DALLA NOVALESA AL MONDO

STORIA E DEVOZIONE VERSO LA CONSOLATA

 

L’abbazia di Novalesa sorgeva, e sorge ancor oggi, ai piedi del Moncenisio, nella valle del torrente Cenischia, lungo la strada romana che un tempo collegava il regno dei Franchi con quello dei Longobardi mediante la valle di Susa.

Situata in un’importante valle di transito, l’abbazia controllava il passaggio di imperatori e re, cardinali e abati, soldati, pellegrini e viandanti, che giungevano dalla Francia o vi tornavano dall’Italia e da Roma, passando per Torino e la pianura padana. Un luogo strategico, dunque, ed estremamente significativo per la politica di espansione territoriale intrapresa dai Franchi, specialmente durante il regno di Carlo Magno e dei suoi discendenti.

L’abbazia svolse il suo apostolato per almeno due secoli secondo le caratteristiche proprie del monachesimo benedettino ed esercitò la cura d’anime nelle chiese che dipendevano dalla sua giurisdizione. Fino a quando i Saraceni nei primi decenni del secolo X, muovendo da un luogo denominato “Frassinetum Saracenorum”, non lontano da Saint-Tropez, penetrarono nelle Alpi occidentali fino alla valle di Susa e provocarono la scomparsa della vita monastica nell’antica abbazia di Novalesa.

La miglior prova del vigore religioso e spirituale, che quella tradizione monastica aveva raggiunto, fu data dalla sua sopravvivenza prima a Torino nella chiesa di S. Andra, che sorgeva a ridosso delle mura romane, a nord-ovest della città, e poi, dalla metà circa del secolo X, nella nuova sede monastica di S. Pietro di Breme, nella Lomellina.

cartina_per_novalesaA quella tradizione e a quella spiritualità si ricollega la devozione mariana portata dai monaci di Novalesa nella chiesa di S. Andrea sotto il titolo di Santa Maria della Consolazione. Qui infatti - narra la Cronaca dell’abbazia - fuggendo dalla Novalesa, i monaci portarono le reliquie, le croci preziose, i vasi sacri e i codici della loro ricca biblioteca. È assai probabile che tra questi codici vi fosse un’omelia mariana del venerabile Beda per la festa liturgica della visita di Maria a Santa Elisabetta.

In una delle croci in oro e argento, trasportate a Torino dai monaci, “molti dicono si conservassero reliquie gloriosissime” della Vergine Maria.

Anche l’abate Bellegrimo, che risiedette a lungo a Torino, dove certamente si trovava nel giugno del 955, compose un inno che si doveva cantare nella festa dell’Assunta in tutti i luoghi che dipendevano dalla nuova abbazia di Breme. Numerosi sono inoltre i racconti che narrano gli interventi prodigiosi di Maria in favore dei monaci.

L’intensa pietà mariana dei monaci di Novalesa, la protezione materna della Vergine, le sue apparizioni nel silenzio della notte, che ricordano la visione di re Arduino e quella del cieco di Briançon, sono aspetti di una ricca tradizione mariana, che i monaci portarono a Torino, quando fuggendo dalla loro valle a causa delle scorrerie saracene, furono ospitati nella chiesa di S. Andrea.

A dire il vero l’anonimo monaco cronista della Novalesa, che scrisse la Cronaca verso la metà dell’XI secolo, non accenna all’esistenza in quel secolo di una cappella nella chiesa di S. Andrea dedicata alla Vergine Maria. Tuttavia, è senza dubbio questa la tradizione mariana, che lungo i secoli unì i monaci di Novalesa al culto mariano della Consolata, già vivo nel secolo XII e soprattutto nel secolo XIII. È infatti, a partire da quest’ultimo secolo, che il Necrologio del Priorato di S. Andrea di Torino ricorda un monaco di nome Giovanni, custode della cappella di S. Maria della Consolazione.

Quel culto era sicuramente vivo e affermato alla fine del secolo XIII e nei primi decenni del secolo seguente, quando la chiesa di S. Andrea divenne una delle parrocchie principali della città e i conti di Savoia caldeggiarono la devozione alla Consolata con donazioni e visite alla cappella edificata in S. Andrea.

Ma ciò che soprattutto stupisce nella narrazione del cronista è il fatto che egli sottolinei la maternità divina di Maria, Madre cioè del Figlio di Dio, che essa ha generato come “Salvatore del genere umano”, e che inoltre il cronista inviti a venerarla, perché tutti i giorni essa prega “pro peccatis omnium populorum” (per i peccati di tutti i popoli).

Oltre a questo aspetto della devozione mariana, che si può definire missionaria per la preghiera di Maria che invoca la salvezza di tutti gli uomini, colpisce un altro fatto, che cioè la Consolata, quale oggi la vediamo sull’altare della cappella ricostruita su disegno del teatino Guarino Guarini a partire dal 1678, è raffigurata in una variante del modello bizantino con “la Vergine e il Bambino benedicente” nelle forme della Madonna “odigitria”, tipica dei santuari greci e russi, penetrato in occidente fin dal secolo XIII e a Roma nella chiesa di S. Maria del Popolo.

La Madonna “odigitria” bizantina è l’immagine di una madre che tiene amorevolmente tra le braccia il suo bambino e che, come dice lo stesso nome di derivazione greca, “conduce” a Gesù, indicato con la mano destra come il Salvatore del genere umano, come la luce che viene a illuminare e liberare gli uomini dalle tenebre del peccato.

Non sappiamo quale fosse l’immagine originaria di S. Maria della Consolazione, ma è fuori dubbio, come già in una fotografia di Secondo Pia e soprattutto con il restauro del 1979 dell’attuale quadro della Consolata che ha ben visibile ai piedi la scritta “S. Maria de Populo de Urbe”, che l’attuale immagine sia una copia della Madonna del Popolo romana, inviata a Torino con ogni probabilità dal cardinale Domenico della Rovere dei Signori di Vinovo, vescovo della città negli anni 1483-1501, colui che ricostruì in stile rinascimentale la cattedrale di S. Giovanni Battista in sostituzione dell’antica ormai fatiscente.

L’immagine della Consolata che con la mano addita il Bambino Gesù è un’immagine tipicamente cristologica, come del resto doveva essere la primitiva immagine di S. Maria della Consolazione.

Il Bambino Gesù viene indicato come il Salvatore dell’umanità, come narravano i monaci di Novalesa nei racconti prodigiosi mediante cui la Vergine Madre di Dio li proteggeva e difendeva.

La Vergine Madre mostra, dunque, il Figlio di Dio come il Salvatore, come colui che ella prega per i peccati degli uomini e che la tradizione cristiana, specialmente nella liturgia del Natale e naturalmente in quella della Pasqua di Risurrezione, descrive come la luce che illumina le tenebre del male.

Alla luce fa anche riferimento il racconto della visione notturna di re Arduino, in cui la Vergine Maria appare nel sonno in tutto il suo splendore, con accanto i santi Benedetto e Maria Maddalena, e invita il re a fondare e dotare di beni tre santuari: Belmonte nel Canavese, Crea nel Monferrato e la cappella di S. Maria della Consolazione a Torino.

Ancora più evidente il riferimento alla luce è nel racconto del cieco di Briançon che, proveniente dal colle del Monginevro e dalla valle di Susa, ritrova a Torino, tra le rovine di un’antica cappella, il quadro della Consolata e subito riacquista la vista.

Il racconto del cieco di Briançon, che data il ritrovamento del quadro il 20 giugno 1104, acquista maggior rilievo se si considera che i monaci di Novalesa, anch’essi giunti a Torino dalla valle di Susa come il cieco di Briançon, avevano interpretato simbolicamente il toponimo Novalesa, facendolo derivare dal latino “Novalis” e dall’aggettivo “novalensis”, termini che alludono al dissodamento nella valle di nuovi terreni, ossia all’introduzione della coltivazione dei campi in zone prima coperte di boschi.

I monaci, quindi, mutarono il toponimo in “Nova lux”, nuova luce appunto, per il fatto che l’abbazia aveva portato in quei luoghi la nuova luce del cristianesimo ed era diventata nel medioevo uno dei centri monastici e culturali di maggior rilievo, un faro di luce per tutti quei viandanti che diretti o provenienti dal Moncenisio erano generosamente ospitati dai monaci.

Ai piedi della montagna del Moncenisio - scrive il cronista nel libro primo della Cronaca - “ci fu un cenobio eminente chiamato Novalicio da un’antica parola ed anche perché si dice che ivi siano apparsi ed abbiano trovato fondamento i primordi della nuova luce e i principi della santità”.

La divinità, concepita come luce, non è una proprietà esclusiva della tradizione cristiana.

Il cielo, in cui splende il sole, e il cielo della notte, rischiarato dalla luna e dalle stelle, sono sempre stati per l’umanità la più straordinaria rappresentazione del divino e uno dei simboli più frequenti del linguaggio religioso.

 

Questa rappresentazione la troviamo anche nella Bibbia. Il salmo 19,1 sottolinea come “i cieli narrano la gloria di Dio”, ma ricorda che, a differenza di quanto pensino i popoli vicini, Dio non abita in essi, che i cieli non sono delle divinità, ma sue creature. Poiché, come afferma il primo libro di Samuele 2,8: “Al Signore appartengono i cardini della terra e su di essi fa poggiare il mondo”.

Dio è perciò colui che sta “al di sopra dei cieli”, così come cantano i salmi 113,4 e 149,13, a indicare che il salmista fa ampio uso della metafora celeste per designare la sfera divina, evitando però di far coincidere il cielo, e quindi la luce che da esso promana, con Dio.

Questo simbolismo religioso ricompare nei Vangeli, a cominciare dall’evangelista Matteo nella preghiera del “Padre nostro che sei nei cieli” (6,9). Così pure, nelle chiese romaniche, edificate nel medioevo, l’abside è sempre rivolto a oriente, da dove viene la luce di Cristo, rappresentata dal sole che sorge, la luce che al suo primo apparire all’orizzonte illumina l’altare, simbolo del Cristo risorto. La venerazione del cielo, e della luce che da esso promana attraverso le diverse manifestazioni uraniche (sole, luna, stelle, lampo, tuono, vento), è comune anche presso le culture e le religioni dei popoli antichi.

Miti di varia natura narrano lo stupore suscitato dalla vastità del cielo, dall’apparire del sole, simbolo della divinità, fonte di calore e di vita, dalla presenza nel cielo notturno della luna e delle stelle. Tutto ciò spiega la profonda commozione degli uomini di fronte alla luce del cielo. “Dovunque c’è il cielo, c’è Dio, poiché il cielo è Dio”, così dicono gli Ewé del Togo del sud.

Anche i popoli ariani, di cui noi facciamo parte, già in tempi antichissimi credevano e veneravano un dio supremo celeste. Il Consolata bombenome originario del termine Dio era infatti luce, splendore, fulgore, nitore, tutti termini che irradiano luce.

È questa stessa luce che, attraverso la devozione alla Consolata, purificata da credenze pagane, ma venerata come “odigitria”, colei che guida e conduce a Gesù, si è irradiata in Africa, nelle Americhe e ora in Asia nella Corea del Sud e in Mongolia attraverso i Missionari e le Missionarie, fondati a Torino dal beato Giuseppe Allamano.

Da principio la devozione alla Consolata, coltivata dai monaci di Novalesa nello splendore della luce e della liturgia di cui parla la Cronaca, era verosimilmente ristretta alla città di Torino e ai suoi dintorni. Ben presto però si diffuse in tutto il Piemonte occidentale, a cominciare dal Saluzzese, dove nella cappella di S. Maria della Scala di Verzuolo verso la fine del Quattrocento venne eretto un altare alla Consolata.

In quello stesso periodo nel territorio della chiesa di S. Martino, che sorgeva fuori delle mura di Saluzzo, venne costruita una cappella alla Consolata, da cui trae origine l’attuale santuario a lei dedicato.

Così pure in altri luoghi del Piemonte si moltiplicarono altari e cappelle erette in onore della Consolata, fino a raggiungere le Americhe, specialmente quella del sud, e altre parti del mondo attraverso i piemontesi che tra la fine dell’Ottocento riacquistò la vista e i primi decenni del Novecento migrarono in quelle lontane regioni per fuggire dalla povertà.

In quelle stesse regioni i suoi Missionari e le sue Missionarie hanno fatto conoscere il nome e la devozione alla Consolata, colei che ha generato il Salvatore del mondo, luce di tutte le genti. Il Santuario della Consolata diventa così il simbolo della vera luce, che è Cristo, e il cieco di Briançon l’immagine dell’uomo pellegrino che apre gli occhi alla luce della vera fede, indicata e offerta ai fedeli dalla Vergine Madre come luce che illumina la mente e il cuore degli uomini alla ricerca di Dio.

Veramente si può dire, come scriveva il monaco cronista dell’abbazia di Novalesa, narratore entusiasta di tutta una serie di miracoli mariani, che “Ella prega ogni giorno per i peccati di tutti i popoli”.

giuseppeallamano.consolata.org