezza della biblioteca novalicense, ma che pare eccessivo17. Questo trasferimento di tutte le loro cose a Torino, rivela la volontà dei monaci di continuare in S. Andrea la vita monastica che avevano vissuto nella loro antica abbazia. È perciò verosimile che essi abbiano portato a Torino anche la loro pietà mariana, ricca di liturgie, inni e racconti che narravano gli interventi prodigiosi della Vergine Maria, tradotti in seguito in una cappella eretta in S. Andrea e dedicata a S. Maria della Consolazione, ora santuario della Consolata18.

La Novalesa continuò, infatti, la sua vita prima a Torino e poi a Breme, ma sempre con la mente e il cuore rivolti alla loro antica sede monastica e alla sua spiritualità. In tal modo la chiesa di S. Andrea divenne una specie di nuova Novalesa e quindi, allorché fu edificata l’abbazia di S. Pietro di Breme, un priorato da essa dipendente, organizzato in tutto come un vero e proprio monastero che può essere ritenuto il primo monastero benedettino maschile di Torino. Quello di S. Pietro, che sorgeva in Torino nell’angolo sud-ovest della città, e che già nel 985 viene definito antico, era un monastero di monache benedettine che accoglieva specialmente donne della nobiltà di Torino e dintorni19.



2. La comunità monastica

Il priorato di S. Andrea venne più volte confermato a S. Pietro di Breme come dipendente dalla sua giurisdizione, dapprima da papa Giovanni XIII il 21 aprile 972 con una formula che non lascia dubbi: «cellam quoque vocabulo sancti Andree, in civitate Taurinensi, cum omnibus suis pertinentiis», e pochi giorni dopo, il 1° maggio, dall’imperatore Ottone I e quindi da altri imperatori e papi: Ottone III (18 luglio 992 e 26 aprile 998), papa Benedetto VIII (febbraio 1014), Corrado II (1026), Enrico III (19 aprile 1048), Enrico IV nella donazione che fece dell’abbazia di Breme alla chiesa di S. Siro di Pavia (maggio 1093), papa Eugenio III (9 febbraio 1152) e infine Ottone IV (27 aprile 1210)20.

La vita dei monaci in S. Andrea si svolgeva secondo la tradizione consolidata del monachesimo benedettino. La sua organizzazione, essendo un priorato, non contemplava la presenza di un abate, prerogativa questa dell’abbazia di S. Pietro di Breme e prima della Novalesa, ma di un monaco priore, eletto liberamente dalla comunità e confermato dall’abate di Breme. I documenti ci permettono di ricostruire per sommi capi l’elenco dei priori, a partire dal monaco costruttore Bruningo, vissuto tra la fine del X secolo e l’inizio del successivo. Ma a parte Brunungo, definito «prepositus», l’elenco risulta sufficientemente corredato solo a cominciare dalla fine del XII secolo: Guido (1195), Gaspardo Morello (priore eletto e defunto l’8 settembre 1207), Oberto («condam prior» nel 1209), Carlevario (1208-1209), Uberto Albino (1219: priore di S. Andrea e preposito di Alpignano), Tommaso Silo (monaco e cappellano nel 1280, priore nel 1290, defunto nel 1313), Francesco Silo (1315), Guido Beccario di Avigliana (monaco di Novalesa, priore di S. Maria di Sualma in diocesi di Asti nel 1318, priore di S. Andrea negli anni 1318-1328, priore di S. Pietro e di S. Michele di Cavallermaggiore negli anni 1328-1348); Giovanni Remenzono di Chivasso (1366), Clemente Falletti (1369), Enrico di Piossasco (1369-1370), di nuovo Clemente Falletti (1377) e forse Pietro Falletti, poiché il 21 febbraio 1390, Simonino Falletti s’impegnava a versare mille fiorini d’oro al conte Amedeo VII di Savoia, se avesse ottenuto a suo fratello, Pietro Falletti, l’assegnazione del priorato di S. Andrea da papa Bonifacio IX e dal cardinale di Venezia21.

Nel secolo XV, ma già nella seconda metà del XIV, l’elenco dei priori rivela un veloce decadimento. Il priorato fu concesso in commenda ai conti di Valperga e poi ai Della Rovere di Vinovo presso Torino. A Simeone de Mercadillo di Chieri (1405-1414-1428) succede infatti Pantaleone Valperga (1439), defunto nel 1461, che a sua volta, nel 1459, cedette il priorato a Gioannetto Catelino Valperga, esplicitamente indicato come priore commendatario (1459-1461-1469-1475). La commenda nel 1480 divenne appannaggio di Domenico Della Rovere, poi vescovo di Torino, e nel 1498 di Giovanni Francesco Della Rovere, figlio di Stefano condomino di Vinovo, con una formula contenuta nel Necrologio di S. Andrea che non lascia adito a dubbi, ossia che sia diventato priore giovanissimo, all’età di appena nove anni – era nato nel 1489 – imposto dalla sua famiglia con l’astuzia o forse con la forza: «capta fuit possessio prioratus». I Della Rovere di Vinovo erano in quel periodo ai vertici della Chiesa torinese. Il cardinale Domenico, anch’egli priore di S. Andrea nel 1480, negli anni 1482-1501 divenne vescovo di Torino e ricostruì la cattedrale della città. A lui successe Giovanni Ludovico (1501-1510), figlio di Giacomo Della Rovere e di Aloisia Valperga, e, quindi, negli anni 1510-1515, Giovanni Francesco, priore di S. Andrea nel 1498, nipote del predecessore, vescovo coadiutore e, per parte di madre, Lucchesia Grosso Della Rovere di Savona, pronipote di papa Giulio II22.

La comunità monastica contemplava anche la presenza di sottopriori, Marco, defunto nel 1216, e Giacomo Mersial nel secolo XV; inoltre di priori claustrali, Giacomo nel 1362, di conversi, Giacomo nel secolo XII, Gregorio, Sebastiano e Gaspare de Fornaseris nel secolo XV, quest’ultimo definito «monacus et conversus claustralis», e di converse, Adelaide di Gonzole nel 1141 e Bilia di Caselle nel 1347. Infine, alcuni monaci avevano l’incarico di sacrestani: Francesco de Pelastris nel secolo XII, Gisulfo nel XIII, Oberto nel XV, Domenico Belloto nel 1440; altri erano invece incaricati di custodire la cappella della beata Vergine Maria della Consolazione, a cominciare dal XIII secolo, tutti indicati con il nome Giovanni, uno dei quali Giovanni di Cavagnolo nel secolo XIV e un altro ancora, Giovanni Chiri (forse Chierico) «sepultus prope capellam Domine Nostre», defunto nel 1462, probabilmente quello stesso chierico e monaco, custode della cappella di S. Maria della Consolazione, che nel 1428 sottoscrisse uno strumento di appello contro l’arcidiacono Ludovico di Romagnano, che poi divenne vescovo di Torino, succedendo nel 1438 allo zio Aimone di Romagnano23.

Nella comunità non mancavano monaci dotati di umile e devota osservanza religiosa e di grande spiritualità: Giacomo Perrucario nel 1377 è detto «venerabilis», Giovanni nel 1462 ebbe il privilegio di essere sepolto presso la cappella di S. Maria della Consolazione per la sua pietà mariana, e Carlo Serra nel 1555 è definito «dignus pietate».

All’interno della comunità esisteva anche una discreta mobilità. Alcuni monaci di S. Andrea furono eletti priori di priorati dipendenti da Breme, altri peregrinavano da un monastero all’altro. È il caso di Bartolomeo Brandollo di Trana, monaco professo nel monastero di S. Solutore di Torino, quindi del priorato di S. Andrea, poi preposito della chiesa di S. Maria di Trana, defunto nel 1545. Dalla abbazia-madre di Novalesa, ora semplice priorato, veniva Guida Beccario di Avigliana (1318), poi priore di S. Andrea (1326).

I monaci, come era prassi comune allora, provenivano per lo più da famiglie dell’aristocrazia o almeno da famiglie benestanti. Non erano soltanto famiglie di Torino, come i Silo, ma anche di Chieri, Cavagnolo, Palazzolo, Vinovo, Beinasco, Scalenghe, Piossasco, Collegno, Avigliana, Trana, Caselle, Valperga, Cuorgné e di altri luoghi lontani, come Cervere, nel Cuneese. Appunto perché di un certo livello sociale, la comunità aveva al suo servizio dei «famuli», ossia servi, domestici, familiari, a cominciare da Rogerio nel XIII secolo, seguito, per quanto ci è dato sapere, da Leonardo nel XIV secolo, da Giovanni Yverni de Francia «servitor», da Pietro de Garlandis e da Nicolao de Diez, «famulus noster de burgo Argentali», nel XV secolo, da Bardoto Gascono nel 1431. Tra i familiari, s’incontrano un «mutus famulus noster» nel secolo XIV, un cuoco, Michele Albo nel 1428, e un campanaro, Bartolino Porcherio, un fedelissimo a quanto pare, perché aveva suonato le campane del priorato per quarant’anni continui: «pulsator per annos XXXX continuos». Nel secolo XII s’incontra anche un pittore di nome Atto, degno di essere ricordato nel Necrologio probabilmente perché svolse attività particolarmente legate alla sua professione. Infine, alla cappella di S. Maria della Consolazione prestava servizio una povera donna, alla quale il principe Filippo d’Acaia nel 1317-18 donò, «libravit quidam pauperi mulieri», uno staio di frumento per il suo sostentamento24.

Nel secolo XIII la chiesa di S. Andrea divenne una delle parrocchie della città. La parrocchia si trovava «in civitate Taurini in quarterio Porte Pusterle» ed è documentata per la prima volta nel 1221 e poi negli anni 1252 e 1256 e più tardi ancora, nel 1363 e nel 1523. Nel suo territorio vi erano case, orti, forni; vi correva anche un fossato e una via detta di S. Andrea. Non lontano dalla chiesa si trovava la via pubblica della città. Nel 1293 si ha inoltre conferma dell’esistenza di una confraria di S. Andrea, i cui priori erano Uberto Pellizone e Mino Amedeo. Il 6 settembre di quell’anno essi concessero una casa in enfiteusi perpetua, al fitto annuo di 15 soldi di buoni astesi, a Uberteto di Asti «qui manet ad furnum domine Goye la Pelliçona»; la casa sorgeva nel territorio parrocchiale e aveva per coerenze la via pubblica e altre abitazioni25.



3. I beni patrimoniali

A S. Andrea, in quanto cella monastica, furono assegnati vari beni per il sostentamento dei monaci e del priorato. Questo a cominciare da un’importante donazione del marchese d’Ivrea Adalberto. La donazione, datata 28 febbraio 929, ossia pochi anni dopo la fuga dei monaci a Torino, comprendeva «castrum et villam Gunçenarum cum curte sancti Dalmacii iuris mei, que habere visum sum super Sangone et citra et ultra». Si trattava appunto di un luogo denominato Gonzole con annessa la corte di S. Dalmazzo, situata lungo le sponde del torrente Sangone, nel territorio di Orbassano. Il possesso di questo importante nucleo patrimoniale fu rinnovato al priore di S. Andrea Francesco Silo dal conte Amedeo V di Savoia con un accordo del 7 marzo 1315, in cui il conte s’impegnava a proteggere il luogo, le persone e i confini di Gonzole, compresi il dominio, la giurisidizione e la decima del luogo, eccetto quella spettante al vescovo di Torino. Per tale accordo il priore versava al conte quattro lire e cinque soldi viennesi. Gli concedeva inoltre «omnia banna, tam magna quam parva», esclusi i banni «familiarum ceu mansuencorum dicti prioris». Infine, la nomina del camparo spettava al priore e a nessun altro26.

Oltre a questo importante nucleo patrimoniale, il priorato di S. Andrea aveva terre e beni sparsi un po’ ovunque nei dintorni di Torino, nel Rivolese e nel Canavese, come appare dalle coerenze con beni appartenenti ad altre istituzioni religiose. Aveva terre coerenti il monastero di S. Solutore, quello femminile di S. Chiara e quello degli Umiliati nel territorio di Torino; terra e diritto di decima in Valdocco27; vigne e boschi sulla collina di Torino «ultra Padum»28; prati, terre e boschi nel territorio di Collegno, coerenti la Dora Riparia, e presso il vicino luogo di Corsano29; e poi ancora in Govone, Marconada, Iuliasco, Doirone, Gonzole, Raconiate e None nel Rivolese e nei dintorni di Rivalta Torinese30; mansi con «totum honorem et terram» nel Canavese a Lirano, Ciriè, Corio, Noli, Grosso e Caselle31; infine ad Andezeno, nel Chierese, terre concesse in nobile e gentile feudo32. Doveva in questi casi trattarsi di piccoli appezzamenti di terra, certo produttive, che tuttavia in una società, che si orientava verso un’economia di mercato, creava problemi di liquidità.

La documentazione a nostra disposizione non è ricca di donazioni in denaro. Il monastero riceveva ogni anno due soldi a partire dal 1208 per disposizione del fondatore dell’ospedale di Porta Pusterla33. Nel 1369, Amedeo VI di Savoia prescriveva al castellano di Moncalieri di versare 200 fiorini, sul tasso di San Michele, al priore Clemente Falletti, concessi un tempo al priore Enrico di Piossasco34. Così pure, nel 1413, Amedeo VIII si riconosceva debitore, verso il priore di S. Andrea e il rettore della cappella di S. Maria della Consolazione, di 450 fiorini vecchi per l’adempimento di un legato testamentario dell’avo paterno Amedeo VI; la somma annuale richiesta per tale legato era di 45 fiorini vecchi fino all’estinzione definitiva del debito, avvenuta nel 141835.

Altro denaro il priorato riscuoteva certamente dalla vendita di terreni, come per esempio la vendita dei mansi che il priorato possedeva nel Canavese, fatta però indebitamente dal priore Oberto e testimoniata solo nel 1209; o la terra e il fossato che gli Umiliati, nel 1279, comperarono da S. Andrea presso il borgo Colleasca; così pure gli affitti riscossi dai beni immobili che il priorato possedeva, come per esempio il fitto di un prato «prope clausura civitatis», coerente la via pubblica, riscosso dal priore Clemente Falletti nel 136936. Il priorato doveva comunque avere un buon reddito, se nel 1390 Simonino Falletti, probabilmente della ricca famiglia dei Falletti di Alba, era disposto a versare mille fiorini d’oro al conte Amedeo VII, se si fosse premurato di ottenere al fratello Pietro Falletti l’assegnazione del priorato37.

Con l’arrivo dei Savoia a Torino nel 1280, come signori della città, i donatori cominciarono a rivolgere la loro devozione e le loro preferenze alla cappella della Consolazione. La prima donazione fatta da un Savoia è del 2 aprile 1315. In tale data Amedeo V donò tre marche d’argento, affinché l’altare di S. Maria della Consolazione fosse provvisto di un calice38. Anche in seguito i principi di casa Savoia e di Savoia-Acaia, quasi senza eccezione, continuarono a devolvere alla cappella della Consolazione le loro donazioni, tra cui due grandi lampade accese giorno e notte davanti all’immagine della Vergine. Questa pia consuetudine e le donazioni continuarono anche in seguito tutte le volte che essi, le mogli, i parenti dei principi e la nobiltà a essi legata venivano in pellegrinaggio a visitare la cappella, come ha messo bene in evidenza Giuliano Gasca Queirazza in un suo articolo sulla Consolà o Consolata, al quale si rinvia per la ricchezza e l’originalità delle informazioni39.

Il priorato dovette a sua volta versare la decima sessennale, che papa Gregorio X negli anni 1274-1280 aveva richiesto ai vari enti della diocesi torinese «pro Terre Sancte subsidio». Si trattava in questo caso di una decima straordinaria che in quegli anni anche Giordano Cagnaccio, vicario del vescovo di Torino e rettore di S. Maria di Pozzo Strada, e il priore di S. Andrea dovevano pagare al collettore papale, consistente in 14 lire, 10 soldi e 6 denari viennesi e altri 26 soldi astesi40. Inoltre nel 1364 il priorato, insieme ad altri enti diocesani, era tenuto a versare la decima che papa Urbano V aveva concesso al conte di Savoia Amedeo VI per fortificare e riparare le fortezze («pro fortaliciis domini»), che il conte aveva al di là dei monti, in Francia. La decima richiesta al priorato consisteva in 7 lire, 13 soldi e 4 denari viennesi. Ma a parte queste decime straordinarie, il priorato non era obbligato a pagare al vescovo di Torino la tassa del cattedratico e altre imposte ecclesiastiche, segno evidente che, in quanto ente monastico esente dalla giurisdizione diocesana, godeva di una pressoché totale autonomia nei confronti del vescovo e del capitolo cattedrale41.

Forte di questa autonomia, il priorato stabilì relazioni di varia natura con altri enti monastici, con il movimento ospedaliero allora in rapida espansione e con la stessa compagine diocesana. Relazioni di buon vicinato e di collaborazione stabilì con l’ospedale di Porta Pusterla, fondato nel 1208 da Giovanni Carmenta, con gli Umiliati di S. Cristoforo, le monache di S. Chiara di Torino, gli Acaia, i conti di Savoia e il castellano di Moncalieri. Nel 1209 è lo stesso vescovo di Torino Giacomo a intervenire in una lite tra il priore di S. Andrea e il pievano di Liramo di Ciriè per i beni fondiari che il priorato possedeva nel Canavese, venduti indebitamente dal priore Oberto. Il vescovo, a cui fu affidata la composizione della vertenza, stabilì che il pievano di Liramo restituisse la metà dei beni contestati al nuovo priore Carlevario42.

Più difficili le relazioni con il capitolo cattedrale. Nel 1326 il priore Guido Berberio di Avigliana e l’abate di Breme Lantelmo contestarono al capitolo e al prevosto Oddone Zucca il diritto di decima su alcune terre che il priorato aveva nel territorio di Valdocco ai confini con Torino, lungo il fiume Dora e la via che da Torino conduceva a Collegno e a Rivoli. Il prevosto sosteneva che tale decima gli spettava come prebenda «de iure et ex forma privilegi capituli et consuetudine antiqua», prebenda che infatti era già appartenuta all’arcidiacono del capitolo cattedrale Oddone Silo. Nella lite che ne seguì, gli arbitri che dovevano definire la vertenza stabilirono che il priore e l’abate di Breme non erano tenuti a consegnare la decima al prevosto del capitolo cattedrale, ma che dovevano dargli in perpetuo ogni anno, nella festa di S. Maria di agosto, come sua prebenda cinque sestari e mezzo di frumento e un altro mezzo di segala secondo la misura di Torino43.



4. La decadenza

Queste e altre vertenze erano la dimostrazione delle difficoltà in cui ormai i monaci di S. Andrea si dibattevano nell’amministrare il loro patrimonio fondiario. Con l’istituzione della commenda queste difficoltà aumentarono e lentamente portarono alla decadenza della vita monastica, controllata soltanto da un rappresentante del priore titolare della commenda. Ciò avvenne soprattutto nei secoli XV e XVI con i priori commendatari dei conti di Valperga e dei Della Rovere di Vinovo. Nel secolo XVI il priorato era governato da un vicario claustrale, Michele Violeti di Chieri, deceduto nel 1524. Poco più tardi, nel 1553, moriva Francesco Soderini, abate della chiesa dei santi Froto e Moscheto44, priore di S. Andrea e chierico della Camera apostolica45. Negli anni 1579-1580 priore vicario di S. Andrea per l’abate commendatario cardinale Nicolò Gaetani dei principi di Sermoneta era il monaco Clemente Pochettino di Savigliano, processato per «menar vita licentiosissima et di grande scandalo». Colpevole o innocente, il Pochettino fu assolto per insufficienza di prove, ma dovette lasciare il monastero, dove era entrato ancora bambino.

Alcuni anni dopo, durante la visita apostolica di mons. Angelo Peruzzi alla diocesi di Torino degli anni 1584-1585, la chiesa parrocchiale di S. Andrea risulta concessa in commenda a Camillo Gaetani, il quale aveva come vicario Francesco Pianto di Nocera Umbra con un annuo stipendio di 85 ducati d’oro. Il vicario non abitava in monastero, bensì in una casa vicina concessa in affitto. Nel monastero vivevano solo sei monaci benedettini e tre fratelli laici. Il reddito dei monaci consisteva in 36 sacchi di frumento, 13 e mezza carrate di vino, 108 scudi per il vitto e 32 scudi per il vestiario. Tutto ciò risultava insufficiente, se non fosse venuto in soccorso il cardinale Nicolò Gaetani.

Tuttavia, la vita dei monaci continuava a dibattersi nella povertà. L’edificio della chiesa fu trovato dal Peruzzi in buone condizioni, così pure la sacrestia, ma i paramenti non erano in buono stato di conservazione. La pulizia della chiesa lasciava a desiderare, l’altare maggiore era indecente e nelle stesse condizioni si trovavano i vasi sacri. Anche l’olio che ardeva davanti all’altare maggiore e all’altare della Consolazione era sempre piuttosto scarso. All’interno del monastero vi era solo un refettorio. Ciascun monaco aveva la sua camera e provvedeva per conto proprio al vestiario. Gli affari del priorato venivano trattati in capitolo, salva l’ubbidienza dovuta al vicario. I monaci professavano i tre voti solenni, ma non osservavano più la regola di san Benedetto, eccetto la recita dell’ufficio divino. Il Peruzzi visitò anche parecchi altari e cappelle, una delle quali, dedicata a S. Maria della Consolazione, aveva sopra l’altare «unam pulchram iconam». L’immagine era molto venerata, numerosi gli ex-voto di cera e di argento e grande il concorso dei fedeli alle funzioni sacre quotidiane46.

Questo squarcio di vita monastica, descritto negli Atti della visita apostolica del 1584 di mons. Peruzzi, lasciava certamente a desiderare. La disciplina monastica era piuttosto rilassata, non si viveva più la vita comunitaria e la regola benedettina, lo spirito mondano si manifestava nell’acquisto personale degli abiti, la comunità aveva difficoltà economiche non indifferenti, la vita parrocchiale e spirituale dei fedeli era lasciata nelle mani di un solo monaco; vi erano stati anche dei gravi abusi, come nel caso del monaco Pochettino. Gli ultimi sei monaci benedettini furono perciò sostituiti con i monaci riformati cistercensi detti fogliensi. Questo passaggio avvenne nel 1589. Così, dopo più di 660, a partire almeno dalla donazione nel 929 del marchese d’Ivrea Adalberto, i monaci di Novalesa-Breme, cessavano la loro presenza nel priorato e nella cura della chiesa di S. Andrea che, non più parrocchia dal 1589, si avviava a diventare il santuario mariano per eccellenza della città di Torino47.

 

1 Il Cronicon dell’abbazia di Novalesa è edito nei Monumenta Novaliciensia vetustiora, a cura di C. Cipolla, II, Roma 1901 (Fonti per la storia d’Italia 32), e, con testo latino e traduzione italiana a fronte, in Cronaca di Novalesa, a cura di G. C. Alessio, Einaudi, Torino 1982. Dopo un’introduzione generale alle pp. VII-XXXIX, in una nota critica l’Alessio dà notizie sul rotolo del Cronicon nelle pp. XLI-LXIV. Il testo citato si trova nel libro quinto del Cronicon, al numero 26, e nell’edizione di Alessio alle pp. 286-289. I documenti dell’abbazia furono pubblicati, sempre a cura di C. Cipolla, nei Monumenta Novaliciensia vetustiora, I, Roma 1898 (Fonti per la storia d’Italia, 31).

2 Cronicon, V, 26; Monumenta cit., II, p. 267; Cronaca di Novalesa cit., pp. 286-289.

3 C. Patrucco, I Saraceni nelle Alpi occidentali e specialmente in Piemonte, in Studi sulla storia del Piemonte avanti il Mille, Pinerolo 1908 (Biblioteca della Società Storica Subalpina, d’ora in poi B.S.S.S., 32/4); B. Luppi, I Saraceni in Provenza, in Liguria e nelle Alpi occidentali, Bordighera 1952, ma cfr. A. A. Settia, Monasteri subalpini e presenza saracena: una storia da riscrivere, in Dal Piemonte all’Europa: esperienze monastiche nella società medievale (Relazioni e comunicazioni presentate al XXXIV Congresso storico subalpino nel millenario di S. Michele della Chiusa, Torino, 27-29 maggio 1985), Torino 1988, pp. 293-310; Id., I Saraceni nelle Alpi: una storia da riscrivere, in «Studi storici», 28 (1987), pp. 127-143. Per Settia l’arrivo dei saraceni alla Novalesa è da porsi intorno agli anni 920-925.

4 Cronicon, V, 16-17 e Appendice 3; Monumenta cit., I, p. 95, doc. 35 regesto; II, pp. 259, 286; Cartario della abazia di Breme, a cura di L. C. Bollea, Torino 1933 (B.S.S.S., 127), pp 1-2, doc. 1-2, prima del 24 luglio 929; Cronaca di Novalesa cit., pp. 276-279; 318-321.

5 Cronicon, V, cap. 25; Monumenta cit., II, p. 266; Cronaca di Novalesa cit., pp. 286-287; Bollea, Cartario di Breme cit., p.26, doc. 22.

6 Monumenta cit., I, pp. 144-145, 159-161, 163-166 e passim.

7 Cronicon cit., IV, fram. 19 dei capitoli 21-29; fram. 22 del capitolo 24; Cronaca di Novalesa cit., pp. 233, 238-239.

8 Cronicon cit., V, 5; Cronaca di Novalesa cit., pp. 258-59; Introduzione p. X. Nella nota 1 di p. 259 l’Alessio traccia un breve profilo di Adalberto, figlio di Anscarico I, cui successe tra l’896 e il 900. Morì dopo il 28 febbraio 929, come prova la donazione delle corti di Gonzole e di S. Dalmazzo alla chiesa di S. Andrea.

9 Sulla canonica di Rivalta di Torino cfr. il Cartario della prevostura poi abbazia di Rivalta Piemonte fino al 1300, a cura di G. B. Rossano, Pinerolo 1912 (B.S.S.S., 68). In una conferma del vescovo di Torino Milone (1170-1188) di chiese a Rivalta risulta che la chiesa di S. Benedetto sorgeva «infra muros Taurini iuxta portam que secusana dicitur» (op. cit., p. 14, doc. 14); cfr. L. Cibrario, Storia di Torino, II, Torino 1846, pp. 143-144, 160, nota 8. La valle di S. Benedetto è menzionata a p. 168, doc. 151: «in finibus Thaurini, ultra Duriam, ubi dicitur in valle sancti Benedicti».

10 Cronicon cit., V, 1; Cronaca di Novalesa cit., pp. 252-253. Il testo è stato ricostruito dal Cipolla, ricavandolo dal Pingon e dal Baldessano, come si legge nei Monumenta cit., II, p. 244, nota 1.

11 T. Rossi, F. Gabotto, Storia di Torino, I, Torino 1914, p. 59, nota 6; G. Tabacco, Dalla Novalesa a S. Michele della Chiusa, in Monasteri in alta Italia dopo le invasioni saracene e magiare (sec. X-XII), Torino 1966 (Relazioni e comunicazioni presentate al XXXII Congresso storico subalpino, Pinerolo, 6-9 settembre 1964), p. 492, nota 47.

12 Cronicon cit., V, 26; Cronaca di Novalesa cit., pp. 286-289.

13 Monumenta cit., I, p. 141, doc. 60; Cartario di Breme cit., pp.61-63, doc. 51, 2 agosto 1020.

14 Monumenta cit. I, pp. 288, 315; Cartario di Breme cit., p. 46, doc. 38.

15 Cronicon cit., V, 25; Cronaca di Novalesa cit., pp. 286-287.

16 Cronicon cit., V, 26; Cronaca di Novalesa cit., pp. 288-289.

17 Cronicon cit., IV, fram. 23 dei capitoli 24, 25, 30; Cronaca di Novalesa cit., pp. 240-241.

18 G. Casiraghi, Sulle origini del santuario della Consolata a Torino, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», 87 (1989), fasc. I, pp. 45-63.

19 G. Casiraghi, Dalla pieve di Quadraciana a S. Maria di Scarnafigi. Evoluzione dell’ordinamento plebano nei secoli X-XIII, in Scarnafigi nella storia, a cura di A. A. Mola, Cuneo 1992 (Biblioteca della Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della provincia di Cuneo, 27), pp. 43-74; la documentazione è edita nelle Carte superstiti del monastero di San Pietro di Torino (989-1300), a cura di F. Gabotto, Pinerolo 1914 (B.S.S.S., 69,III), pp. 141-214; G. De Marchi, Documenti dei sec. XI e XII del monastero Sancti Petri puellarum de Taurino, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», 43 (1941), pp. 90-103.

20 Cartario di Breme cit., pp. 19, doc. 16, a. 972; 22, doc. 17, a. 972; 31, doc. 28, a. 992; 35, doc. 30, a. 997; 57, doc. 48, a. 1014; 66, doc. 52, a. 1026; 91,doc. 69, a. 1048; 120, doc. 89, a. 1093; 130, doc. 98, a. 1152; 187, doc. 144, a. 1210, con indicata nelle Fonti l’edizione dei Monumenta.

21 Alla data corrispondente cfr. Cartario di Pinerolo fino all’anno 1300, a cura di F. Gabotto, Pinerolo 1899 (B.S.S.S., 2), p. 297, doc. 59bis, a. 1195; Le carte della prevostura d’Oulx fino al 1300, a cura di G. Collino, Pinerolo 1908 (B.S.S.S., 45) p. 244, doc. 234, a. 1208; Le carte dell’Archivio arcivescovile di Torino fino al 1310, a cura di F. Gabotto, G. B. Barberis, Pinerolo 1906 (B.S.S.S., 36), pp. 152-54, doc. 144, a. 1209; G. Claretta, Storia diplomatica dell’antica abbazia di S. Michele della Chiusa con documenti inediti, Torino 1870, p. 231, doc. 5, a. 1219; Documenti inediti e sparsi sulla storia di Torino, a cura di F. Cognasso, Pinerolo 1914 (B.S.S.S., 65), p. 316, doc. 307, a. 1280; Le carte dell’Archivio arcivescovile cit., pp. 347, doc. 317, a. 1290; 351, doc. 318, a. 1290; Cartario di Breme cit., pp. 49, doc. 38, a. 1313; 50-51, doc. 39-40, sec. XII e XV; 307, doc. 239, a. 1313; 309, doc. 241, a. 1315; 312-13, doc. 242, a. 1315; 320, doc. 245, a. 1318; 333-39, docc. 255-56, a. 1326; 340-46, docc. 257-64, a. 1328-1329-1330; 347-48, docc. 266-68, a. 1330-1332; 350-53, doc. 272, a. 1337; 354-56, docc. 275-76, a. 1343; 364-65, doc. 281, a. 1348; 371, doc. 287, a. 1366; 376, doc. 293, a. 1369; 378-79, doc. 295, a. 1377; 414-15, doc. 306, a. 1390.

22 Cartario di Breme cit., pp. 48, doc. 38, sec. XV; 415-17, doc. 307, a. 1405; 419-20, doc. 309, a. 1414; Archivio Arcivescovile di Torino, sez. VI, prot. 28, f. 140r e v., 21 giugno 1428: oltre al priore Simeone de Mercadillo, sottoscrive il documento il monaco Giovanni, chierico e custode della cappella di S. Maria della Consolazione, ed è anche presente Michele Albo, cuoco del priorato. Nell’Archivio di Stato di Torino, Sezione di Corte, Benefici di qua de’monti, mazzo 32, Torino, priorato di Sant’Andrea, si trova in data 1459, 13 marzo, il processo fulminante di esecuzione della bolla di collazione del priorato a favore di Gioannetto Catelino per cessione di questi fatta da Pantaleone Valperga; il 28 marzo dello stesso anno Gioannetto Valperga rilasciava una dichiarazione scritta di ricevuto pagamento di 100 fiorini a Margherita, vedova di Giorgio Valperga, signore di Villar, da lui legati alla cappella «Domine nostre de Thaurino et in reparationem ecclesiam eiusdem» per la remissione dei propri peccati; in data 1517, 21 marzo, si registra infine il conseguamento dei beni del priorato di S. Andrea; cfr. G. Gentile, Documentazione d’archivio per la storia della Consolata, in Gli ex voto della Consolata. Storie di grazia e devozione nel Santuario torinese, Provincia di Torino - Assessorato alla cultura, Torino 1982-83, p. 42; G. Gasca Queirazza, La Consolâ - La Consolata: il titolo caratteristico della devozione alla Madonna in Torino, in «Studi Piemontesi», novembre 1972, I/2, p. 51. Secondo G. Saroglia, Eporedia sacra. Serie cronologica dei parroci, Ivrea 1887, p. 74, Gioannetto dei signori di Valperga fu parroco di Locana, nella Valle dell’Orco, poi protonotario apostolico e quindi priore di S. Andrea. Pantaleone Valperga muore nel 1461 (Cartario di Breme cit., p. 48, doc. 38). Giovanni Francesco Della Rovere s’impossessa del priorato nel 1498 (Cartario cit., p. 49, doc. 38). Sui tre vescovi Della Rovere cfr. G. Tuninetti, G. D’Antino, Il cardinale Domenico Della Rovere, costruttore della cattedrale e gli arcivescovi di Torino dal 1515 al 2000, Cantalupa (To) 2000, pp. 21-38. Un elenco dei priori di S. Andrea in D. Franchetti, Storia della Consolata con illustrazioni critiche e documenti inediti, Torino 1904, pp. 413-416, composto sulla base del Necrologio di S. Andrea e di alcuni documenti inediti.

23 S. Solero, Il Duomo di Torino e la R. Cappella della Sindone, Pinerolo 1956, pp. 87, 119; cfr. sopra, nota 22, per lo strumento del 1428.

24 Per questi elenchi cfr. il Necrologio di S. Andrea in Cartario di Breme cit., pp. 46-50, doc. 38; inoltre Acque, ruote e mulini a Torino, a cura di G. Bracco, I, Torino 1988, p. 89, nota 40, a. 1317-18.

25 Documenti inediti e sparsi cit., pp. 96, doc. 103, a. 1221; 228, doc. 229, a. 1252; 252, doc. 258, a. 1256: parrocchia; pp. 50, doc. 58, a. 1194; 137, doc. 138, a. 1236; 239, doc. 243, a. 1253: case; p. 86, doc. 93, a. 1218: fossato e via; Forma urbana cit., I/1, pp. 245, n. 600, a. 1363: parrocchia; Carte varie a supplemento e complemento dei volumi della Biblioteca della Società Storica Subalpina, a cura di F. Gabotto, F. Guasco di Bisio, G. Peyrani ecc., Pinerolo 1916 (B.S.S.S., 86), pp. 261-62, doc. 196, a. 1293:confraria.

26 Cartario di Breme cit., pp. 3-5, doc. 4, a. 929; 309-312, doc. 241, a. 1315.

27 Cartario di San Solutore di Torino, a cura di F. Cognasso, Pinerolo 1908 (B.S.S.S., 44), pp. 23, doc. 10, a. 1048; Documenti inediti e sparsi cit., pp. 309, doc. 300, a. 1278; 313, doc. 304, a. 1279; 315, doc. 305, a. 1279; 316, doc. 307, a. 1280; Cartario di Breme cit., pp. 333, doc. 255, a. 1326; 376-77, doc. 293, a. 1369.

28 Carte superstiti cit., pp. 175, doc. 49, a. 1214; 180, doc. 56, a. 1220; Le Carte dell’Archivio arcivescovile cit., pp. 193-94, doc. 183, a. 1222.

29 Cartario di Rivalta cit., pp. 37, doc. 43, a. 1196; 47, doc. 54, a. 1202; 51, doc. 59, a. 1203; 53-54, doc. 61, a. 1204; 57, doc. 64, a. 1206; 67, doc. 73, a. 1213; 78-79, doc. 85, a. 1218; 125, doc. 125, a. 1241. Sui toponimi cfr. G. Casiraghi, La collegiata di S. Maria della Stella: capacità di rinnovamento dell’organizzazione ecclesiastica a Rivoli nel tardomedioevo, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», 81 (1983), pp. 35-49.

30 Documenti inediti e sparsi cit., pp. 26, doc. 28, a. 1156; 71-72, doc. 81, a. 1213; Cartario del monastero di Santa Maria di Brione, a cura di G. Sella, Pinerolo 1913 (B.S.S.S., 67/2), pp. 45-48, doc. 53, a. 1252.

31 Documenti inediti e sparsi cit., p. 43, doc. 49, a. 1186; Le carte dell’Archivio arcivescovile cit., p. 152, doc. 144, a. 1209.

32 Cartario di Breme cit., pp. 415-17, doc. 307, a. 1405.

33 Le carte dell’Archivio del Duomo di Torino, a cura di G. Borghezio, C. Fasola, Torino 1931 (B.S.S.S., 106), p. 51, doc. 31, a. 1208.

34 Inventario e regesto dell’Archivio di Moncalieri fino all’anno 1418, a cura di F. Gabotto, in «Miscellanea di Storia italiana», serie III, tomo V (XXXVI), Torino 1900, pp. 440-41, n. 1992.

35 Cartario di Breme cit., pp. 417-420, docc. 308-309, 22 novembre 1413 e 30 agosto 1414.

36 Le carte dell’Archivio arcivescovile cite., p. 152, doc. 144, a. 1209; Documenti inediti e sparsi cit., pp. 312-314, a. 1279; inoltre p. 159, doc. 154, a. 1244; Cartario di Breme cit., pp. 376-77, doc. 293, a. 1369.

37 Cartario di Breme cit., pp. 414-15, doc. 306, 21 febbraio 1390. I Falletti di Alba erano infatti in relazione con l’abbazia di Breme, dalla quale dipendeva il priorato di S. Andrea; cfr. B. Del Bo, I Falletti di Alba e il loro itinerario politico nel crepuscolo angioino, in Alba medievale. Dall’alto medioevo alla fine della dominazione angioina: VI-XIV secolo, a cura di R. Comba, Alba 2010, p. 198.

38 Cartario di Breme cit., p. 314, doc. 243, a. 1315.

39 Gasca Queirazza, La Consolà - La Consolata cit., pp. 41-63; ma cfr. anche Franchetti, Storia della Consolata cit., pp. 139-186.

40 Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII-XIV. Lombardia et Pedemontium, a cura di M. Rosada, Città del Vaticano 1990, p. 313, n. 1740; inoltre pp. XI-XII, XIV.

41 G. Casiraghi, La diocesi di Torino nel medioevo, Torino 1979 (B.S.S.S., 196), pp. 190, n. 99, a. 1364; 212, n. 78; 224, n. 112; 225, n. 135; 227, n. 223; 244, n. 10, sec. XV.

 

42 Le Carte dell’Archivio arcivescovile cit., pp. 152-54, doc. 144, 10 febbraio 1209.

43 Cartario di Breme cit., pp. 337-39, doc. 256, 31 maggio 1326.

44 Questi santi non compaiono negli elenchi ufficiali; doveva forse trattarsi di una denominazione di santi locali poco conosciuti. Cartario di Breme cit., pp. 47, 49, doc. 38: Necrologio di S. Andrea.

45 Cartario di Breme cit., pp. 47, 49, doc. 38: Necrologio di S. Andrea.

46 M. Grosso, M. F. Mellano, La controriforma nella arcidiocesi di Torino (1558-1610), II, Città del Vaticano 1957, pp. 74-81.

47 Franchetti, Storia della Consolata cit., pp. 198-200. Per le fonti bibliografiche cfr. A. Bo, La più cara, la più misteriosa. Santuario della Consolata, in Archivi di pietra. Nelle chiese di Torino gli uomini, la storia, le arti, Torino 1988, p. 24; La Consolata. Arti e mestieri. La civiltà della preghiera, a cura di A. Griseri e F. Peradotto, Allemandi, Torino 2005, pp. 117-120.

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