IL CONFONDATORE “AVEVA L’ARTE DI NASCONDERSI”

camis1“Esempio di fiducia reciproca e di stima mirabile, al sorgere della nostra famiglia missionaria, fu la collaborazione tra l’Allamano e il Camisassa. La loro amicizia sacerdotale e umana permetteva al Camisassa di scrivere ai missionari a nome del Fondatore, di cui interpretava perfettamente il pensiero, di benedire a suo nome, di dare consigli e di sostituirlo quando era necessario. Sperimentava la beatitudine di essere secondo!

 

Quanto poi l’Allamano stimasse il Camisassa, oltre ad averlo dimostrato con tutta la vita, appare da queste sue affermazioni proferite durante la sua malattia e dopo la sua morte: «Per lui ho offerto la vita, ma vale niente» – «Senza di me potete fare, ma senza di lui, no» – «Tocca a me fare i suoi elogi. Era sempre intento a sacrificarsi, pur di risparmiare me; era un uomo che aveva l’arte di nascondersi e possedeva la vera umiltà» – «Con la sua morte ho perso tutte due le braccia» – «Quale perdita per il Santuario e più per l’Istituto e per le Missioni: Egli viveva per voi e per le Missioni» – «Non potremo certo dimenticarlo e dimenticare il bene che fece all’Istituto, per il quale si sacrificò fino all’ultimo respiro» – «Erano 42 anni che eravamo insieme, eravamo una cosa sola» – «Tutte le sere passavamo in questo mio studio lunghe ore. Qui nacque il progetto dell’Istituto, qui si è parlato di andare in Africa. Insomma tutto si combinava qui».

 

Ciò che colpisce non è solo la collaborazione, quanto piuttosto lo stile con cui questa collaborazione venne attuata e per così tanti anni. Questo stile è tutto in quelle parole dell’Allamano: «Abbiamo promesso di dirci la verità e l’abbiamo sempre fatto». Si comprende allora perché diceva: “Non dimenticate quest’uomo!” (P. A: Fiorentini, Missionari di Gesù Cristo per la gioia del mondo, come Paolo e i suoi collaboratori, BU 125, gennaio 2009).

 

Vorrei riflettere sull’umiltà e sull’arte di sapersi nascondere, come atteggiamento necessario al missionario d’oggi.

 

Infatti, anche se il processo di globalizzazione e la società liquida e multiculturale in cui viviamo ha ridimensionato di molto l’immagine eroica del missionario e “il regno del kitsch dove impera la dittatura del cuore”(M.Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere), fatica a morire in noi il desiderio di emergere, la voglia di protagonismo e la tendenza a metterci in evidenza. Fino al punto di non concedere valore e di non riconoscere il prossimo che ci circonda. Anzi, di considerarlo morto (Cfr L. Zoja, La morte del prossimo, Einaudi 2009).

Lentamente, va elaborandosi in noi, mediante un processo inconscio ma preciso e mirato, un progetto di vita che mette “l’io” al centro, facendogli ruotare attorno idee originali, attività creative e brillanti realizzazioni a tutti i livelli. Solo che lo scopo ultimo non è di far amare “colui che il mio cuore ama” (Cantico 3,2), Gesù Cristo, ma di celebrare se stessi, rendendoci culto e dandoci lode con ogni strumento possibile a nostra disposizione.

E’ necessario un atteggiamento diverso per essere veri missionari oggi. Giovanni Paolo II vedeva nella santità la vera identità del missionario (cfr RM 90 ), ma anche questo appello trova difficoltà a prendere piede, rompendo le resistenti corazze della nostra mediocrità.

Adottare l’umiltà, il nascondimento, può aiutarci a ritrovare la via vera che il missionario deve percorrere. Dobbiamo infatti imparare da Gesù a fare missione: “imparate da me che sono mite e umile di cuore”.

 

L’umiltà non è quella via oscurantista che tenta di spersonalizzarci e di umiliarci, ma quel sentiero nascosto e pieno di vita che nasce da un cuore libero e felice, e che porta al discernimento di scelte concrete ed efficaci di libertà. Ci porta a rompere l’egoismo, a riconoscere la presenza e il valore dell’altro che cammina con noi, a non lamentarci continuamente per i nostri malanni, ma a dare attenzione agli ultimi, a liberarci dall’ansia della ricerca dei soldi, alla capacità di dialogo.

Umiltà è scendere dal piedistallo che ci siamo creati, per poter stringere le mani e guardare gli altri negli occhi.

Umiltà è spogliarci di cariche, titoli e ruoli per essere nudi e deboli. Solo così chi vuole amarci riuscirà a raggiungere il nostro cuore.

Umiltà è ascoltare gli altri, superando la tentazione di fare sempre da soli.

Umiltà è servire.

 

“Occorre pertanto sottrarre l'umiltà alla soggettività e al devozionalismo e ricordare che essa nasce dal Cristo che è il magister humilitatis (maestro dell'umiltà), come lo chiama Agostino. Ma Cristo è maestro di umiltà in quanto «ci insegna a vivere» (Tito 2,12) guidandoci a una realistica conoscenza di noi stessi. Ecco, l'umiltà è la coraggiosa conoscenza di sé davanti a Dio e davanti al Dio che ha manifestato la sua umiltà nell' abbassamento del Figlio, nella kénosi fino alla morte di croce. Ma in quanto autentica conoscenza di sé, l'umiltà è una ferita portata al proprio narcisismo, perché ci riconduce a ciò che siamo in realtà, al nostro humus, alla nostra creaturalità, e così ci guida nel cammino della nostra umanizzazione, del nostro divenire homo. Ecco l'humilitas: «O uomo, riconosci di essere uomo; tutta la tua umiltà consista nel conoscerti» (Agostino)” (E. Bianchi, L’umiltà, una virtù sospetta) .

Essa è anche elemento essenziale alla vita in comune, e non a caso nel Nuovo Testamento risuona costantemente l'invito dell' apostolo ai membri delle sue comunità a «rivestirsi di umiltà nei rapporti reciproci» (I Pt 5,5; Col 3,12), a «stimare gli altri, con tutta umiltà, superiori a se stessi» (Fil 2,3), a «non cercare cose alte, ma piegarsi a quelle umili» (Rom 12,16): solo così può avvenire l'edificazione comunitaria, che è sempre condivisione delle debolezze e delle povertà di ciascuno. Solo così viene combattuto e sconfitto l'orgoglio, che è «il grande peccato» (Salmo 19,14), o forse, meglio, il grande accecamento che impedisce di vedere in verità se stessi, gli altri e Dio.

 

Potremmo parafrasare dicendo che l’umiltà è un realismo fecondo.

giuseppeallamano.consolata.org