L'ALLAMANO A P. V. SANDRONE: «NON SEI PIÙ FIGLIO DELL'ISTITUTO?»

SandroneP. VITTORIO SANDRONE, IMC


P. Vittorio Sandrone (1894 – 1982) è uno di quei figli dell'Allamano che ne hanno tramandato la memoria in modo garantito. Entrato nell'Istituto nel 1911 seminarista della diocesi di Torino, fu accettato direttamente dal Fondatore. Il 3 marzo 1917 fu ordinato sacerdote, ma il conflitto mondiale in corso lo dirottò per oltre un anno in Albania, in veste di cappellano militare. Una crisi di malaria lo ridusse in fin di vita e rischiò addirittura di venire seppellito vivo.

Cessato il conflitto, ritornò a Torino «in attesa – come scrisse – di partire per le missioni». Nel 1919, infatti, poté partire per il Kenya, dove lavorò come missionario per oltre 6 anni. Nel 1925, fu aggregato alla prima spedizione per il Mozambico, con l'incarico di assumere la responsabilità di alcune missioni nello Zambesi. Quando i Missionari della Consolata si spostarono nella regione del Niassa, p. Sandrone fu richiamato in patria per un nuovo difficile incarico: partecipare alla spedizione in India, precisamente nei centri di Kondwa e Jubbulpur.

Fallita l'avventura indiana a causa di numerose e complicate ragioni, p. Sandrone ritornò in Casa Madre, dove iniziò un servizio di responsabilità che durò quasi tutta la vita: prima consigliere generale e poi, per 20 anni, vice superiore generale, fino al 1959. Esonerato da questa carica, continuò il suo generoso impegno come redattore della rivista “Da Casa Madre”. Suo grande merito fu la pubblicazione della “Dottrina Spirituale del Servo di Dio Giuseppe Allamano”, che il p. Lorenzo Sales aveva preparato attingendo dalle conferenze domenicali del nostro Fondatore. Fu pure suo riconosciuto merito il servizio ai carcerati, dimostrando una speciale abilità nell'assisterli moralmente e spiritualmente.

P. Sandrone trascorse gli ultimi anni di vita nell'infermeria dell'Istituto, dove sopportò con fede la malattia, diventando così anche missionario della sofferenza.

Prima di morire p. Sandrone lasciò alcune interessanti testimonianze e un opuscolo intitolato “Memorie sul Ven.mo Fondatore”, che scrisse dietro richiesta dei chierici del nostro seminario maggiore di Torino. Ascoltiamone qualche tratto.

 

 

Il primo incontro con il Fondatore. «Il mio primo incontro con il venerato Padre avvenne il 10 ottobre 1911 nel suo ufficio al santuario della Consolata, dove mi ero recato per essere accettato nell'Istituto. Rimasi subito affascinato dalla bontà e compitezza di quel venerando sacerdote. Mi accolse paternamente: “Oh, vieni, vieni, io già ti conosco, sai? E so anche perché sei venuto. Hai avuto il permesso dell'Arcivescovo?” - “Me lo ha dato un po' a malincuore, avrebbe desiderato che compissi gli studi nel seminario diocesano (II filosofia)”.

Dopo avermi chiesto alcune informazioni sulla famiglia, il can. Allamano mi domandò: “Quando vuoi entrare nell'Istituto?”. “Farei una corsa al paese per prendere un po' di roba e una camicia, e domani sarò di ritorno”. “Oh, se è solo per questo puoi andare anche subito all'Istituto dove sono già incominciate le scuole. La camicia te la darò io”. E così feci, in via Circonvallazione (oggi corso Ferrucci) fui accolto a festa dalla piccola Comunità di quel tempo».

 

Gli insegnamenti del Padre. «All'Istituto mi trovai come in una famiglia, con a capo un vero Padre sollecito del nostro bene spirituale e materiale. Le impareggiabili conferenze che egli ci teneva mi aprivano nuovi orizzonti. Non mancavano quelle brevi frasi [spesso in latino] che rivolte personalmente infondevano coraggio: “Avanti in Domino” [nel Signore] - “Nunc coepi” [adesso mi riprendo subito, se ho sbagliato] - “Regnum coelorum vim patitur et violenti rapiunt illud” [il Regno dei cieli è di quanti hanno energia] - Voglio farmi santo” - “Infirma mundi eligit Deus” [Dio sceglie le cose deboli] - “Age quod agis” [fa bene quello che fai] - “Attende tibi” [impegnati].- “Dio vuole anime generose” - “Chi vuol farsi santo deve pur essere singolare in qualche cosa” - “Tuta requies in visceribus Salvatoris “[trovo sicuro riposo nel cuore del Salvatore].

Una sera mi trovavo in cappella, illuminata solo dalla luce della lampada, per una breve preghiera. Sentii un passo leggero e una mano posarsi lievemente sulla spalla: “Voglio farmi santo...”. Il buon Padre si era subito allontanato: era questo il programma di vita che egli dava ai nuovi chierici divenuti suoi figlioli».

 

In occasione della morte di mia mamma. «A un mese dalla mia ordinazione sacerdotale, il Signore chiamava al premio eterno la mia buona mamma. Il quell'occasione il can. Allamano mi scriveva: “Partecipo al tuo dolore e a quello della tua famiglia. Fermati con i tuoi secondo la necessità e convenienza. Ho pregato e farò pregare in comunità per la defunta. Hai fatto un felice cambio: “Mio padre e mia madre mi hanno lasciato, il Signore si è preso cura di me”. Ti benedico».

 

Nella bufera della guerra. «Dopo la disfatta di Caporetto anch'io venni mobilitato. Dovevo presentarmi in servizio della Patria alle ore 9 del 16 gennaio 1918. Al mattino di quel giorno il Sig. Rettore si trovava all'Istituto ove, profondamente addolorato, assisteva il Prefetto P. Umberto Costa ormai al termine della sua vita. Verso le 8, dovendomi allontanare per raggiungere la caserma mi avvicinai al Sig. Rettore per salutarlo. Fu una scena commovente: “Anche tu te ne vai? - mi disse con un nodo alla gola – parti pure... va, compi il tuo dovere. Sia fatta in tutto la Santa Volontà di Dio!”. Pochi minuti dopo il P. Costa rendeva la sua bell'anima a Dio».

 

Militare in Albania. «In partenza per l'Albania ero corso al santuario della Consolata per salutare la Madonna e il venerato Rettore. Vedendomi equipaggiato per il fronte: “Oh, poveretto, come ti hanno conciato!”. E nel darmi la sua benedizione: “La SS. Consolata ti accompagni”. In Albania mi trovavo accampato con il caro coadiutore Giuseppe Benedetto. Ricevemmo ognuno 50 centesimi di cinquina e 5 per curare la malaria. Che fare? Decidemmo di inviare i nostri “grandi risparmi”, qualche migliaio di lire, al Fondatore, il quale ci rispose: “Lodo il vostro affetto per l'Istituto, ma non vogliate privarvi del necessario per inviarmi denaro; spendete quanto vi occorre per le vostre necessità. Vi benedico”».

«Quando poi giunsi a Roma [dall’Albania] carico di malaria, non bastandomi la cinquina per aggiungere qualcosa al rancio, insufficiente per le mie condizioni di salute, avevo domandato alla famiglia un po’ di denaro che mi fu subito inviato. Lo seppe il Sig. Rettore [l'Allamano]: “E non sei più figlio dell’Istituto – mi rimproverò delicatamente – che ricorri ai tuoi per aver denaro? Lo sai che sono necessità; non fare così un’altra volta”. E mentre mandava a me altro denaro ricompensava la famiglia per quanto aveva inviato».

«Nel dare al venerato Padre relazione del mio periodo militare gli avevo pure narrato il fatto della mia “morte presunta” [quando stavano per seppellirmi, mentre ero ancora vivo], occorsomi ad Altamura pochi giorni dopo il mio ritorno in Italia. Mi ascoltò con interesse e si illuminò di un sorriso quando sentì che, al destarmi da quello stato , avevo visto, come in una rapida visione, l'altare della Consolata parato e illuminato a festa e che in quel momento le mie condizioni di salute avevano cominciato a migliorare: “Eh, non sai che ogni giorno qui si pregava per voi?”».

 

La mia destinazione al Kenya.

«Voglio mandarti al Kenya con dieci Suore Missionarie non appena il Governo vi dia il posto su qualche piroscafo. Penso che tu non abbia difficoltà a partire. “Oh, Signor Rettore, sono venuto per questo all'Istituto, ma mentre sono felice di raggiungere l'Africa sono pure turbato dal timore di essere di peso anziché di aiuto ai confratelli, a causa di queste febbri malariche che tanto mi tormentano”. “Il Kenya ha un buon clima e poi io ti do una speciale benedizione e vedrai che le febbri non ti molesteranno più”.

L'ultimo attacco di malaria l'ebbi la notte antecedente la mia partenza. Nei sei anni passati in Kenya godetti sempre buona salute. Nei due anni e mezzo trascorsi nella Zambesia (Mozambico), regione malarica di prim'ordine, non andai mai soggetto ad attacchi malarici come li avevo prima della mia partenza»

 

«Nell'imminenza della mia partenza per l'Africa, l'amato Padre mi disse: “Desidero vederti tutti i giorni alla Consolata per una settimana”. Rimpiango grandemente di aver fissato solo alcuni pensieri dei preziosi insegnamenti ricevuti in quei colloqui. Una vera scuola di pastorale. Una preparazione all'ambiente e alla vita di missione. Ecco due pensieri che trovo annotati nel mio taccuino:

“Esegui fedelmente quello che il superiore ti comanderà. Non guardare se il superiore è perfetto. Dovremmo aspettare a lungo per trovare un superiore perfetto. Del resto non basterebbe neppure un superiore perfetto a farci santi. Di rado abbiamo un Don Cafasso. Non tutti quelli che hanno avuto il Cafasso a superiore si sono fatti santi”.

“Bisogna reagire contro lo scoraggiamento che ti può assalire nei primi tempi di missione e mai perderti di coraggio. Nei momenti di sconforto Gesù Sacramentato deve bastarti. E se non puoi andare a Gesù Sacramentato, va al Crocifisso. Non per nulla ve lo diamo grande alla partenza!”».

 

L'ultima volta che lo vidi. «Io vidi l'ultima volta il venerato Fondatore il 30 novembre 1919 quando da lui ricevetti il Crocifisso. L'indomani salpai per l'Africa. La sua benedizione che in seguito mi inviava con brevi parole in calce alle lettere dei congiunti o dei confratelli costituiva sempre un incitamento a lavorare con buona volontà alla propria santificazione e a quella del prossimo.

Una testimonianza del ricordo e dell'affetto del Padre lontano: il 4 febbraio 1926 il p. Chiomio ed io partivamo dalla missione di Boroma (Zambesia) alla volta della missione di Miruru lontana oltre 400 chilometri. Incominciava la stagione delle piogge che in quell'anno furono eccezionali. Viaggiavamo a piedi ed il cammino era difficile perché ora bruciati dal sole cocente, ora inzuppati fino alle midolla da violenti acquazzoni. Dopo una settimana di viaggio mi ammalai. Dovetti essere trasportato su di una barella improvvisata al Posto Amministrativo di Magoè.

Incontrando alcuni nostri confratelli, l'ufficiale medico disse: “Uno dei due Padri diretti a Miruru non raggiungerà la meta; è troppo in cattivo stato di salute”.

Attraversammo lo Zambesi, se non erro, il 23 febbraio 1926 [l'Allamano era morto il 16]. Fu per me una traversata molto dura. La violenta massa d'acqua rendeva difficile la navigazione. Ricordo, come se fosse ieri, che in quel tragitto mi tornava insistente alla mente il pensiero del Padre Fondatore. Mi pareva di averlo vicino, anzi me lo sentivo vicino a ripetermi: “Coraggio, coraggio”. Il 3 marzo giungemmo alla meta. L'11 aprile, con molto ritardo causa l'interruzione delle linee telefoniche e telegrafiche, ci giunse la notizia della santa morte del venerato Padre. A quella notizia provai uno schianto al cuore. Il mio pensiero volò subito al giorno in cui, attraversando lo Zambesi, sentivo vicino l'amato Padre. Era stato lui ad incoraggiarmi. Forse ha voluto dirmi che, se avevo perso un Padre in terra, avevo acquistato un potente intercessore in cielo».

 

«”La camicia te la do io”. Il Fondatore ha adempiuto munificamente la promessa che mi aveva fatto quando mi aveva accettato nell'Istituto. Non solo mi ha vestito materialmente e curato la mia formazione, ma conducendomi all'altare mi ha fatto adornare di una veste regale, che durerà anche per l'eternità. A lui la mia imperitura riconoscenza.

giuseppeallamano.consolata.org