15. STUDIO E LAVORO

Necessità dello studio

S. Pio X, alla rappresentanza dei chierici del seminario di Milano, con a capo i loro Superiori e il Cardinale Arcivescovo (ottobre 1908), commentò le parole del Salmo 118: Bonitatem et disciplinam et scientiam doce me (204); esortandoli ad essere veramente buoni, ad osservare la disciplina per amore di Dio, e nello stesso tempo, a coltivare la scienza, rifuggendo dalle avvelenate fonti dei modernisti. Questo egli disse per i chierici di quel seminario e di tutto il mondo, ma per noi Religiosi avrebbe detto anche di più.

Avendovi già parlato della bontà e della disciplina, - diremo qualcosa della scienza. Non basta infatti per un missionario la santità, ma è pur necessaria la scienza, e questa secondo il nostro fine. La pietà può formare un buon eremita, ma solo la scienza unita alla pietà, può formare un buon missionario.

Ai chierici è necessaria primieramente la scienza filosofica, teologica, ecc., e secondariamente quella di arti e mestieri; ai Coadiutori primieramente questa, senza trascurare la prima: con lo studio del catechismo, Storia Sacra, ecc., perché essi pure, in Missione, avranno una scuola-cappella dove periodicamente si porteranno a fare il catechismo. Perciò anche i Coadiutori e le Suore devono studiare e imparare, per non dire poi degli spropositi.

La necessità della scienza è chiaramente comprovata dalla S. Scrittura e da tutta la tradizione della Chiesa. Il Sommo Sacerdote nell'Antica Legge portava visibile sul petto il cosiddetto "razionale", con sopra scritto: Doctrina et Veritas, onde avesse sempre presente, come spiega S. Girolamo, che il sacerdote deve essere dotto e banditore della verità. Doctum esse debeat et praeconem veritatis (205). Pure nell'Antico Testamento, in Malachia, si legge: Le labbra del sacerdote devono custodire la scienza, e dalla sua bocca ricercheranno la legge (206). Il Signore non voleva il sacerdote ignorante neppur allora; il popolo doveva cercare la verità presso i sacerdoti, i quali perciò dovevano possederla. E in Osea sta scritto: Giacché la scienza tu l'hai rigettata, rigetterò io te dal ministero di mio sacerdote (207). Nel nuovo Testamento Nostro Signore disse agli Apostoli: Ammaestrate tutte le genti (208). Ma per insegnare agli altri bisogna prima imparare, avere la necessaria scienza. Ond'è che San Paolo ammoniva Timoteo di applicarsi allo studio: Attendi a te e al compito d'insegnare (209).

Anche dalla tradizione appare manifesta la necessità della scienza. Papi, Concili, Santi Padri, tutti e sempre dichiararono la necessità della scienza per i sacerdoti. Su questo punto la Chiesa ha sempre insistito con esplicite direttive ai Superiori dei seminari, perché non ammettano agli Ordini coloro che non posseggono la necessaria scienza. Questo spiega perché, in alcune comunità Religiose, non si mandino in Missione che i più dotti. S. Francesco di Sales chiamava la scienza "l'ottavo sacramento" e attribuiva all'ignoranza dei sacerdoti la rovina di Ginevra. Se i sacerdoti di Ginevra non fossero stati ignoranti, non si sarebbero lasciati sorprendere, e la popolazione non sarebbe caduta nell'eresia. Lo stesso Santo non dubitava d'affermare che forse fa più male un sacerdote ignorante che uno cattivo.

Non bisogna aspettarsi la scienza infusa, come fu per gli Apostoli, i quali però stettero tre anni alla scuola di Gesù, e fu soltanto dopo questo tirocinio che lo Spirito Santo supplì alle loro manchevolezze. Credetemi: farete molto o poco bene, o anche del male, secondo lo studio che avrete o non avrete fatto. Un missionario senza scienza è una lampada spenta. Qualche Santo giunge a mettere allo stesso livello lo studio e la pietà, e voi sapete ciò che diceva S. Teresa: che fra un confessore dotto e meno buono, e un altro più buono ma meno dotto, avrebbe scelto, per la tranquillità dell'anima sua, quello più dotto.

Il sacerdote ignorante

Il Blessense o Pietro Blessense, profondo scrittore di ascetica, paragona il sacerdote ignorante a un "idolo di tristezza e di amarezza", per l'ira di Dio e la desolazione del prossimo. Giusto paragone; perché, per quanto un tale sacerdote sia esternamente un "Dio in terra" (210) ed indossi vesti sacre, internamente egli è simile ai mondani: Gli idoli delle genti sono argento e oro (211).

Egli infatti ha la bocca per evangelizzare la parola di Dio, ma per la sua ignoranza la tiene chiusa; e meno peggio, perché parlando direbbe spropositi. Han la bocca e non parlano (212). Eppure è chiaro ed esplicito il mandato di Nostro Signore ripetutogli dal Vescovo nella sacra Ordinazione.

Il sacerdote ignorante ha gli occhi per vedere quanto bisognoso sia il popolo di essere istruito e condotto alla conoscenza e all'amore di Dio, ma è come non vedesse. Han gli occhi e non vedono (213). Non vede le conseguenze della sua ignoranza nella perdita di tante anime, che senza il suo zelo andranno perdute, e quindi la sua responsabilità.

Il sacerdote ignorante ha le orecchie per udire tali cose nella recita del Breviario, nella celebrazione della santa Messa, ma piuttosto egli ascolta la voce dell'interesse, della pigrizia, della carne e del sangue. Han gli orecchi e non odono (214).

Il sacerdote ignorante ha i piedi per muoversi ad annunziare il Vangelo di Nostro Signore, ma non può farlo. Hanno i piedi e non camminano (215).

Il sacerdote ignorante ha infine le mani dategli da Dio per operare miracoli di virtù e di grazia, a bene di tante anime, ma per la sua ignoranza poco opera; mentre, se santo e istruito, potrebbe riuscire un San Francesco Zaverio! Han le mani e non palpano (216).

Il sacerdote missionario ignorante è poi un vero idolo di tristezza e di amarezza anche per l'Istituto che lo allevò e gli fornì con tanti sacrifici i mezzi di istruirsi e rendersi idoneo all'apostolato. Egli, invece di consolarlo con condurgli migliaia e migliaia di anime, le lascerà fredde e ignoranti nelle verità della fede, se pure non le aiuterà a dannarsi, per non saper esporre chiaramente le verità della fede e della legge di Dio, né saper risolvere le molte difficoltà che il buon senso detta loro.

Cari miei, a queste considerazioni scuotiamo la nostra inerzia e proponiamo di non perdere neppure una briciola del tempo così prezioso, che dobbiamo impiegare negli studi. Facciamoci coraggio alla vista del male e più del bene nostro venturo.

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Le materie di studio

Veniamo alle materie di studio. Essendo voi missionari, il vostro corredo di scienza dev'essere più ampio: letteraria per i giovani; filosofica e teologica per i chierici e sacerdoti; per tutti l'ecclesiastica e professionale, e cioè di tutte quelle materie e nozioni che possono in Missione aiutarvi a fare maggior bene.

Praticamente non avete che da stare all'obbedienza, studiando quei libri e quelle materie che quotidianamente i Superiori vi indicano. E' un vezzo giovanile volere studiare altre cose e lavorare diversamente dall'obbedienza. Credetemi: qui tutto è ordinato a formarvi perfetti missionari, sia negli studi che nella pietà; e chi eseguisce giorno per giorno i comandi e i desideri dei Superiori, si troverà al termine del tirocinio col corredo necessario ed utile a ben compiere la missione che il Signore gli affiderà. Non si sbaglia mai nel fare ciò che i Superiori ci ordinano.

Approfondite i testi postivi in mano, procurando di ridurre le verità in succum et sanguinem. Chi ha maggior facilità, non si lasci ingannare a studiare superficialmente, per correre ad altro; perché non avrà che nozioni incomplete e solo attaccate con la saliva - come si dice - che presto passeranno. Ormai ho esperienza in fatto di studi, so cosa vuol dire, conosco i difetti che ci possono essere e che c'erano ai miei tempi; restavano molte lacune, pur facendo sforzi impossibili. Avevamo tre diverse spiegazioni: il trattato, il professore e il ripetitore; tre idee diverse. Voi avete degli ottimi autori e degli ottimi professori; sappiate valervene, studiando a dovere ciò che vi fanno studiare.

Tenete a mente il detto: repetita juvant. Bisogna ritornare sulle cose già studiate. La prima volta che si studia una cosa è per recitarla; la seconda si comincia a digerirla; la terza volta si gusta la verità. Ciò che entra facilmente passa anche facilmente.

Non abbiate poi il prurito di sfogliare tutte le riviste. Se volete approfondire le stesse materie, servitevi di autori classici approvati dalla Chiesa, come S. Tommaso e il Suarez per la filosofia e dogmatica, S. Alfonso per la Morale; e non di certi autori leggeri e non precisi. S. Tommaso confutò tutte le eresie che furono prima di lui e che saranno dopo di lui. Di S. Alfonso la Chiesa dice che tutto quello che ha scritto: tuto sequi potest.

Non solo si deve studiare i libri che i Superiori vi mettono in mano, ma anche le materie assegnate, e studiarle al modo che v'ho detto. Anche con poco ingegno si può riuscire; per lo più sono gli ingegni mediocri che riescono meglio. Se poi, dopo aver fatto tutto questo, avanza tempo, uno può applicarsi ad altre cose. Ma è difficile che avanzi tempo. Mi ricordo che in seminario non trovavo mai tempo a leggere altri libri, perché pensavo: "Se posso leggere, posso anche studiare". E allora studiavo. Non perdete tempo attorno ai romanzi; studiamo invece la buona filosofia e teologia: qui non c'è mai pericolo di studiar troppo.

Ascetica e predicazione

Oltre che filosofia e teologia, bisogna studiare a fondo anche l'ascetica. Il sacerdote al confessionale deve conoscere molto bene questa materia. Non solo, infatti, egli deve fare da giudice, ma deve, per quanto sta da lui, condurre le anime alla santità.

Inoltre, l'ascetica vi servirà per la predicazione che è lo strumento diretto, di cui il Signore si serve per comunicarsi alle anime. Ma anche qui preferiamo roba soda e ricorriamo alle vere fonti.

Oltre che alla materia predicabile, bisogna che diate anche grande importanza alla declamazione, per portare bene la predica stessa; declamazione non esagerata, ma conveniente. Non fare come quei predicatori che stanno tutto il tempo fermi, poi accorgendosi di non aver mosso ancora, saltano da una parte all'altra del pulpito. Certo, ci vuole anche un dono speciale ed è il Signore che lo dà. Tuttavia, poiché può servire a fare maggior bene, non bisogna trascurarla.

Si curi pure la pronuncia per evitare le cantilene. Di un Vicecurato mi si diceva: "Ha tutti i doni, ma predica con cantilena". Bisogna star attenti fin da giovani. Mi diceva un quaresimalista della Cattedrale di aver imparato a gestire nel seminario, dove li facevano esercitare a predicare alla muta, cioè solo coi gesti. Ciò era utile pel fatto che, dovendo uno esprimere il pensiero solo con la mimica, ogni gesto deve essere studiato e a proposito.

Lo studio delle lingue

Raccomando in particolare lo studio delle lingue e l'esercizio delle medesime, per poterle poi parlare e per esprimere bene le verità che dovete insegnare. Un degno Autore, trattando di ciò che deve studiare il sacerdote, pone per prima cosa la lingua in cui si dovrà esercitare il ministero; dice che il sacerdote deve ben possederla, ond'essere in grado di scriverla e parlarla convenientemente. Difatti, a che servirebbero gli studi di filosofia, di teologia, ecc., se poi uno non sapesse comunicare agli altri la materia studiata? Ove poi le lingue si parlino stentatamente, si otterrà poco effetto, con la conseguenza che si perde la volontà di evangelizzare o lo si farà con poca energia e anche con poca autorità.

Lettere di Missionari e Suore hanno sovente un lamento: di non saper la lingua indigena e quindi di non poter subito operare alla salvezza delle anime. Essi non ne hanno colpa, non avendo avuto una scuola regolare di lingue. Per voi non dovrà più essere così, ora che ci sono dizionari e grammatiche sia di lingua Kikuyu, sia di lingua Kiswahili. Datevi tutti con impegno a questo studio. Quando uno fa da parte sua tutto il possibile per apprendere, il Signore, se necessario, gli darà il dono delle lingue promesso agli Apostoli. Quando mandammo a Roma il primo vocabolario e la prima grammatica Kikuyu, composti per intero dai nostri Missionari, il Card. De Lay scrisse una lunga lettera di congratulazione, paragonando i nostri Missionari ai Santi Cirillo e Metodio e dicendo che come questi due Santi per primi avevano messo per scritto la lingua dei popoli Slavi, così i nostri Missionari avevano in certo modo dato vita alla lingua del popolo Kikuyu.

Il tempo stabilito per la conversazione inglese non vuol essere impiegato di mala voglia. Ci vuole impegno, fare una buona provvista di vocaboli. Ci vuole fermezza, battere, pestare. Non parlare così in aria, non dire sciocchezze, non pronunciare all'inglese una parola italiana, non aggiustarsi con giri e rigiri, ma cercare e pronunciare le parole appropriate. Alcuni con cento parole fanno tutti i loro discorsi; no, non si devono usare gli stessi termini per tutte le cose. Dobbiamo fare uno studio di usare i termini propri per parlarlo bene. Dopo due o tre anni, con le scuole, e il tempo che avete a disposizione, mi pare che si dovrebbe sapere.

Lo studio delle lingue indigene non esclude quello delle altre lingue: inglese, francese e quant'altre si possono imparare. Ma per noi è specialmente necessario l'inglese. Perciò ve lo raccomando tanto. Mi rincresce che qualcuno non gli dia la dovuta importanza. Ciò che impedisce di imparare questa lingua è la pigrizia.

Non basta studiare la grammatica, bisogna esercitarsi a parlarlo. Il latino tutti lo sapete, eppure provatevi a parlarlo e vedrete se ci riuscirete! Appunto perché manca l'esercizio. Quando noi ci preparavamo per gli esami di laurea, pur trattandosi delle solite materie e dei soliti termini, era sempre necessario che prima prendessimo un libro per farci sopra un buon esercizio e non dire poi di quei strafalcioni che non sono affatto da Dottore Collegiato! Così voi per l'inglese.

Dunque ricordate: prima la filosofia, la teologia, la S. Scrittura, poi subito l'inglese. Io ritengo questo come segno di vocazione al nostro Istituto e lo dice anche il Regolamento. Chi non ha inclinazione a studiare le lingue estere, non ha vocazione a farsi missionario. Io vorrei che tutti voi diveniste un giorno idonei ad insegnare e che perciò, di questo studio, ne faceste materia d'esame particolare. Si trattava di mettere un Padre in una Stazione nelle vicinanze del Forte inglese e il Superiore di là mi scriveva: "Farebbe bene, ma non sa la lingua". Vedete? Lo studio dell'inglese è assolutamente necessario per poter conferire con le Autorità dei diversi Forti, con i funzionari governativi e loro famiglie che andranno a stabilirsi colà. La conversione degl'infedeli non esclude quella dei protestanti; questa anzi aiuterà quella. Mons. Luigi Barlassina, Patriarca di Gerusalemme, è felice di aver a tempo studiate tante lingue: il francese, l'inglese, il tedesco ed ora studia l'arabo. Ricordatevi anche dell'impegno del compianto P. Costa (217) per trasfondere in voi l'amore allo studio di questa lingua. Pareva persin noioso, ma intanto uscirono a quei tempi tanti Missionari che, partiti poi per il Kenya, parlavano molto bene l'inglese.

Insisto perciò sullo studio di questa lingua; è una vera necessità per i nostri Missionari.

Come studiare

Si deve studiare con umiltà, con energia, con temperanza e con pietà.

CON UMILTA' - Di questo tratteremo più in particolare parlando della virtù della fede. Qui vi dico solo che studiare con umiltà vuol dire non voler andare troppo a fondo, cioè più del necessario. Cercare di capire, sì; studiare bene, sì, ma poi non è necessario voler subito andare a fondo specialmente in certe materie.

CON ENERGIA - Cioè studiare non superficialmente o solo per la recita della lezione o per gli esami, ma per imparare. V'è chi, letta la lezione, dice: "La so già!". La sai forse a memoria, ma non in profondità: non hai capito ciò che hai studiato. Talora la lezione non si sa a dovere: si balbetta, si aspetta che il compagno suggerisca. Non bisogna mai suggerire, non è carità questa: ognuno dica quello che sa e basta. E' un po' duro studiare le cose a dovere, in modo da capirle e saperle, ma è necessario; perciò bisogna battere finché entra. La troppa facilità di ritenere è sovente a danno di ciò che s'impara.

Studiare con energia vuol dire ancora non perdere un minuto di tempo, non studiare da svogliato, tanto per passare il tempo. Il Signore ci chiederà conto del tempo, perché non è nostro ma suo. Son molti purtroppo che perdono tempo. Dicono: "Son solo dieci minuti, non merita d'impiegarli!". Invece bisogna utilizzare tutti i minuti. Entrati in studio, dopo la preghiera ben fatta, mettersi subito all'opera e non baloccarsi a toccare tutti i libri; venire subito a ciò che devo studiare o scrivere per la prossima scuola. Meglio ancora prevenire la lezione del professore leggendo prima la materia che sarà spiegata; a questo modo la lezione è già mezzo imparata. Né bisogna omettere di studiare ciò che è più duro, il greco ad esempio, per applicarsi a ciò che piace di più. Prima sempre ciò che è più necessario, ciò che è di dovere. E nessuno dica: "In questa materia non ci riesco!". Non è che non ci riesci, è che temi di non riuscire, non hai il coraggio di affrontare le difficoltà. Mons. Gastaldi diceva: "Certi Sacerdoti van dicendo che non son capaci a predicare; è pigrizia di prepararsi o paura di far brutta figura". Ci vuol energia e costanza e non perdersi d'animo perché una cosa non entra subito. Energia e avanti. Il Signore aiuta e s'imparerà, come hanno imparato tanti altri.

CON TEMPERANZA - S. Tommaso, tra le condizioni necessarie per ben studiare, mette la temperanza (218). Non voglio dire, specialmente a voi giovani, che abbiate paura di studiar troppo. Studiare con temperanza vuol dire studiare né più né meno di quanto bisogna studiare. Non lasciarsi prendere dalla "mania" dello studio, per cui si vorrebbe sempre studiare, anche quando e dove non si deve. Vi son di quelli che studierebbero anche nel tempo delle preghiere o durante i lavori manuali. Questa mania non è buona e io non voglio che ci sia tra di voi. Studiate, ma ricordate anche che s'impara più in cinque minuti fissati dall'ubbidienza, che in un'ora senza ubbidienza. S. Filippo mandava sovente in cucina il Card. Baronio, amantissimo dello studio sì che il Baronio stesso soleva chiamarsi: "Coquus perpetuus!".

Il Card. Bona dice che uno studia con temperanza, quando per amore dello studio non omette alcuna preghiera (non voglio che lasciate neppure una giaculatoria per lo studio) e non trasgredisce nessuna regola del suo Istituto. Che dire di chi, credendo rubato allo studio il tempo che l'ubbidienza destina ai lavori manuali o anche solo alla pulizia della casa, li fa di mal animo e come per forza? Qui dentro, lo ripeto, tutto è regolato per le Missioni. C'è niente di inutile in ciò che i Superiori dispongono. Nella mia vita ho trovato d'aver imparato niente di inutile. Bisogna dunque evitare, secondo lo stesso Card. Bona, i due estremi: la troppa propensione allo studio, che è a scapito della pietà, dell'umiltà e della salute, e l'indiscreta propensione alla pietà, con detrimento degli studi (219).

CON PIETA' - Per un buon missionario tutto è in ordine alla pietà, anche la scienza. Lamentava con me Mons. Pulciano, quand'era chierico, che tra la scuola e la cappella ci fosse come una barriera. A quei tempi, vari professori che provenivano dall'Università non dicevano alcuna preghiera né prima né dopo. S. Giuseppe Calasanzio prescrisse ai suoi Scolopi di mai fare una scuola, fosse pure di matematica, senza far entrare un buon pensiero spirituale. E come è possibile per un chierico studiare il trattato del santo Battesimo e non far sgorgare dal cuore un atto di ringraziamento a Dio che, senza alcun nostro merito, ce ne fece la grazia?... Come è possibile studiare il trattato dell'Eucarestia, senza fare qualche Comunione spirituale?... Studiare il trattato della Penitenza e non ringraziare il Signore per le tante volte che abbiamo ricevuto e riceviamo questo Sacramento?... Studiare il trattato dell'Estrema Unzione e non pregare il Signore di poter ricevere, in punto di morte, questo Sacramento?

Così voi che fate scuola, procurate di farla meglio che potete. Vi son di quelli che nel fare scuola si stancano molto mentre altri ottengono lo stesso risultato senza punto affaticarsi. Io credo che nella scuola non sia il caso di gridare per farsi capire. Del resto, vi è affidata una missione e dovete compierla con scrupolo, procurando che l'insegnamento riesca proficuo ed educativo. Si può sempre dire una buona parola, far entrare un pensiero di Dio. Lì per lì potrà sembrare sterile, invece farà sempre del bene. Tocca pure a voi cristianizzare, in certo qual modo, gli stessi poeti pagani. "Se Tacito ha detto così, che cosa avrebbe detto un cristiano?...". Ci son di quelli che perdono la testa per i classici moderni (che non son tali, se non perché lo vuole la massoneria), mentre se ne trovano di ottimi anche tra gli antichi, che si possono studiare senza pericolo. Mi fa pena, mi fa piangere chi vuol sollevare tanto certi poeti moderni, che hanno inneggiato persino a satana! Sarebbe male se qualcuno di voi andasse ad insegnare ciò ai ragazzi, mentre ci sono tanti libri antichi e puri!

Studiare con pietà vuol dire ancora ricorrere al Signore per avere i lumi necessari. Il Card. Bona così ci esorta: "In mezzo agli studi, ricorri sovente al lume eterno e procura di sollevarti a Dio per mezzo delle cose create" (220). Lo si può fare con aspirazioni e giaculatorie. Da tutto si può e si deve assurgere a Dio, principio e fine d'ogni studio, d'ogni arte. Così facendo lo studio non inaridisce la pietà, come sovente accade, ma è un incentivo alla medesima.

Lo studio disgiunto dalla pietà fa gli eresiarchi. Ci vuole l'uno e l'altra. La pietà serve a tutto. S. Tommaso affermava d'aver imparato più ai piedi del Crocifisso, che stando sui libri. La stessa cosa osserva di sé S. Bernardo. Studiate dunque con divozione, studiate come se foste in chiesa. Il Curato d'Ars studiava sempre in sacrestia, per essere vicino al Signore. Ai tempi di S. Francesco di Sales correva il detto: "Se vuoi confondere l'avversario ricorri a questi o a quello, ma se vuoi convertirlo ricorri al Vescovo di Ginevra". Quell'invocazione allo Spirito Santo, prima dello studio e della scuola, non ditela per abitudine, ma con la persuasione di averne bisogno e con la fiducia di ottenere. Rinnovate poi queste invocazioni durante lo studio, specialmente quando s'incontrano difficoltà o si stenta a capire.

Il fine per cui si studia

Il fine dei nostri studi non è altro che la nostra santificazione e rendersi utili all'Istituto e alle Missioni per la salvezza delle anime. Non si studia quindi per fini umani, ma per conseguire una mercede magnanimis (221) in Paradiso. Chi studiasse per superare i compagni o solo per gli esami, non studierebbe con retto fine. Studiamo con buon spirito, che mira a Dio solo, alla sua volontà e non blandisce la nostra superbia. Non è che sia superbia desiderare e sforzarci di avere dei bei voti, ma è superbia l'invidiare chi ne sa più di noi.

S. Bernardo dice che vi sono di quelli che studiano solo per sapere (222): tantum ut sciant. Questo, afferma il Santo, è una biasimevole curiosità: turpis curiositas est. Una damigella mi raccontava di aver frequentata l'Università, di aver studiato matematica, medicina, ecc., così tanto per sapere, senza nemmeno voler prendere la laurea. Avrebbe potuto studiare anche per mangiare, ché ne aveva bisogno!

Altri, dice il Santo, studiano per darsi importanza, per comparire: ut sciantur ipsi. Ah, è un buon Teologo!... Quasi che la laurea infonda la scienza!... Vanità, niente altro che vanità, biasimevole vanità: turpis est vanitas!

Altri studiano solo per avidità di guadagno, per vendere poi a caro prezzo la loro scienza, e questo è turpe mercimonio: turpis quaestus est!

Altri studiano per edificare il prossimo, cioè per essere utili agli altri, e questo è carità: charitas est. E' infatti una bella carità lo studiare per poter poi far del bene.

Finalmente vi sono quelli che studiano sia per far del bene al prossimo, come per far del bene a se stessi, all'anima propria, ossia per santificarsi. E questo è vera prudenza: et hoc prudentia est!

Dal fine che voi, miei cari, vi proponete e dal modo con cui studiate, resta lo studio santificato. Allora il Signore verrà in vostro aiuto e ciò che imparate, vi sarà utile per voi e per le anime. Vi confortino questi pensieri, per vincere le naturali retrosie che si provano e per applicarvi con animo allo studio di ciò che l'ubbidienza prescrive. In tal modo si compiranno in voi i disegni di Dio per il vostro futuro apostolato. Ogni cosa che qui fate, dimenticatelo mai è in ordine a salvare le anime. Bonitatem et disciplinam et scientiam doce me! (223). Vorrei che di queste parole vi faceste una giaculatoria.

Sull'esito degli esami

Il voto bisogna prenderlo dal Signore e non fermarsi a quello che sta sulla carta. È vero che la pagella dei voti rappresenta la fatica di tutto l'anno, vostra e degli insegnanti; tuttavia bisogna che riguardiate la cosa con spirito di fede: è il Signore che dà il voto e che può darlo veramente giusto. Egli è che conosce l'impegno con cui avete studiato, che sa misurare lo sforzo e l'esito, in ragione dei talenti che vi ha dato. Io spero che Egli possa dare dieci e anche lode a tutti indistintamente.

Tuttavia è bene leggere i voti dati dai vostri professori; essi sono buoni e forse superiori ai vostri meriti. Ciò vi serva di spinta a meritarveli veramente, con aumentare in applicazione nello studio. Coloro poi che non ebbero una votazione quale desideravano e anche forse aspettavano, non si perdano di coraggio.

Che se qualcuno, per obbedienza, ha dovuto sottrarre qualcosa allo studio, non abbia scrupoli; col lavoro fatto per obbedienza ha supplito molto bene. L'importante è che ognuno possa dire di aver fatto quanto stava in lui.

Qui poi non c'è luogo a invidia, a gelosie, come può avvenire nei collegi. Sul bene particolare deve prevalere quello comune e più ancora la gloria di Dio. Che poi Egli riceva tale gloria da me o dal mio compagno, è solo cosa accidentale e secondaria. Lo stesso dicasi per ciò che riguarda il bene dell'Istituto. E certo buona cosa che l'Istituto abbia studiosi e scienziati in ogni ramo; che poi sia io o siano altri, poco importa. Anzi, chi avendo un solo talento e facendo tutto il possibile, non riesce tuttavia così bene come i suoi compagni, avrà meno motivi di vanagloriarsi, ma non avrà meno merito. Se il Signore ci manda dei buoni ingegni, Deo gratias! Quantunque io desideri neppur tanto che ci siano fra noi delle aquile, per il pericolo che s'insuperbiscano e rovinino l'Istituto.

Il lavoro e sua necessità

Il lavoro è un dovere. Anche nello stato d'innocenza, nel Paradiso terrestre, Adamo doveva lavorare, come sta scritto: Il Signore Dio adunque prese l'uomo e lo collocò nel paradiso di delizia, acciò lo lavorasse e lo custodisse (224). Tanto più si deve lavorare dopo il peccato, in pena e riparazione del medesimo: Col sudore della tua fronte ti procurerai il pane (225).

Il lavoro non è soltanto un dovere, ma è anche un onore per essere stato santificato dalla Sacra Famiglia. Fino a trent'anni Gesù lavorò, con S. Giuseppe, nell'umile mestiere di falegname. Anche Maria SS. non passò la sua vita in ginocchio a pregare; essa pure lavorava molto, disimpegnando tutte le faccende della Casa di Nazaret.

Il lavoro inoltre è virtù e quindi mezzo di santificazione. Ciò spiega come molti abbiano abbandonati gli onori e le ricchezze, per impiegare la vita in umili lavori manuali.

Specialmente i Missionari devono lavorare anche materialmente, come dicono le nostre costituzioni. S. Paolo, pur dovendo predicare, lavorava per sopperire ai bisogni suoi e degli altri: Non stiamo mai inerti e fatichiamo lavorando colle proprie mani (226). Negli Atti degli Apostoli sta scritto che, trovandosi egli in compagnia di Aquila ed esercitando ambedue la stessa professione, lavoravano di buona voglia: Siccome era dello stesso mestiere, andò a stare e a lavorare con loro erano fabbricanti di tessuti di pelo (227). San Girolamo Emiliani, Patrizio veneto, si univa ai mietitori per evangelizzarli. Il Card. Massaia rattoppava le vesti e rappezzava le scarpe di corda di coloro che voleva convertire. E non fecero così anche i Benedettini ed altri Monaci, per convertire i barbari? Per salvare le anime, specialmente nei paesi di Missione, la scienza delle arti e mestieri è non meno necessaria della scienza propriamente detta.

IL LAVORO E I COADIUTORI - Voi, Coadiutori, stimatevi fortunati di compiere questo dovere e di seguire questi esempi. Non è per nulla che, a vostra festa particolare, avete scelto quella di S. Giuseppe. Non c'è un migliore modello, e dev'essere per voi un santo orgoglio che la Chiesa abbia preferito un Santo non sacerdote per costituirlo patrono della Chiesa universale.

Questo fatto vi deve insegnare ad apprezzare il lavoro, ad amarlo, ad applicarvi ad esso volentieri, e così corrispondere alla vostra santa vocazione. Col lavoro voi potete, davanti a Dio, uguagliare e anche sorpassare in meriti gli stessi Sacerdoti. Chi sa che in Paradiso non abbia maggior gloria un Coadiutore missionario, di tanti sacerdoti! E quanti Coadiutori si sono, col lavoro, santificati! S. Pasquale Baylon, S. Alfonso Rodriguez salirono all'onore degli altari: ciò che non fu, ad esempio, del P. Alfonso Rodriguez, che era sacerdote e scrisse così bene. Voi siete missionari come lo sono i sacerdoti, benché con minore responsabilità. Lavorando per obbedienza e secondo obbedienza, facendo ogni giorno il vostro dovere senza perdere tempo, partecipate al bene spirituale operato dai vostri confratelli sacerdoti. In una Congregazione è bello che si coopera tutti insieme a fare il bene: tanto chi scopa, come chi lavora e studia purché si faccia ciò che l'obbedienza comanda e lo si faccia per amor di Dio.

IL LAVORO E I SACERDOTI - Per quello che riguarda i Sacerdoti, devono essi pure essere orgogliosi di poter lavorare. In Africa avrete ogni tanto bisogno di fare qualche lavoruccio e anche, talora, sarà d'uopo lavorare veramente. Alla direzione della fattoria agricola di Nyeri c'è stato un Padre. Applicatevi dunque volentieri ai lavori manuali, quando disponete di un po' di tempo. L'em.mo Card. Richelmy mi diceva: "Tutti i preti dovrebbero imparare qualche mestiere conveniente al loro stato, per stare occupati". Una volta un sacerdote gli chiese di poter fare il rilegatore di libri ed egli lo lodò, dicendogli: "Prima vi sono i doveri sacerdotali, ma poi faccia pure". Quando il Vice Rettore Can. Camisassa era chierico, rilegava i libri e s'era fatto lui il torchio.

Un Missionario che difetti di preparazione su questo punto, che non sappia o non abbia voglia di lavorare, non è un vero Missionario; manca qualcosa alla sua vocazione. Quando si giunge in Missione e non si sa ancora parlare quella lingua, che cosa fare? S'incomincia a lavorare e intanto, lavorando a contatto degli indigeni, s impara la lingua e così uno si rende idoneo alla predicazione. Un Missionario che dicesse: "Voglio solo predicare, non lavorare", sarebbe in errore. Tutti i nostri Missionari che vanno in Africa cominciano l'apostolato col lavoro manuale e anche in seguito non se ne può fare a meno. Se in una Stazione il Superiore non sa lavorare, come potrà far lavorare gli altri? Come potrà, ad esempio, insegnare agli indigeni a coltivare razionalmente il terreno? E così dicasi di tutti i mestieri.

"Le Missioni - diceva S. Pio X - devono industriarsi a far da sé". Si va in Missione per salvare le anime, ma è pur necessario mantenersi in vita e quindi provvedere al proprio sostentamento. Il Signore ci ha fatti così. Una superiora d'Africa mi scriveva: "Fra le cose più necessarie nella vita di Missione, insieme con l'obbedienza e la carità vicendevole, c'è l'amore alla fatica". Ciò va detto anche per i Missionari. S. Paolo esortava i cristiani a lavorare non solo per se stessi, ma anche per gli altri: Fatichi... per procurarsi l'onesto con il lavoro delle proprie mani per avere qualcosa da elargire a chi si trova in necessità (228). Lavorare per mantenere se stessi e per poter beneficare gli altri. Voi non potete fare elemosine in danaro, ma lavorando coopererete alla salvezza delle anime.

IL LAVORO E I CHIERICI - Ai chierici pure è necessario il lavoro. Ritengo che, a ben prepararsi per le Missioni, buona cosa sia l'imparare qualche mestiere o anche imparare a fare un po' di tutto, e prendere amore al lavoro. Ricordatelo: non voglio che qua dentro i talenti restino inoperosi. Tutto quello che si sa e serve, voglio che sia valorizzato. Tutte le capacità voglio che si coltivino. Se uno ha inclinazione alla pittura, lo faremo pitturare; se alla scultura, gli faremo fare statue. In Missione, uno che abbia questa dote di sapersela cavare in tutti i lavori, sarà ben più utile di un altro che abbia tanto studiato ma sappia far poco. Un Padre mi scriveva che da lungo tempo era impiegato a lavorare attorno ad un pozzo e che sarebbe stato disposto a continuare in simili lavori anche tutta la vita. Dico questo perché serva di edificazione e perché ricordiate che ciò che a voi può sembrare ora inutile, vi sarà un giorno più necessario di tante altre cose che ora vi sembrano più importanti. Lasciate fare ai Superiori; sanno quello che si fanno e non vogliono che il vostro bene presente e futuro. Il Signore dirige i Superiori anche nelle cose minime e chi vuol ragionare sui loro comandi non capisce nulla.

Non bisogna temere d'imbrattarsi le mani, ma di non apprendere abbastanza le arti e mestieri e anche i lavori umili della casa. Chi ha difficoltà a fare gli uffici bassi, umili, non è fatto per essere Missionario. Il fare con svogliatezza questi lavori è un vero segno che non si è chiamati. Dovete affezionarvi al lavoro; vi serve di penitenza ed è un mezzo per fare poi del bene.

Ognuno perciò procuri di fare con umiltà e volentieri i lavori manuali. Il Signore saprà ricompensare il tempo impiegato in essi per ubbidienza, con farvi imparare le altre materie di studio più in fretta e meglio. Un Missionario deve da tutto trarre mezzo per imparare, deve dare importanza ad ogni cosa, avere spirito di osservazione, essere intraprendente. Non dire: "Non son fatto per questo o per quello!". Storie! Sei fatto per tutto. Se uno nulla disprezza, alla fine sarà un buon Missionario, fornito del necessario corredo di cognizioni utili per l'apostolato. Tutto serve e per voi tutto è studio: dallo scopare allo studio di S. Tommaso.

Lo dico e lo ripeto: chi non si adatta ai lavori manuali non ha spirito missionario. Il Missionario deve distinguersi nell'amore ai lavori. Lo spirito dell'Istituto è qual è contenuto nelle Costituzioni e spiegato dal Regolamento. Ci vuole spirito di preghiera e di lavoro; lavoro intellettuale e lavoro manuale. Dovete nei lavori essere attivi, e nelle cose spirituali essere contemplativi.

Come lavorare

Bisogna lavorare senza perdere tempo, con vera volontà d'imparare; quindi trovarsi per tempo sul lavoro e rimanervi fino alla fine; e intanto procurare di aver le cose ordinate, sì che all'ora stabilita si possa lasciare il lavoro senza lasciar il disordine. I muratori di fuori, un quarto d'ora prima di mezzogiorno, cominciano ad adocchiare i loro indumenti, poi scappano via cinque minuti prima del tempo. Questo è rubare; se non fanno tutto l'orario, non hanno diritto a tutto lo stipendio. Bisogna che almeno noi ci distinguiamo da quelli.

Lavorare con energia e non scansare la fatica per cercare i propri comodi. Più c'è da fare e più si fa; l'osservo in me medesimo. Quando non c'erano le Missioni, avevo meno da fare ed ero sempre esaurito; ora si moltiplicano gli impegni, e si fa tutto lo stesso. Quando c'è un lavoro da fare, tutti devono prestarsi e chi si sente più forte si offra per i lavori più pesanti. Qui non si lavora che per amore di Dio e quindi quel poco di fatica che facciamo, pensiamo che è per il Signore, per farci santi; pensiamo che in tutto facciamo la volontà di Dio. Se foste stati dei "molli", non sareste venuti in questo Istituto. Qui dentro ognuno deve lavorare per due o per tre; e più si lavora e più si salva anime.

Lavorare bene, con diligenza, pensando a quello che si fa. Taluni guastano o rompono tutto quello che toccano. Un giorno il sacrestano del Santuario della Consolata si consegnò d'aver rotte le ampolline. "Le hai rotte gli risposi perché correvi, perché hai fatto le cose da grossolano; ti ho visto dai coretti". In seguito, faceva le cose più adagio, ma guardava in su, per vedere se ero nei coretti... Colui che non fa le cose bene, sia riguardo alle arti e mestieri, sia riguardo allo scopare, ecc., non è fatto per noi. Vi dico che quando osservassi che uno abitualmente non fa le cose a dovere in tali uffici, sia egli qui da più anni o da pochi anni, se ne andrà.

Ciascuno dunque faccia bene quello che ha da fare. Scopate? Scopate bene. Son pochi quelli che sanno scopare bene. Un domestico novellino alla Consolata non sapeva scopare; gli presi di mano la scopa e gli insegnai. Negli angoli non puliva bene. "Guarda - li dissi - che lì c'è ancora qualcosa". In un altro posto c'era della polvere; lo chiamai e gli dissi: "Leggi lì!". Ed egli lesse: "Maria". - "Vedi come si legge bene?". - Credo mica di abbassarmi a fare ciò, sapete!

Essere attivi, essere diligenti a far tutto bene; quindi imparare bene, di modo che se domani toccasse a me fare il capo-impiego, sappia farlo. Qui non succede come nel mondo, dove si ha paura d'insegnare agli altri. Quindi raccomando spirito di fede verso il capo-impiego. Si deve essere contenti di essere avvertiti, anche da uno meno anziano di noi.

Inoltre, aiutarci a vicenda. Come è mai bella, in una comunità, questa gara di aiutarsi a vicenda! Questa sì che è carità! Non si fa forse così nelle famiglie? Lo spirito religioso e apostolico esige questo. Bisogna fare fra tutti quello che c'è da fare. La Religione è un corpo e tutti lavorano per la stessa causa. In Missione chi non può battezzare o predicare, se offre le sue fatiche, avrà più merito ancora, perché c'è meno pericolo che l'amor proprio porti via tutto. Dice un maestro di spirito che le cose materiali, se fatte con purità d'intenzione, assurgono all'eccellenza delle più sublimi azioni spirituali.

Nel nostro Istituto ci sono tante mansioni; uno ha la capacità per una cosa e l'altro per un'altra, e fra tutti si fa tutto. L'importante è di far tutto per amor di Dio, per santificarci, per salvare anime. E' mica necessario ripetere di continuo: "Lo faccio per voi, Signore!" ; lo si dice di tanto in tanto, per ricordargli che è già inteso che facciamo tutto per Lui.

In cappella, sotto il quadro di S. Giuseppe, avete scritto: Depositum custodi (229). Sì, la Chiesa lo applica a S. Giuseppe, ma possiamo anche applicarlo a noi. Conservate il deposito del buon spirito, dell'attività, tutto com'era in principio dell'Istituto. Vi so dire che alla "Consolatina" vi era più umiltà, più fervore in tutto; i chierici hanno sempre lavato i piatti. Non è che io non sia più contento di voi, ma ve lo dico perché imitiate quelli che ora sono in Missione; e se hanno fatto tanto bene, ciò è dovuto al fervore che qui avevano. Voglio che in questa Casa si osservino prima le Regole, poi le pratiche e consuetudini dei primi tempi dell'Istituto.

giuseppeallamano.consolata.org