Disciplina in genere
La disciplina è la regola e il modo di vivere secondo le leggi e le costumanze di un Istituto o di una professione. Quindi la disciplina d'un collegio, di un seminario, d'una Religione e anche di un'arte, mestiere o scienza. Noi pure abbiamo la nostra disciplina, ordinata a formare ottimi giovani, chierici, sacerdoti per le Missioni. Contiene due parti: le Regole, quindi l'osservanza; i Superiori, quindi l'obbedienza: il tutto diretto a provare la vocazione e all'acquisto delle virtù che son necessarie al conseguimento del fine.
La disciplina è dunque indispensabile nelle comunità, sia per il buon andamento della Casa, come per la formazione degli individui. Essa va però non solo osservata, ma amata. Se non la si ama, sarà quasi impossibile informare ad essa le nostre azioni con animo lieto, con volontà costante. Or sembra a me che nelle comunità non sia tanto la materialità dell'osservanza che manchi, quanto piuttosto l'amore alla medesima. Ne consegue che tutti fanno le stesse cose, ma mentre alcuni ne godono perché c'è l'unzione della grazia in ciò che si fa per amore, altri, eseguendole perché non possono fare altrimenti, ne sentono solo il peso.
Non è a dire, infatti, che l'osservanza della disciplina non costi. Si tratta di rompere di continuo la propria volontà, mortificare senza riserve i capricci e le tendenze, rinnegare insomma ad ogni istante noi stessi. Tutto ciò costa, ma l'amore rende dolce e soave il giogo del Signore. Né i Superiori pretendono che arriviate alla perfezione dell'osservanza tutto d'un colpo. Ci vuol tempo ed esercizio - come è di tutte le virtù - per formarvene l'abito.
Tanto più che il campo della disciplina è vasto. Esso va dall'educazione civile all'osservanza delle Regole; dall'obbedienza ai Superiori alla puntualità nell'orario; dall'adempimento dei propri doveri nei vari uffici alla fedeltà a quelle che sono le buone usanze della Casa. Non tutto infatti può mettersi per scritto, Ci vorrebbero dei volumi! Ci son dettagli della vita di comunità o riguardanti le diverse mansioni, che si apprendono e si tramandano per consuetudine. S Giuseppe Cottolengo non diede regole scritte alle diverse Famiglie Religiose da lui fondate e tuttavia queste conservano lo spirito del Fondatore e procedono attaccatissime alla Casa, seguendo fedelmente le norme ch'egli dava a viva voce e che vennero conservate.
Voi però avete le Regole, il direttorio, i Superiori, gli orari: dove tutto è bene specificato in modo che dal mattino alla sera, in ogni giorno dell'anno, ogni vostra azione è regolata secondo un dato ordinamento. L'osservanza di tutto questo forma la disciplina. L'amore alla disciplina porta a sua volta alla perfetta osservanza.
Ritenete dunque necessaria l'osservanza della disciplina:
a) Per un quasi contratto intervenuto tra voi e i Superiori: essi di formarvi alla virtù e voi di lasciarvi formare.
b) Per essere benedetti da Dio, riceverne con frutto le grazie e così godere della vera pace del cuore, che proviene dall'adempimento del proprio dovere.
c) Perché chi non si assoggetta e di buon animo alla disciplina, vive una vita infelice.
Voi fortunati che potete vivere sotto disciplina! Perché, se è vero ch'essa incatena in certo qual modo la vostra volontà e ogni vostra attività, vi rende però facile e sicura la via della perfezione, mentre giova al buon ordine della casa ed allo stesso benessere materiale.
Non dimenticate mai l'ammonizione dello Spirito Santo: che chi rigetta la disciplina è un infelice. Un infelice perché mai contento, mai a posto. Al contrario, chi la osserva con amore gode di una pace perfetta. Invece dunque di aspirare a far cose impossibili, fate ciò che dovete fare, fatelo bene, fatelo nel tempo e nel luogo e nel modo che vi è indicato; e ciò non a sbalzi, seguendo l'umore della giornata, ma sempre, tutti i giorni e durante tutta la giornata. Ecco la disciplina! E come la comunità procederebbe bene allora!
Nelle Missioni soprattutto vi si renderà manifesta la necessità della disciplina. E' tanto facile in Missione che uno vi si sottragga, se non è ben fondato in essa, se non ha imparato ad osservarla per dovere e con amore. E in Missione i danni dell'indisciplina sono assai più gravi che non in Casa-madre. Qui vi si può ancora rimediare, in Missione non sempre. Un atto di indisciplina, stante le circostanze in cui si svolge il lavoro di Missione, può arrecare disordini gravi, con detrimento del bene delle anime.
Preghiamo dunque il Signore che ci faccia ben conoscere la necessità della disciplina, che c'insegni ad osservarla alla perfezione; da parte nostra procuriamo di non rendere vani i divini ammaestramenti.
L'ordine della persona: l'urbanità
Il Decreto della S. Congregazione dei Religiosi del 1 gennaio 1911 dice che la disciplina deve incominciare dalla stessa educazione civile: Ab ipsa civili educatione initium ducendum est. Deve incominciare dal galateo. Né il Decreto si limita a fare una dichiarazione generica, ma viene ai particolari, dicendo che si deve sommamente curare la mondezza del corpo e degli abiti, mai però disgiunta dalla modestia e semplicità. Corporis habitusque mundities, comite semper modestia ac simplicitate, erit summopere curanda.
Pulizia del corpo anzitutto. Essa va ben curata conforme alle norme che danno tutti i trattati di galateo. E questo per civiltà e anche per carità fraterna. Non si deve tuttavia impiegare nella pulizia troppo tempo; non bisogna stare a "studiarsi", sì che la mezz'ora quasi non basta più. Il necessario, ma alla svelta puliti, ma non attillati. Nemmeno ai Convittori permetto che coltivino la capigliatura oltre il conveniente. E il conveniente per un Religioso è di avere i capelli semplicemente ravviati, che non cadano sulla fronte o sulle orecchie. Certi ciuffi e certe spartite non vanno, sanno di vanità e talora di peggio, perché sembrano piccole cose e invece hanno la loro importanza in fatto di formazione religiosa.
Viene poi la pulizia degli abiti. Anche qui non ricercatezza ma pulizia. Dice il Decreto che un abito sporco non dà odore dello spirito di Nostro Signore. Sordidi habitus non olent spiritum Christi. E S. Bernardo aggiunge: "La povertà non è sordidezza; la prima piace, non così la seconda" (196). Un abito rattoppato può andare, stracciato o macchiato non va più. Così insegnava S. Francesco di Sales che rattoppava talora di propria mano gli abiti (197). Anch'io mi son provato da chierico, ma poi la mamma mi fece dire ch'era meglio che mandassi la roba a casa. Ad ogni modo ritenete che per voi, oltre che di buona educazione, è ancora questione di povertà. A taluni gli abiti durano sempre puliti, ad altri nemmeno una settimana. Durante i lavori manuali avete la blouse; negli altri tempi dovete far attenzione. Un vestito macchiato sta male in tutti, ma assai più in un Religioso e più ancora in un sacerdote.
Il Decreto passa poi a toccare altri punti del vivere civile. Vuole che il Religioso sia compito in tutto il suo esteriore. Urbanità quindi nel camminare: in incessu. Non camminare come le lumache, ma nemmeno troppo in fretta. Non camminare pettoruti e nemmeno trasandati. Ci vuole una moderata gravità, soprattutto a passeggio. Nelle ricreazioni giocate pure, state allegri, ma anche lì conservate la moderazione e il bel garbo: di modo che, se entrasse improvvisamente un personaggio di riguardo, possiate tranquillamente continuare.
Urbanità nel contegno della persona: in agendi modis. Mai quindi le mani in tasca. E' un'abitudine che si prende molto facilmente, ma che non va. La scusa del freddo non vale, mentre per voi tiene lo spirito di mortificazione. Ricordo un degnissimo Prelato, che soleva passeggiare per le vie della città con le mani in tasca. Ebbene, non faceva buona impressione. Egli non ci badava, ben inteso, ma ci badavano gli altri. Quante volte fui tentato d'inginocchiarmi ai suoi piedi per avvertirlo di tale difetto!... Così pure non tener le mani incrociate dietro la schiena. Sa di bifolco e nei paesi domandano subito a costoro se hanno grano da vendere o figlie da maritare!... Vedrete mai una persona ben educata con le mani dietro la schiena. Come tenerle allora le mani? Ecco: non dondolarle a mo' dei soldati, come se si seminasse il grano, ma tenerle raccolte e muoverle convenientemente. Sant'Ignazio dice che fuori delle occupazioni le mani van tenute con decenza (198). Non è necessario tenerle sempre giunte, ma decentemente raccolte.
Urbanità nel modo di rispondere: in responsis dandis. Non rispondere semplicemente "sì", "no"; poi dare una risposta umile e mai insistere in modo inurbano. Tra di voi inoltre dovete chiamarvi per nome e col rispettivo titolo di Padre, Chierico, Coadiutore. Se vogliamo essere rispettati, bisogna che ci rispettiamo. Guai se il Can. Soldati, Rettore del seminario ai miei tempi, udiva che non ci chiamassimo coi rispettivi nomi! Diceva subito: "Non sei mica andato al pascolo con lui!". E qui viene a proposito il ricordarvi che desidero si parli italiano da tutti. E' per tutti un gran bene, anche per i Coadiutori. Non dico che tale regola valga anche per il parlatorio con i parenti; sebbene in seminario ai miei tempi ci facessero parlare italiano anche in parlatorio. Un giorno venne mio zio e mi disse: "Ma come! vuoi obbligarmi a parlare italiano?". Era un ordine forse non ben studiato e poi fu tolto. In parlatorio con i parenti usate pure il dialetto, ma tra voi si parli sempre italiano; così si diranno parole più fini, ché il dialetto, volere o no, è sempre un po' grossolano... Poi ancora darvi del "lei". E' una regola che abbiamo introdotta fin da principio per ovviare a molti inconvenienti ed è la pratica di quasi tutti gli Ordini e Congregazioni Religiose.
Urbanità nel modo di prendere cibo: in ipsa corporis sumenda refectione. E questo sta bene sempre, dappertutto. A tavola, forse più che altrove, sarete osservati dalla gente che si formerà un concetto della vostra educazione. San G. Cafasso, come insegnava ai Sacerdoti Convittori a fare il segno di croce, così insegnava il modo di comportarsi a tavola. Io qui non posso discendere ai particolari; avete per questo i libri e li leggete ogni anno in refettorio. Bisogna che facciate attenzione a ciò che si legge e più ancora ad applicare a voi, ciascuno a se stesso, le norme che vengono suggerite.
La Chiesa vuole dunque che la disciplina religiosa incominci da una buona educazione civile e che perciò i Superiori non trascurino di togliere dalle abitudini degli alunni quanto in esse v'è di contrario alle regole di buona creanza. Inurbanitas erit paulatim sed omnino tollenda. Poco per volta, sì, ma senza transigere. E il Decreto fa espressamente osservare che queste norme, pur essendo dirette in particolare ai Coadiutori, servono maggiormente per i sacerdoti o aspiranti al sacerdozio, per il buon esempio che devono dare.
Che se la Chiesa non crede di perdere tempo nel discorrere di queste cose e discendere a sì minuti particolari, non dovranno del pari sembrarvi pedanti i Superiori se tanto insistono su questo punto, desiderosi di darvi una formazione perfetta. Quand'ero in seminario taluni - non certo i migliori - facevano un appunto al Can. Soldati di essere esagerato, pel fatto di scorgere nella inurbanità di qualche chierico, un segno di non vocazione. Esagerato non era, ma è certo che ci teneva moltissimo, e ciò gli fa onore. Quando tornavamo da passeggio, ci squadrava da capo a piedi e tutto osservava: se eravamo puliti, se il collare non era un po' per traverso, se mancava un bottone alla talare, ecc. Lì per lì non ci diceva nulla, ma poi la correzione veniva. "Eh, - diceva - sarebbe ben più comodo per me lasciarli andare; ma no, è mio dovere e lo capiranno in seguito, quando saranno nelle parrocchie ed avranno dei dispiaceri anche solo per aver parlato forte in canonica". Ed io vi posso dire, per quanto ho ora di esperienza, che il Can. Soldati aveva perfettamente ragione, che non esagerava punto. Ancor oggi gli siamo riconoscenti.
A parte ogni altra considerazione, la buona educazione civile vi è necessaria anche per poter fare del bene. Non siamo mica dei romiti, dei cenobiti! Se vivessimo in un deserto, potremmo forse imitare S. Paolo l'eremita che non si cambiò mai il vestito, ma noi viviamo in società, dove l'educazione è indispensabile, non foss'altro per non dar molestia al prossimo, come dice lo stesso Decreto: Inurbanitas non potest quin molestiam aliis inferat.
Un Religioso, un sacerdote che non sa essere educato, non può essere stimato e resta per ciò stesso impedito di far del bene. Se certi sacerdoti avessero un po di galateo, quanto più si farebbero avvicinare! I Santi che vivevano nel mondo, non erano mica ributtanti! Certa gente non va alla Comunione nella tal chiesa, solo perché il Sacerdote non sa tenere la dovuta pulizia. Al contrario, si può molto giovare al prossimo e attirarlo a noi con i modi garbati e la compitezza della persona. In comunità ci vogliono dei riguardi; certuni non pensano che alle loro comodità.
Tutto serve, vedete. Non basta essere santi per se stessi (quantunque i Santi sapessero arrivare anche a questo), ma bisogna osservare le regole di convenienza ad edificazione del prossimo. Chi vuol essere solo buono e non educato, vada a chiudersi in una caverna; se stiamo in società, fa d'uopo non dare scandalo ma buon esempio. Anche il Concilio di Trento (199) insiste perché i chierici nulla facciano che non sia grave e pieno di venerazione.
Ritenete ancora che la buona educazione, sempre secondo il citato Decreto, è necessaria come disposizione alle virtù interne: Externe haec se habendi compositio viam sternit animo plenius educando. Ecco perché San Francesco di Sales, modello di compitezza nel trattare con gli altri, lo era ugualmente nel trattare con se stesso, fino a non permettersi mai di mettere una gamba sull'altra, anche quando era solo in camera. In lui l'educazione esterna partiva da quella dell'animo, e questa era a sua volta favorita e perfezionata da quella. Il suo animo era imbevuto di questo spirito, sì che appariva anche all'esterno. La modestia è uno dei primi frutti di questo continuo esercizio su se stessi. Questa virtù, infatti, al dire di S. G. Cafasso, regola i nostri più piccoli atti e movimenti, e ci rende perfetti in tutto il nostro comportamento esteriore, "dalla punta dei capelli all'estremità delle scarpe".
Non meno necessaria essa è per conservare la carità. Nelle comunità, allo stesso modo che nelle famiglie e in società, ci vogliono dei riguardi e non bisogna pensare solo ai propri comodi. L'urbanità ben intesa ci porta a questa delicatezza di sentire, prepara la via a pensare umilmente di noi, a non recar offesa agli altri, ad essere grati, a preferire gli altri a noi. Or mentre l'urbanità ci aiuta nell'esercizio della carità, la carità a sua volta informa, regge e nobilita l'urbanità. La carità esiste dove c'è più educazione. Le comunità che sono meglio educate esercitano più facilmente anche la carità vicendevole; dove invece si comincia con una parola grossolana, si finisce sempre col mancare di carità. L'essere grossolano vuol dire essere alla vigilia di qualcosa di peggio.
In comunità bisogna correggere sempre prima i difetti che danno noia al prossimo, poi gli altri. Mons. Gastaldi diceva che l'educazione è il principio delle virtù, nel senso che le favorisce. Se siamo ben educati, gli altri, osservandoci, ne prenderanno esempio. Desidero perciò che in questa Casa ci sia molta delicatezza, che si osservino le regole di buona civiltà, appunto perché chiamati a portarla agli altri. Ciascuno studi se stesso, per vedere se v'è qualcosa non conforme alla delicatezza. Un giorno in seminario un chierico non avendo capito una cosa, ne domandò spiegazione al compagno il quale, come meravigliato della di lui ignoranza, esclamò: Tu solus peregrinus in Jerusalem?!... Queste risposte non vanno; i Santi non facevano così, ma ripetevano due o tre volte le cose. Vorrei che aveste questa finezza di carità e che la nostra comunità possa dirsi una comunità di delicatezze. Qui dentro bisogna che ci formiamo allo Spirito di delicatezza.
Nessuno dica: "Tanto devo andare solo in Africa!". E che! forse che gli Africani non sono uomini anch'essi? Forse che non sanno comprendere e distinguere fra chi è educato e chi è grossolano? Sotto la pelle nera hanno un cuor buono, un sentire delicato e bisogna coltivarli. E poi, chi ha mai udito che Nostro Signore parlasse o si comportasse da grossolano, solo perché doveva convivere con gli Apostoli, che erano gente comune? Io vorrei che, appunto perché andate in Africa, foste più educati e più delicati. Maggior delicatezza e più civiltà, appunto perché andate a portare la civiltà.
Noi stessi, entrando in una casa, al vederla disordinata o nel trovare il personale di servizio ineducato, ci sentiamo portati a perdere la stima al padrone della medesima. Quanto più si regola in tal guisa a nostro riguardo il mondo, presso il quale siamo i rappresentanti di Dio! E gli Africani non sono anch'essi di questo mondo? Essi pertanto si formano l'idea di Dio da coloro che lo predicano, e come potranno stimare la religione predicata, se vedono il predicatore grossolano, con i loro stessi difetti? Se invece sarete educati, delicati, modesti, li attirerete a voi e poi alla fede, evitando così il pericolo di lasciar perdere le anime. Nei nostri paesi la buona gente sa sopportare, compatire, chiudere un occhio; ma non così i pagani. Procurate dunque di essere di esempio anche in questo.
E come giungere ad esserlo? Anzitutto assecondando gli sforzi dei Superiori, che non abbiano a ripetere sempre le stesse cose. Quelli che hanno questi difetti non se ne accorgono, e allora i Superiori devono tagliare.
In secondo luogo, lavorando attorno a voi stessi per togliere dalle vostre abitudini ciò che non s'addice a persone educate. Molte di queste cose s'imparano sui trattati di galateo, le altre con la riflessione su noi medesimi. E questo studio va poi sempre continuato, affinché non ritorniamo ai difetti di prima. Credetelo, è sempre bene speso il tempo che impieghiamo a dare uno sguardo su di noi, per domandarci se nulla abbiamo che disdica ad una persona educata, nulla che possa dar fastidio agli altri.
In terzo luogo, con la correzione fraterna. Talora uno non si accorge di certe miseriette ed è una vera carità il renderlo avvertito. Mi pare che da noi questo si faccia troppo poco, si ha paura di offendere. E perché mai dovremmo offenderci? Piuttosto dobbiamo dimostrarci riconoscenti. Le mancanze di educazione sono piccole cose da emendarsi a vicenda.
Questo punto della buona educazione mi sta proprio a cuore e non cesserò d'insistere, e voglio che altrettanto facciano i vostri Superiori. Quando si trattò di mettere le Suore al Convitto Ecclesiastico, avendomi l'Arcivescovo Card. Alimonda suggerita una certa Congregazione, volli prima conoscerne lo spirito. Mi recai perciò nella città dov'era la loro Casa-madre, ed entrai in chiesa, dove appunto stavano pregando. Ne udii una sbadigliare, l'altra ad eruttare... Anche a pranzo la tavola non era così come avrebbe dovuto essere. Dissi a me stesso: "Non fanno per noi...".
Altra volta si presentò a me un giovane di distinta famiglia, per chiedermi consiglio riguardo a una Congregazione Religiosa. "No, - gli risposi - non entri in quella, non fa per lei". Sapevo infatti che là dentro la buona educazione lasciava piuttosto a desiderare; quel bravo giovane avrebbe sofferto terribilmente e non avrebbe resistito.
Ecco perché insisto e voglio che la nostra comunità sia una comunità educata. Insieme con la pietà e lo studio, voglio la buona educazione e che tutte le cose siano ben fatte, con gravità, moderazione e delicatezza. No, non voglio, non permetto nulla di grossolano qui dentro. Educati o no prima di entrare, ora dovete imparare ad esserlo. Io ho sempre ammirato l'Istituto delle Suore Giuseppine, anche a questo riguardo. Vi entravano postulanti di tutte le condizioni e, dopo un po' di tempo, anche quelle di condizione meno elevata diventavano fini, educate, sì che alle volte si domandava: "E' di famiglia nobile costei?". Ed era una contadina! Così bene avevano preso le abitudini della Casa. Così vorrei che fosse della nostra comunità; questo è importante adesso e per quando sarete in Missione.
Ciascuno perciò si metta d'impegno. Chi ha tutta la delicatezza la conservi, chi non l'ha la cerchi. S. Bernardo diceva dei suoi Religiosi che, poco tempo dopo la loro entrata in convento, apparivano trasformati anche in ciò che è comportamento esterno. Dice: "Hanno preso un fare più disciplinato, un buon comportamento del corpo, parlano meno, hanno il volto più ilare, l'aspetto più verecondo, camminano con passo grave" (200). Vorrei che anche di voi, di tutti voi, i Superiori potessero dire la stessa cosa. Siete qui per avere l'ultimo tocco, il più perfetto, e se discendo a queste minuzie, è perché voglio che diventiate statue belle, viventi. Queste minuzie sono come i piccoli colpi di scalpello che perfezionano l'opera. Non dire perciò che i Superiori sono teste piccole, se guardano queste piccolezze; è il piccolo che forma il complesso. I Superiori hanno da rendere conto della vostra formazione non solo spirituale, ma anche civile. Quindi, teste piccole o teste grosse, fa niente; non bisogna lasciar passare nulla, non bisogna transigere sulla minima imperfezione. Quando voglio che non si zuffoli, che non si gridi forte, che non si getti carta per terra, che si tenga un contegno da sacerdoti è perché, se prendete questa forma perfetta, sarete ben visti e darete gloria a Dio.
Ben inteso, - e lo nota lo stesso S. Bernardo - che l'educazione civile non costituisce la perfezione religiosa, ma è un mezzo che ne facilita il conseguimento. I bei modi, in rapporto alla virtù, stanno come i fiori in rapporto ai frutti. Sono solo fiori, ma fiori che lasciano sperare i frutti. Facciamo così; il Signore ci benedirà e la nostra comunità sarà anche in questo una comunità disciplinata.
L'ordine della Casa
Insieme con l'ordine della persona, la disciplina richiede l'ordine della casa; non è quindi fuor di luogo esaminarci qualche volta su questo punto. Gli antichi padri di famiglia, come i patriarchi, solevano radunare di tanto in tanto i loro figli maggiori, più giudiziosi, e conferivano con essi delle cose di famiglia: parlavano del passato, del presente e dell'avvenire: come andassero gli affari, quali i miglioramenti da apportare, in quali cose correggere l'andamento della casa. Ne conobbi io uno di questi padri, e come procedevano bene le cose in quella casa! Com'era comune l'accordo e l'impegno per il buon andamento della medesima! Così dobbiamo fare anche noi, e questo è il motivo per cui godo tanto di trovarmi fra voi: dobbiamo intenderci intimamente.
Certo, se diamo uno sguardo al passato, non c'è che da ringraziare il Signore ed esclamare: Quanto sono ammirabili le tue opere, o Signore! (201). E questa è proprio opera del Signore, tutta sua. Chi avrebbe detto che da quel granellino di sabbia venisse su un sì grande edificio, non solo materiale ma spirituale? Se Iddio non l'avesse voluto, chi avrebbe osato principiare? Ringraziamolo dunque e intanto preghiamolo a continuarci le sue grazie: il che otterremo se da parte nostra non metteremo ostacolo. L'avvenire dell'Istituto dipende da noi, dal presente.
Diamo allora uno sguardo al presente e domandiamoci: Va bene la nostra comunità?... Potrebbe andar meglio?... Quali i mezzi da adottare?... Quali gli scogli da evitare?... Queste domande me le faccio sovente, specialmente alla sera prima del riposo; mi esamino per qui e per l'Africa; prendo il mio taccuino e passo tutti come in rassegna. Questo è ancora il motivo per cui il caro Vice Rettore fece il sacrificio di andare in Africa (202). Vi andò per parlare ai Missionari, sia in privato nelle singole Stazioni, sia in pubblico durante i santi spirituali esercizi, e intendersi con essi sulle Costituzioni, Regolamento, esercizi di pietà, vita comune, ecc., secondo un formulario che avevamo preparato di comune accordo. Ma lasciamo ora le Missioni e torniamo a noi, a questa Casa. Va essa bene?. Stavolta rispondo io per tutti e distinguo, nell'andamento della comunità, la materialità dallo spirito che vivifica il materiale.
Per il lato materiale potrebbe intendersi anzitutto il danaro. A questo, per fortuna, non ci avete a pensare. E' un bel fastidio di meno, credetelo! Ci pensa la Provvidenza, e strumenti nelle mani della Provvidenza sono i Superiori.
Riferiamoci piuttosto a ciò che riguarda l'ordine esterno, la regolarità della comunità. Orbene dico che ringraziando il Signore, va bene; non è più come alcuni anni fa, nella prima Casa-madre, dove ci urtavamo l'un l'altro. Qui siamo in locale ampio e, sistemate le cose, fissate le incombenze, la casa cammina come un orologio. Se venisse un estraneo, sarebbe obbligato a dire: "Che casa ordinata! Tutto pulito, ogni individuo va e viene compreso dell'adempimento del proprio dovere, senza imbattersi in altri. Tutti attivi, nessun ozioso, tutti al proprio posto". E mi pare che direbbe il vero.
Eppure non c'è ancora tutta la materialità richiesta o forse c'è troppa materialità. Mi spiego. Questa sistemazione e divisione degli impieghi, anche minimi, temo che uccida la spontaneità e la cura generale della casa, come cosa che tocca a tutti. Temo cioè che, dall'avere ognuno la propria incombenza, vi sia chi si restringa talmente in se stesso, da non curarsi più d'ogni altra cosa. E quindi, con la scusa del "non tocca a me", se inciampa in una sedia fuor di posto, non pensa a rimetterla al suo luogo; se trova per terra un pezzo di carta, non lo raccoglie; se sente una finestra o una porta a sbattere, non la ferma. Il sacrestano dirà: "Io penso alla sacrestia e basta!". E il calzolaio dirà: "Io penso alle scarpe e basta!". E l'ortolano dirà: "Io bado ai cavoli e a nient'altro!". Di più, temo che ognuno prenda l'abitudine di non fare più di ciò a cui è strettamente obbligato e non gli venga neppur in mente, finito il suo lavoro, di dare una mano al confratello che ha da ultimare il proprio.
Non così fanno i figli di famiglia, di cui vi ho parlato: i quali trovando un guasto o riscontrando un inconveniente, subito riparano o ne riferiscono a chi di dovere; son tutti uniti per il bene comune. Così dobbiamo fare anche noi: essere tutti uniti fra noi e con la casa, interessarsi di tutto, come se ogni palmo della casa fosse roba nostra. Non dire dunque: "non tocca a me". Tocca a tutti. Bisogna fare prima le cose di cui siamo incaricati, farle bene, compiutamente, con spirito; poi avere a cuore tutto il resto. Se vedo una cosa fuor di posto, la rimetto; se asporto uno strumento da lavoro, una scopa, ecc., lo riporto dov'era. Ci vuole spirito di ordine, nell'interesse di tutti e di ciascuno; che ognuno si senta membro vivo dello stesso corpo; lavorare tutti d'accordo al bene di tutto il corpo, come fanno le membra del corpo umano. Forse che non abbiamo tutti lo stesso fine? Sì, lo stesso fine ed un identico desiderio: che questa Casa, che l'Istituto proceda bene, prosperi e compia la sua missione.
Ciò non vuol dire però che dobbiamo interessarci di cose che non ci riguardano, immischiarci in cose che son fuori di nostra spettanza, cacciarci in cose delle quali non siamo pratici. Occhio a tutto, sì, ma non a capriccio. Certe cose si possono fare da tutti, altre no; in questi casi si deve avvertire il Superiore o l'incaricato. Bisogna dunque evitare i due eccessi: voler far troppo, anche ciò che non ci riguarda, e disinteressarsi di ciò che appartiene a tutti, cioè l'ordine della casa. Da voi, come missionari, il Signore vuole questo vivo interessamento del bene comune; essere intraprendenti. Un giorno alla Consolata avevano ripulite le lampade, lasciando poi uno straccio qui e un altro là. Passai di lì che il portinaio s'affaccendava a mettere un po' d'ordine. "Tu fai bene, - gli dissi - ma toccava agli altri". Chi non ha appreso qui questo amore all'ordine, non lo prenderà più. Negli uffici massimamente ci vuole ordine, ordine perfetto. Ricordatevi che il bene, perché sia bene, bisogna che sia intero; basta un piccolo difetto a guastarlo. Per lo più chi non è ordinato nel materiale, non lo è neppure nei pensieri e in tutto il resto.
Non solo, come già vi ho detto e ripetuto, il bene va fatto bene, ma per la stessa nostra vocazione religiosa, bisogna farlo ogni giorno meglio e cioè con spirito. Ciò che conta non è tanto l'azione in se stessa, quanto lo spirito con cui la si compie. Ecco, o miei cari, come deve essere la nostra Comunità: ordinata nel materiale, vivificata dal buon spirito.
I permessi
Perché una comunità proceda disciplinata, perché vi regni l'ordine, gioverà ancora l'essere fedeli a chiedere i dovuti permessi: tutti e sempre. Non bisogna muovere un dito senza permesso, se la Regola lo richiede. San Francesco di Sales prescrisse alle Religiose della Visitazione una dipendenza rigorosissima, fin nelle cose più minute. Non penitenze straordinarie, no, ma questa che supplisce tutte le altre. Il buon spirito di una Comunità si sostiene con l'osservanza di queste piccole cose, che poi davanti a Dio non son piccole.
I permessi vanno chiesti a chi di dovere. Per alcune cose è il Superiore, per altre il Prefetto, per altre gli incaricati dei diversi uffici.
Inoltre i permessi vanno chiesti nel modo dovuto. Ad esempio, quando si va dal Superiore per domandare di scrivere a casa, non bisogna dire: "Favorisca darmi della carta da lettere", ma bisogna prima chiedere il permesso di scrivere a casa. Se il Superiore riterrà opportuno di concedervelo, vi darà insieme anche la carta. Mi ricordo che, quand'ero in seminario, non si poteva uscire senza il biglietto del Rettore, che ci ammoniva: "Non venite a chiedermi il biglietto di uscita, ma chiedete il permesso di uscita".
Inoltre usare espressioni di umile sudditanza: "Se crede... se ha nulla in contrario...". Siate dunque fedeli a chiedere i permessi, fatelo volentieri. Quando si ha bisogno di una cosa, la si chieda. Taluni, piuttosto di chiederla, stanno senza; invece chiedendola si fa un atto di umiltà e di ubbidienza. Che cosa costa, a chi non è superbo, chiedere i piccoli permessi?... Chi non si adatta a farlo e comincia invece a far misteri, ad aggiustarsi, a poco a poco andrà a rotoli.
Puntualità e precisione
Giova ancora al mantenimento della disciplina e al buon ordine della Casa la puntualità: impiegare nelle singole occupazioni tutto e solo il tempo ad esse destinato.
Se qualcuno manca di questa puntualità, soprattutto nell'andare in chiesa e in refettorio, si perde tempo per causa dei ritardatari ed è brutto perdere tempo e farlo perdere. Voglio che la comunità sia precisa, che cammini appuntino.
L'esattezza consiste nel non tralasciare nessuna occupazione volontariamente, non tagliarne neppure una minima parte. Chi arriva in ritardo agli atti comuni, li farà in fretta e quindi male, o non fa più l'opera completa.
La puntualità ci dev'essere sempre; non solo quando siete in molti, ma anche quando siete in pochi. Sembra quasi inopportuno il suono della campana, la precisione nell'alzarsi e in tutti gli atti della giornata, quando la comunità fosse composta di sole due o tre persone; invece non è affatto inopportuno. Non importa il numero; ogni cosa deve procedere ugualmente, tanto se la comunità sia di cento, come di cinquanta, come di cinque persone; poiché l'ordine può esserci sempre e deve esserci sempre.
Alla "Consolatina", nei primi anni, si era in pochissimi: una comunità quasi non presentabile; eppure si faceva tutto lo stesso, tutto con ordine e puntualità. No, non bisogna diminuire di un ette il regolamento della Casa, con la scusa di essere in pochi; la campana deve continuare a suonare come al solito e la comunità vi si deve uniformare. Finché si è in due, c'è sempre la comunità.
La campana è come la voce di Dio che chiama alle diverse occupazioni. Bisogna ascoltarla prontamente, troncando magari a metà la riga. Sapete il fatto di quel Santo che, avendo troncato la parola a metà, al suo ritorno la trovò terminata con lettere d'oro. Se mentre siete in studio, venisse un angelo a dirvi di andare in chiesa, non lo dovete ascoltare, perché il vostro dovere in quel momento è lo studio. Dunque precisione in tutto. Con questo non voglio dire di lasciare il lavoro cinque o dieci minuti prima per essere precisi all'azione seguente. Se uno è previdente, può lavorare fino all'ultimo momento ed essere ugualmente preciso. Bisogna far tutto preciso. Si prevenga, ma poi si faccia tutto con precisione.
Questo è importante adesso e nelle Missioni. In Missione sarete in pochi, ma tutto dovrà procedere con ordine, secondo l'orario prestabilito e nulla mai cambiare. Ciò vale per l'orario, come per il funzionamento della Stazione. Se c'è da cambiare, se ci sono osservazioni da fare, si deve far presente la cosa al Superiore e sia lui a decidere. Ma credersi in diritto di mutare l'ordine della casa o delle cose, di propria testa, no! E' uno strappo alla disciplina, è causa di disordini. Sovente il meglio è nemico del bene. Bisogna vedere, conservare, perfezionare. E neppure i Superiori devono dispensare troppo facilmente da qualche punto dell'osservanza. Le troppe dispense sono la dissoluzione dell'osservanza e quindi della comunità. Le licenze devono essere sempre particolari e ad tempus; così si medita e si riflette sul bisogno.
Ecco, o miei cari, in che consiste la disciplina. Amatela e osservatela; fatelo per amore. Essa è a vostro riguardo come la legge di Dio, che vi accompagna in tutte le azioni della giornata. Sta scritto: Pax multa diligentibus legem tuam (203). Può dirsi che ami la legge di Dio chi osserva la disciplina più o meno bene? Costui non diligit, perciò non est illi pax multa. Questa espressione mi fu sempre cara. Sì, ricordate che la pace abbondante viene solo dall'amore, quindi dall'osservanza fatta per amore.