7. MEZZI PER CORRISPONDERE ALLA VOCAZIONE

Retta intenzione

I mezzi per corrispondere alla vocazione sono gli stessi che per tendere alla propria santificazione, che è il fine primario dell'Istituto e quindi della vocazione stessa. Quali essi sieno, lo diremo in seguito. Qui accennerò ad alcuni che riguardano più direttamente la perseveranza nella via intrapresa, e sono come la base su cui poggiano gli altri.

Il primo è la retta intenzione. Ve ne ho già parlato trattando dei mezzi per conoscere la vocazione. L'Istituto non è stato fondato e non sussiste che per formare dei Missionari della Consolata, ad esclusione di qualsiasi altro fine, per quanto santo. Del resto, anche nei seminari dove si vuol fare un po' di tutto, si finisce col far nulla: né dei buoni sacerdoti né dei buoni secolari. Avvenne così alle antiche Scuole Apostoliche fondate dal Can. Ortalda [Il Can. Giuseppe Ortalda (1814-1880) fu, dal 1851 al 1880 Direttore dell'Opera della Propagazione della Fede nell'Archidiocesi di Torino. Fondò un seminario chimato "Scuole Apostoliche" che oltre a provvedere di clero le diocesi piemontesi doveva preparare sacerdoti per le Missioni. Il seminario scomparve con la morte del fondatore.] nella nostra Città, dove si voleva formare dei missionari, dei sacerdoti diocesani e dei buoni secolari. Si diceva: Ne quis pereat! E si concluse praticamente: Ut omnes pereant! Cioè si ottenne nulla.

Chi dunque fosse venuto nell'Istituto con altro fine da quello di farsi Missionario della Consolata, se ne allontani per amor di Dio! In coscienza non può restarvi Sarebbe come una pianta posta in terreno non favorevole, sarebbe come un osso fuor di posto; sarebbe cioè di danno agli altri, un ostacolo al buon andamento della Casa e al raggiungimento del fine comune. Costui, o raddrizzi l'intenzione se ancora lo può, o se ne vada.

Esaminatevi seriamente: siete entrati con retta intenzione? Di questo non ne dubito. Ma la mantenete tutti al presente, questa retta intenzione? Il che vuol dire: avete tutti ferma volontà di offrirvi al Signore, che vi formi secondo il Cuor suo, per essere un giorno santi Missionari della Consolata?

Stima e amore alla vocazione

Bisogna, in secondo luogo, che stimiate grandemente la vostra vocazione. Quante volte non avete udito decantarne l'eccellenza! Voi stessi, prima di venire nell'Istituto, stimavate tanto questo stato, da non veder nulla di più bello, di più grande, di più santo. Ond'è che formaste il proposito di farvi Missionari a tutti i costi; e, pur di raggiungere lo scopo, v'imponeste i più gravi sacrifici.

La vocazione all'apostolato vi appariva fin d'allora come la più santa delle vocazioni. S. Dionigi la dice l'opera divina per eccellenza: Divinorum divinissimum! Leggendo il Vangelo, quante volte non concepiste forse il desiderio: - Ah, fossi stato anch'io nel numero degli Apostoli! - Ebbene, lo siete, ciascuno di voi in particolare il Signore ha rivolto lo stesso mandato che ai dodici: Andate per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura (76). Egli, a così esprimerci, ha assoggettato ai Missionari tutta la terra, tutte le nazioni, tutti i popoli. Che cosa volete di più onorifico? di più grande?... Considerate pure le varie vocazioni con cui una creatura può legarsi a Dio, non ne troverete una più perfetta della vostra. Il Signore per voi ha come esaurito il suo infinito amore in fatto di vocazione. Non saprebbe e non potrebbe darvene una più eccellente, perché vi ha dato la sua stessa missione: Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi (77). L'identica missione che Gesù ricevette dal Padre, è da Lui trasmessa a voi. E con la missione, la stessa divina potestà: E' stata data a me tutta la potestà in cielo e in terra. Andate dunque, istruite le genti (78).

E le promesse fatte da Gesù agli Apostoli? Ah, il Paradiso di un Missionario che abbia sempre fatto il suo dovere, che abbia corrisposto a tutte le grazie del Signore! Coloro che insegnano a molti la giustizia, saranno come stelle nell'eternità senza fine (79). V'è a stupire che tutti i Santi abbiano desiderato di essere Missionari?... Fate dunque bene a ringraziare ogni giorno, mattino e sera il Signore per il dono della vocazione: "Vi ingrazio d'avermi chiamato per sola vostra bontà all'apostolato fra gli infedeli". Queste parole non sono state messe a caso; ditele di cuore. Bisogna proprio che sentiate di aver ricevuto una grazia singolare e quindi il dovere della riconoscenza verso Nostro Signore.

Nostro Signore ha fatto questa grazia a voi, senza aver bisogno di voi. Egli vi ha chiamati all'apostolato "per sola sua bontà". Egli non ha bisogno di niente e di nessuno. L'ha fatta a voi, questa grazia, a preferenza di tanti altri che n'erano più degni e che vi avrebbero forse corrisposto meglio. E perché proprio a voi? Perché vi ha amati di un amore particolare; ha fatto con voi ciò che fece con quel giovane del Vangelo: E Gesù miratolo, gli mostrò affetto e gli disse: ...vieni e seguimi (80). Ecco che cos'è la vocazione! E' questo sguardo di predilezione di Gesù all'anima. Vi può essere cosa più desiderabile del sapersi prediletto da Gesù? Ah, davvero che non fecit taliter omni nationi! (81). A milioni e milioni di altri uomini, a intere nazioni non ha fatto la grazia che ha fatto a voi. Vedete dunque che non fate una carità al Signore abbracciando lo stato missionario, ma è il Signore che la fa a voi. E quale carità!

Non basta però stimare il proprio stato, bisogna amarlo; amarlo praticamente, nonostante tutte le miseriuccie che vi possono essere e che il Signore permette per accrescere i nostri meriti. Amarlo di cuore, dimodoché tutto ciò che il mondo potrebbe offrirci di allettante, ci sembri un nulla di fronte alla bellezza e grandezza della nostra vocazione. Se qualcuno vi dicesse: "Hai talenti, potevi farti onore nel mondo, potevi far carriera, ecc.", voi dovreste rispondere con S. Paolo: Io riguardo tutte le cose come perdita rispetto all'eminente cognizione di Gesù Cristo mio Signore: per il quale ho rinunziato a tutte le cose, e le stimo come spazzatura per poter guadagnare Cristo (82).

Dall'amore alla propria vocazione scaturisce spontaneo ed ugualmente forte l'amore al proprio Istituto. Stimarlo e amarlo più d'ogni altro; sentirsi santamente orgogliosi di appartenervi, di essere non solo Missionari, ma Missionari della Consolata; ritenere questo titolo quale privilegio d'onore. Quindi ancora vivere della vita dell'Istituto, come dice i Direttorio: "Gli alunni devono considerarsi membri vivi e interessati di una nuova Famiglia, perciò prendere a cuore gl'interessi dell'Istituto e riguardarne i successi come bene proprio ed individuale" (83).

Amare dunque questa Casa, come vera Madre; essa vi ha accolti fra le sue braccia, vi nutre e vi prepara all'apostolato. E' la Casa della vostra santificazione, perché qui e non altrove troverete tutte le grazie necessarie per santificarvi, ed è in questa Casa che vi preparate la gloria futura. Domus sanctificationis nostrae et gloriae nostrae (84). Sull'esempio di S. M. Maddalena de' Pazzi, dovreste baciare le mura di questa Casa, apprezzare come si conviene la grazia di appartenervi. Val più un giorno nei tuoi atrii, che mille (85), che dieci mila nei padiglioni dei grandi della terra. Molto meglio essere l'ultimo qui dentro, che non occupare i primi posti nel mondo. Ho scelto di essere abietto nella casa del mio Dio, piuttosto di abitare nei padiglioni dei peccatori (86). Così fece S. Luigi, che preferì la cella del convento alle sale dei palazzi reali, e andava ripetendo: Quanto sono amabili i tuoi tabernacoli, o Signore degli eserciti! Tutte queste espressioni - così belle - dovremmo averle frequentemente sul labbro, onde accrescere in noi l'amore e la riconoscenza verso l'Istituto e la Casamadre. No, non bisogna starvi indifferenti, come si starebbe in un qualsiasi collegio. Questa è Casa di apostoli, destinata alla formazione di apostoli!... Chi non avesse questi sentimenti, dà a vedere che questo Istituto non è fatto per lui, oppure ch'egli non corrisponde alla grazia della vocazione.

Confidenza con i Superiori

Nella nostra Comunità, come in ogni Casa religiosa, vi sono tre specie di rendiconti: 1° Quello che si fa al confessore in ordine all'assoluzione. 2° Quello che si fa al Superiore o Direttore locale, come a capo di famiglia, pel buon ordine della Comunità e riguarda le cose esterne. 3° Quello che l'alunno fa di sua spontanea volontà ai Superiori, aprendo loro il cuore, perché vi leggano come in un libro: le disposizioni al bene, le difficoltà che incontra, le passioni che lo agitano, le tentazioni cui va soggetto, come pure i desideri, le aspirazioni, i propositi di sempre più alta perfezione. E' di quest'ultimo rendiconto che intendo parlarvi.

Il Direttorio dice: "Gli alunni riconoscano praticamente nei Superiori i ministri di Dio, le persone cioè loro date da Dio per formarsi alla santità e al vero spirito dell'Istituto. Nei medesimi considerino altrettanti padri, in cui versare i pensieri della loro mente ed i sensi del loro cuore, per essere corretti e formati" (87). Il Direttorio, dunque, non solo ammette, ma raccomanda questa pratica; e se la raccomanda, è segno ch'essa è cosa buona in sé ed utilissima all'anima per avanzare nella perfezione.

Non nascondo che da taluni, anche sacerdoti, si è fatto al riguardo grande confusione, per mancanza di studio e di seria considerazione delle relative decisioni della Santa Sede. Appoggiandosi ad un Decreto della S. C. dei Religiosi, in data 14 dicembre 1890, costoro conclusero senz'altro: essere proibito ai Religiosi ogni rendiconto, ogni apertura di cuore ai Superiori; ma non è così.

Anzitutto, il citato Decreto riguarda espressamente le Congregazioni o Istituti composti di soli laici (Monasteri di Suore, Fratelli delle Scuole Cristiane, ecc.) e non gli Istituti dove risiedono dei sacerdoti, e ciò ripete più volte, affinché ben lo si comprenda. L'apertura di coscienza, infatti, benché buona in sé, può essere proibita - e lo fu - per le circostanze e nelle circostanze specificate nel Decreto stesso. Ognun vede però che tali circostanze (ossia il pericolo di abuso) non si riscontrano quando i Superiori sono sacerdoti: sia perché essi sono i direttori stabiliti da Dio per guidare le anime; sia perché vincolati dal sigillo sacramentale comprendono il gravissimo dovere del segreto, del quale possono servirsi solo per il bene del confidente e sempre col suo consenso o tacito o espresso; e finalmente perché questo rendiconto può farsi in confessione.

Da notarsi, in secondo luogo, che il Decreto proibisce solamente la mercizione da parte dei Superiori: ossia vieta ai Superiori di pretendere dai sudditi l'apertura di coscienza. No, nessun Superiore può imporla, né i sudditi son tenuti a farla e, se richiesti, possono rifiutarsi.

Ma se l'obbligo non c'è, il suddito da parte sua è liberissimo di agire al riguardo come crede meglio. Il Decreto lo dichiara espressamente e qui senza eccezioni. Invero, se una Suora è libera di aprirsi, ad esempio, con una consorella da cui speri consiglio, perché non dovrebbe essere libera di confidarsi con la superiora, onde averne aiuto e guida? Tanto più poi, ripeto, nelle comunità dove i superiori sono sacerdoti. Insomma, l'apertura di coscienza da parte del suddito (fuori del confessionale) è assolutamente libera. Chi si sente di praticarla, lo faccia; altrimenti si astenga. Nelle comunità vi sono individui che non hanno mai bisogno di nulla, né di presentarsi a questo o a quello; mettono in pratica quello che sentono, cercano di osservare le regole, son sempre tranquilli e... Deo gratias! Vadano pure avanti così tutto l'anno. A loro basta Nostro Signore e il confessore.

Ma altri ve ne sono - e sono i più - per i quali l'apertura di cuore coi Superiori è un vero bisogno, un'assoluta necessità: sia per non perdersi d'animo nelle difficoltà, come per avanzare più speditamente e più sicuramente nella perfezione religiosa. Non sempre, infatti il confessore può bastare all'anima, anche perché in comunità le confessioni settimanali devono essere per lo più spicce, né il confessore può essere sempre a disposizione dei penitenti. Ci sono inoltre certi stati d'animo, si danno talune malattie spirituali (scrupoli, tentazioni, ecc.) che hanno bisogno d'una cura attenta, assidua, lunga e metodica, fatta da chi non solo conosce l'anima a fondo, ma conosce altresì tutto l'individuo con il suo carattere, le sue inclinazioni, le sue stesse occupazioni, ecc. Come vi sono certe pratiche di vita e di perfezione religiosa che, venendo a inserirsi nell'ordinamento della comunità, richiedono per lo meno l'approvazione del superiore: come sarebbero le veglie, i digiuni straordinari e tutto quanto esce dalla perfetta osservanza della vita comune. Ognuno comprende come in tutti questi casi, in via ordinaria, sia più sicuro il consiglio del Superiore che non quello del semplice confessore. Ed è per questo che l'apertura di cuore dei Religiosi con i propri Superiori non solo è lasciata libera dalla Chiesa, ma è vivamente raccomandata, come lo è da tutti i maestri di spirito e dallo stesso nostro Direttorio. Per molti di voi essa è mezzo indispensabile per corrispondere degnamente alla vocazione.

Permettete quindi ch'io insista su questa pratica, riferendomi a coloro cui essa può tornare utile od è necessaria. Noi formiamo qui una famiglia, non un collegio. Ora, nelle famiglie per bene i figli si sentono in dovere di comunicare al padre, per averne aiuto, i pensieri e gli affetti, i beni e i mali. Voi siete i figli, i Superiori sono i vostri padri nel Signore. Scopo unico dei Superiori è di guidarvi, formarvi santi Missionari. Giorno e notte essi sono al vostro fianco, pensano, pregano, si affaticano per voi: consci della responsabilità che hanno davanti all'Istituto, alla Chiesa e a Dio. I vostri cuori devono perciò essere loro aperti, come di figli col proprio padre. E' questo che essi bramano e non altro. Non vestra sed vos! E non dimenticate mai ch'essi hanno da Dio la grazia dell'ufficio, una grazia tutta speciale per guidare le anime vostre, per formarvi alla santità richiesta dal vostro stato. Credetemi, senza questa apertura d'animo diventa assai più difficile il corrispondere degnamente alla vocazione, perché è attraverso i superiori, come attraverso un canale, che il Signore fa giungere le sue grazie alle vostre anime. Credo di poter affermare che il buon spirito di una comunità religiosa fiorisce o deperisce in ragione del come si pratica questo esercizio.

Nessuna meraviglia, quindi, che il demonio tanto si arrabatti ad ostacolare tale esercizio, suscitando dubbi, timori e diffidenze. Ricordate il fatto riportato dal Rodriguez: di quel monaco che, molestato lungo tempo da tentazioni, non osava aprirsi col Superiore per timore di perderne la stima; ed essendosi poi vinto, nel medesimo istante che si recava dal Superiore si sentì libero da quella pena (88). Avviene infatti così: basta talora che il Religioso si decida ad aprirsi col Superiore, che subito ritrova la pace del cuore e l'energia necessaria per riprendersi ed avanzare.

Inutile aggiungere che, per ricavare frutto da questa pratica, è necessario ch'essa sia fatta a dovere: non per secondi fini, ma con umiltà, semplicità, retta intenzione e desiderio efficace di trarne profitto. Per intanto, essendo essa libera come abbiam detto, chi ne usa non disprezzi coloro che sentono di poterne fare a meno; e costoro non disprezzino chi ne usa. Questo vi posso dire concludendo: che nessuno s'è mai pentito di aver avuto confidenza con i Superiori. Per contrario molti rimpiangono, ma troppo tardi, di aver trascurato questo potente mezzo di santificazione. Sarebbe bastato un atto di umiltà nel confidare ai Superiori le proprie pene, sarebbe bastata forse una parola del Superiore per salvare una vocazione che ora è perduta per sempre. Beato chi queste cose comprende e pratica!

Buona volontà

Tutto quanto abbiam detto e quant'altro possono dire o fare per voi i Superiori, sarebbe inutile se manca in voi la buona volontà. Sovente, pensando a voi, dico: "Se comprendessero bene l'importanza della loro vocazione! Se facessero un po' di sforzo, se avessero un po' più di energia, il Signore verrebbe loro incontro e si servirebbe di essi per fare dei miracoli!". Invece alle volte siamo così fiacchi, senza voglia, poco generosi e tanto incostanti!

Non vi pare che quanto abbiam detto sulla vocazione debba farvi pensare? E che il pensiero dell'avvenire debba essere per voi un grande pensiero? Se non riuscirete degni Missionari, che sarà di voi nel tempo e nell'eternità? E che sarà di voi se aveste a perdere o a tradire la vostra vocazione?

Eppure alcuni che un giorno erano presenti proprio in questo stesso luogo, che erano fra voi, che hanno udito ciò che voi ora udite, che avevano la vocazione e per la vocazione avevano lottato e sofferto, ecco che l'hanno perduta! E l'hanno perduta - fa pena il dirlo - per mancanza di generosità, di volontà! Credetelo, è doloroso per i Superiori vedere qua e là dell'indifferenza, della leggerezza; scorgere del malcontento, della musoneria; constatare che si procede a stento, indecisi, volubili, vere canne sbattute dal vento. Se tutto va bene, se c'è bonaccia in noi e attorno a noi, eh! si grida d'essere pronti a morire per la vocazione! Andiamo anche noi e moriamo con lui! (89). Ma poi sorge una difficoltà? Non solo si raffreddano nel fervore, ma cadono nei dubbi sulla vocazione e poi coltivano nella mente l'idea di abbandonare la via intrapresa.

Invece non è così che si agisce con la vocazione. Come abbiam visto, essa è un dono di Dio: e questo dono Egli lo fa una volta per sempre e non già per riprenderselo. La grazia della vocazione non va dunque trattata alla stregua di un oggetto che possa prendersi o deporsi a piacimento. Perché assoggettare la vocazione ai capricci d'una volontà incostante ? Siate forti, siate tenaci nella vostra vocazione.

Il Can. Camisassa, l'amatissimo nostro Vicerettore, agì tutta la vita con volontà tenace. Un Prelato mi diceva di lui: "Ho sempre ammirato in quell'uomo la costanza. Non badava a nessuno, né a chiacchiere, né ad altro, ma tirava dritto!". E credete voi che delle difficoltà non se ne siano incontrate ? Furono innumerevoli e d'ogni genere. Che se ad ogni ostacolo che si frapponeva, ci fossimo arrestati o anche solo disanimati, il Santuario sarebbe ancora al punto in cui l'abbiamo trovato e l'Istituto sarebbe ancora di là da venire. E invece, conosciuta la volontà di Dio, si va avanti, fidando ciecamente nel divino aiuto. Vorrei che di ciascuno di voi si potesse fare lo stesso elogio del Vicerettore. Non dimenticate quest'Uomo, pregate anzi che vi ottenga un po' della sua energia.

La costanza è assolutamente necessaria per corrispondere alla vocazione, perché le prove ci sono e ci saranno. Voi stessi, prima di venire, che cosa pensavate di questo stato? Come ve lo immaginavate? Come uno stato di tranquillità e di conforto, o non piuttosto uno stato di battaglia e di sacrificio? Fors'anche pensavate d'incontrare ciò che ebbe a soffrire il Beato Perboyre e tanti altri: catene, spine, flagelli, maltrattamenti d'ogni sorta. E tutti questi sacrifici, anziché spaventarvi, vi attiravano. Ed ecco che adesso, a contatto con sacrifici insignificanti, alle volte più immaginari che reali, vi accasciate e volgete lo sguardo verso la terra d'Egitto dove avete lasciato le cipolle!

Credete voi che nel mondo non vi siano delle difficoltà? Basta avere un minimo di esperienza, basta interrogare la gente del mondo, basta ricordare ciò che avveniva o avviene nelle nostre stesse famiglie. Quante lacrime! Eppure, o per amore o per forza, vanno avanti; perché guai se coloro che hanno abbracciato uno stato nel mondo, l'avessero ad abbandonare o a mutare solo perché incontrano delle difficoltà! Ciò che nel mondo tanti fanno per necessità, voi dovete farlo per amore. Per essi si tratta sovente solo di beni temporali, per voi di beni eterni; per essi, di una professione; per voi, della più santa delle vocazioni. E poi, se il demonio vi suscita delle difficoltà, la grazia di Dio non può mancare per superarle. Ma dobbiamo corrispondervi, mettendo da parte nostra un po' di buona volontà.

A tutti, ma specialmente al Missionario, è necessaria la buona volontà. E' il suo carattere, il suo distintivo, la virtù propria del suo stato. In mezzo ai continui sacrifici della vita apostolica, tra le molte prove, è necessaria una virtù che non pieghi, che duri ferma nel bene. Ma per essere tali in Missione, bisogna che ne acquistiate qui l'abito. Fermezza fin d'ora nei piccoli sacrifici, nell'osservanza del regolamento, nella puntualità e precisione in tutto, nell'eseguire prontamente e con gioia anche i semplici desideri dei Superiori. E così tutto l'anno e durante tutti gli anni di formazione. Allora sì che riuscirete veri Missionari!

La battaglia santa che il nostro Istituto conduce contro il demonio per strappargli anime, ben si potrebbe paragonare alle lotte giudaiche dei Maccabei. Io devo imitare il padre Matatia, voi dovete ricopiare le virtù dei figli: Giuda, Gionata, Simone. Essi risposero con slancio alla chiamata di Dio, furono inviati dal Sommo Sacerdote, e con quale spirito e con quanta fortezza lottarono! Sollevarono così il prestigio d'Israele e diedero tutti la vita per la santa legge di Dio (90). Così vi voglio: generosi, fermi e costanti nella vocazione. Solo così terrete alto il prestigio dell'Istituto e sarete atti un giorno a combattere le battaglie della fede ovunque vi manderà il Sommo Pontefice.

giuseppeallamano.consolata.org