LA FEDELTA' DI P. D. FERRERO AL FONDATORE

FerreroFEDELE AL SUO MAESTRO”

 

P. Domenico Ferrero (1891 – 1973) fu uno dei primi Missionari della Consolata molto vicino al Fondatore, che chiamava con compiaciuto orgoglio suo “Maestro”. Proveniente dal seminario di Mondovì (CN), entrò nell'Istituto, nel 1907, accolto nella prima Casa Madre, la “Consolatina”. Fu ordinato sacerdote il 20 settembre 1913. Mentre si preparava alla missione, venne arruolato durante la prima guerra mondiale dal maggio 1915 al gennaio 1919.

Dopo il congedo, dall'Allamano fu nominato Procuratore dell'Istituto presso la Santa Sede, diventando il suo principale collaboratore per il disbrigo delle pratiche a Roma. A questa carica aggiunse in seguito anche quella di Maestro dei novizi.

Partecipò al primo Capitolo Generale dell'Istituto, nel 1922, che giustamente confermò l'Allamano a Superiore Generale, nonostante le sue riluttanze. Finalmente anche per lui giunse il momento di partire per la missione. Per una decina di anni, svolse un intenso apostolato in Tanzania, da dove, nel 1933, fu richiamato in Italia per svolgere il servizio di vice Superiore Generale.

Rimasto libero da questo incarico nel 1939, poté ritornare in Africa, questa volta nel Mozambico. Anche qui p. Ferrero si impegnò con tutta la sua energia. Fu parroco in diverse missioni e anche Superiore Delegato del gruppo dei Missionari della Consolata che operavano in quel paese. «Bisogna amare l'africano – scriveva – come ci insegnava il Fondatore». E ancora, rinunziando di tornare in patria per un tempo di riposo: «Grazie a Dio non sento il bisogno di vacanze. Il Signore forse mi fa la grazia di lavorare fino all'ultimo e lo ringrazio di gran cuore».

Lavorò di fatto intensamente fino quasi al termine della vita nella missione di Mitucue. Gli ultimi due anni li passò nella malattia che sopportò con serenità, offrendo la sua sofferenza come collaborazione apostolica. Fu molto apprezzato dai vescovi e dai governanti del Paese, tanto che gli venne conferita l'onorificenza “Pro Ecclesia et Pontifice”. Dopo poco più di un mese dalla celebrazione del 60° di sacerdozio, venne chiamato al premio eterno, precisamente il 26 ottobre 1973. Ora riposa nel cimitero della missione di Mitucue, assieme ai suoi confratelli, alle missionarie ed a molti cristiani.

P. Ferrero lasciò interessanti testimonianze sull'Allamano. Merita di essere ricordato un opuscolo di 55 pagine dattiloscritte, intitolato: “Ricordi del Ven.mo Padre”, dal quale stralciamo qualche brano.

 

 

I viaggi dell'Allamano a Roma. «Quando fui alla stazione a riceverlo al suo arrivo a Roma gli domandai, come si suole, se aveva fatto buon viaggio, se non era stanco. Mi rispose che stava bene, ma che non aveva affatto dormito; e che durante quella notte aveva fatto quella che lui chiamava la “notte eucaristica”».

«Quando andammo insieme la prima volta a S. Pietro, allorché la carrozza imboccò la via di Borgo Nuovo [non c'era ancora via della Conciliazione], e la basilica ci apparve vicina nella sua imponente maestà, il caro Padre, che già prima mi aveva detto che dovevamo andarci con l'intenzione di fare un pellegrinaggio, m'invitò a dire il “Credo” come professione di fede, che recitava con espressione, gustandolo.

Celebrava la S. Messa a S. Maria sopra Minerva. [...]. Gli servii due volte la S. Messa, dopo la quale insieme andavamo a fare il ringraziamento all'altare della Madonna ove si conservava il SS. Sacramento. Tale ringraziamento non era troppo lungo né troppo breve: teneva un giusto mezzo che faceva piacere.

Una di queste volte egli celebrò all'altare di S. Caterina da Siena, nella camera dove morì la santa, ristrutturata a cappella. E mi disse poi che a questa santa aveva raccomandato tanto le Suore Missionarie della Consolata.

Quando aveva da attendere al ringraziamento della S. Messa, o quando insieme visitavamo Gesù Sacramentato in qualche chiesa, mi conduceva sempre avanti avanti, nella prima fila di banchi o sedie, proprio vicino al Tabernacolo. E usava dire che è poco buon segno, specialmente in un sacerdote, che si accontenti di stare in fondo alla chiesa: pare che si abbia timore di avvicinarsi a Gesù. […].

Gli rimase impresso l'aver letto su un cartello nell'atrio di una chiesa un avviso che invitava i fedeli a fare un atto di adorazione a Gesù Sacramentato, prima di recitare altre preghiere o visitare le opere d'arte: “Quando si entra nella Casa di Dio il primo atto di ossequio e di affetto, anche breve, deve essere rivolto a Gesù Sacramentato”. E aggiungeva che ciò gli pareva così giusto che un giorno o l'altro l'avrebbe pure fatto mettere nel santuario della Consolata».

 

Le sue conferenze domenicali. «Nell'Istituto, siccome imparavamo presto a considerarlo come un santo, ci impegnavamo anche a ritenere a mente, o per scritto, e per quanto era possibile anche alla lettera, gli insegnamenti tanto preziosi e persuasivi che ci impartiva, specialmente nelle regolari conferenze alla sera delle domeniche. Dopo di esse, molti si impegnavano a prendere note. Anzi, ci fu un tempo in cui alcuni confratelli di mano più spedita, nascondendosi in parte dietro le prime file, trascrivevano addirittura alla lettera e per intero le conferenze come uscivano dalla sua bocca. Queste venivano poi dattilografate e conservate; e nei primi anni di guerra venivano spedite anche a noi soldati. A noi facevano un gran bene, tanto più che ci pareva di sentire la parola del nostro amatissimo Padre. Tuttavia, ed era parere comune, quelle conferenze, benché originali, non erano mai proprio quelle, e ben lontane dal fare quell'effetto che solevano produrre udite dalla sua viva voce.

Da noi si può dire che otteneva ciò che voleva. Se parlava per infervorarci, noi ci sentivamo realmente animati da gran buon volere; se era per confortarci, perché non ci scoraggiassimo, noi ci sentivamo effettivamente più coraggiosi e forti. Ma bisognava vedere e sentire lui, con che persuasione, con che unzione ci parlava; bisognava vedere il suo gesto parco, non ricco, ma risoluto, con quegli atteggiamenti del capo e degli occhi, di quegli occhi che penetravano a interrogare il cuore; bisognava sentire la sua paterna stretta di mano quando congedandoci ci diceva: “Coraggio!”. Ah, il nostro buon Padre!».

«Confidava: tutto ciò che dico lo dico alla buona, ma mi preparo sempre, perché voglio che siano cose sode. Potrei parlarvi un po' più sostenuto; ma no, non lo faccio. Preferisco così, condire queste cose anche con qualche barzelletta, che le rendano meno pesanti, e si può fare molto bene lo stesso.[...]. Quando vado e torno dal duomo, penso a queste cose e, arrivato a casa, prendo appunti».

 

Soffriva di emicrania. «Nella prima metà di giugno 1919, fu assalito di nuovo dall'emicrania, di cui fortunatamente non soffriva da tutto quell'anno. Riceveva soltanto noi. Il primo giorno in cui fu indisposto, come eravamo intesi, andai nel suo studio per i lavori inerenti alla causa di beatificazione del ven. Cafasso. Appena mi vide, bonariamente mi annunciò che non poteva affatto occuparsi, avendolo ripreso improvvisamente l'emicrania.

Tuttavia si intrattenne alquanto su alcune cose. Nel congedarmi gli feci filiali auguri, come mi venivano dal cuore, ed egli con un sorriso mi disse: “Oh, ma passerà. Non posso ricevere nessuno; sto tutto solo così in camera; ma credimi, che quando si è così soli...” e sospese un momentino il discorso guardandomi con il suo occhio tanto buono ed espressivo, quasi volesse parlare con quello; poi continuò: “Si può farsi tanto del bene, sai”. Sorrise di nuovo e mi salutò il buon Padre!».

 

La sua sensibilità. «Domenica 20 luglio mi chiamò alla Consolata e si intrattenne su diversi argomenti. Tra l'altro, riferendosi ad una lettera che io gli avevo scritto al santuario di S. Ignazio, da dove era appena tornato, mi disse queste parole quasi alla lettera: “Non credere mica che sia male avere un cuore sensibile. Anch'io sono così e sento tanto. Ti assicuro che molte volte avrei domandato al Signore che mi desse un cuore meno sensibile, un po' più duro. Poi ho sempre detto: no! È meglio e sono contento così. S. Paolo faceva quasi un'accusa ai pagani che non avevano cuore, senza affezione (cf. Rm 1,31; 2Rim 3,31). Io sento tanto anche le piccole cose, anche solo minuzie; specialmente quando si tratta di ingratitudini; non posso fare a meno di sentirle e provarne dolore; ma poi mi vinco. […].

Certamente, se avessi il cuore predisposto alla malattia, eh!, sarei morto a quest'ora. In quanrant'anni che sono qui, ne ho viste e sofferte di cose! […]. Talora, ma mai nessuno lo ha saputo, tanto era il dolore che provavo che mi veniva sangue dalla bocca. Le consolazioni esterne furono ben poche. Dopo la Comunione della S. Messa, me ne stavo lì con il Signore, davanti alla Madonna, e con Gesù si aggiustava tutto.

Quante volte, quando mi sentivo solo, senza nessuno con cui sfogare la piena delle mie angustie, andavo da Gesù. Egli mi consolò sempre, e mi rese anche non più desideroso di altri consolatori”».

 

La genuflessione davanti all'Allamano. «Il superiore della Casa Madre, p. T. Gays, nella festa di S. Francesco Saverio, ci propose di imitare il rispetto che questo santo aveva verso S. Ignazio: dimostriamo anche noi, meglio che possiamo, il nostro rispetto verso il Fondatore, magari esagerando un poco, pensando che fra 20 anni ci pentiremo di avere fatto troppo poco. E come S. Francesco Saverio scriveva in ginocchio al S. Ignazio, così propose a noi di genuflettere davanti al Ven.mo Padre Fondatore. quando, salutandolo, gli baciamo la mano. E soggiungeva: “Egli non lo permetterà, ma poco a poco noi dobbiamo abituarlo a lasciarsi attribuire questo atto di omaggio”. Meriti ben questo e altro, Padre amatissimo!

Il Fondatore si accorse della cosa; poi, vedendo che doveva esserci un accordo, risolse di troncarla subito. A me una sera che, nel congedarmi da lui nel suo studio, gli avevo fatto la genuflessione baciandogli la mano, nel rialzarmi mi disse: “Ma non voglio che mi facciate la genuflessione”. “Eppure, gli risposi, S. Francesco Saverio non faceva solo questo, ma leggeva inginocchiato le lettere del suo superiore”. “Eh, perché erano lontani”. Poi risolutamente, ma sempre con tono buono, paterno: “No, no, non voglio!

La domenica successiva (11 gennaio 1920), terminata la conferenza, soggiunse: “Ho un'altra cosa da dirvi. Ho visto che da un po' di tempo mi fate la genuflessione” e spiegò l'impressione che gli fece tale novità. Poi disse che senz'altro si lasciasse stare, che non voleva più che si facesse: “Perché io temo che, aumentando i segni esterni di rispetto e di autorità, diminuiscano quelli di confidenza. Io preferisco che mi continuiate la vostra confidenza a tutti questi segni esterni. No, no, non fatelo! Non la farete neppure quando sarò morto la genuflessione. E poi... e guardava nello spazio come se vedesse lontano, io penso per l'avvenire”».

 

Il matrimonio di mio fratello. Un giorno di novembre gli notificai che mio fratello intendeva sposarsi. Egli ebbe la delicatezza di proporre subito che andassi io a celebrare il matrimonio, suggerendomi persino quali doni era bene che facessi. La vigilia della mia partenza per casa mi incaricò di portare i suoi auguri agli sposi. […].

Di ritorno, un giorno gli chiesi, un po' confuso, se avessi potuto presentargli mio fratello con la sposa, perché li benedicesse. Accondiscese molto benevolmente, anzi pensò di fare loro un dono come ricordo; scelse due artistiche medaglie d'argento della SS. Consolata, a tergo delle quali fece incidere la data del loro matrimonio».

 

Qualche nota raccolta dal diario. «Una domenica sera che si era nel museo scolastico, aspettando che ci radunassimo tutti per la sua conferenza, visto in una vetrina un cervello umano conservato nella formalina, a noi due o tre che eravamo con lui fece alcune considerazioni al riguardo e poi, scopertosi il capo, recitò il “requiem aeternam”».

«Parlando della povertà, una volta diceva: “Per esempio, che bisogno c'è di portare una catena preziosa all'orologio? Una fettuccia, un nastrino nero servono bene lo stesso. Io ho una catena d'oro che mi hanno regalato, ma non la porto mai”. [L'ha poi venduta per le spese delle missioni]. Di fatto non gli abbiamo mai veduto altro che una cordicella nera.».

«Arrivò per la conferenza domenicale dopo la benedizione del SS. Sacramento. Non si era ancora portato il seggiolone e, mentre uno di noi andava a prenderlo, egli tolse una delle nostre sedie, la pose sulla predella e disse: “Lasciate un po' stare. Quando saremo in paradiso avremo un bel seggiolone; ma ora qui si sta bene così”».

«Una sera [a S. Ignazio durante l'estate], di ritorno da una passeggiata da noi tanto desiderata al Picco della Bellavarda, radunati attorno a lui lo ringraziavamo di avercela concessa. Egli si schermiva, dicendo che godeva del nostro piacere e: “Stanotte mi sono svegliato e sono sceso a vedere il tempo. Era brutto e dubitai che si potesse andare; alle 4 scesi nuovamente e vidi con piacere che si rasserenava”. Che buon Padre e quale interessamento per i suoi figli anche nelle minime cose!».

«Una domenica sera di questo inverno (1914) ebbi il piacere di accompagnarlo dall'Istituto al tram. Era buio; mi prese a braccetto, discorrendo alla buona, da padre a figlio. Poco prima di arrivare al tram, mi domandò: “Sei sempre allegro?”. “Sì, sì Padre!”. E lui: “Siilo sempre, prega e preparati per l'avvenire in missione”»

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