Attaccamento alla propria volontà
Fra gli ostacoli a ben corrispondere alla vocazione, S. Alfonso pone in primo luogo l'attaccamento alla propria volontà. E' dunque necessario, se si vuol perseverare, rinnegare la propria volontà (43). Il che è quanto si dice ad ognuno, prima che entri in Religione: di lasciar fuori la testa. S. Filippo soleva dire: "Datemi due dita (ed accennava alla fronte) e vi darò un Santo" (44). Altre volte diceva a chi stava per entrare in Religione: "Se lasci fuori la volontà, ci riuscirai". Eppure, credetelo, di volontà propria ne abbiamo tutti. Il "voglio" e il "non voglio" dominano nel mondo, ma son pur vivi nelle comunità religiose. Non sempre questa cattiva erba si vede, ma ad occasione spunta fuori.
Il motivo di ciò è che non si considera abbastanza il gran male che è l'attaccamento alla propria volontà e i molti danni che ne derivano. Un pregiato autore d'ascetica, il P. Antonio Semeria, Lazzarista, scrive: "Tutta la vita di un buon Religioso deve consistere nel rinnegamento della propria volontà e del proprio giudizio. Ond'è che se alcuno lavorerà molto e lungamente ma di proprio genio, è nulla. Se studierà da riuscire erudito e dotto, eloquente predicatore, è parimente nulla. Se, posto a reggere, darà prova di prudenza, è ancora nulla. Il Signore a costoro, nel dì del giudizio, risponderà come a quelli che gli diranno di aver profetato: Non vi ho mai conosciuto, ritiratevi da me (45). Laddove, se alcuno farà penitenza dei suoi peccati e procurerà l'emendamento dei suoi vizi, è già qualcosa. Se prenderà a sopportare con pazienza, anzi con allegrezza quanto converrà per osservanza religiosa questo pure è già qualcosa. Se sarà diligente e fervoroso nel pregare, umile e modesto nel parlare, anche questo non è poco. Se poi per amor di Dio rinunzierà alla propria volontà, questo è molto, e sommo, è tutto" (46). Ed aggiunge: essere questo un martirio incruento molto più doloroso del vero martirio; una battaglia per cui Dio concede in cielo la corona del vincitore; la via stretta indicata da Gesù.
Sarà in molti questa perfetta abnegazione? No, molti si credono di averla, perché obbediscono esternamente, per necessità o falsa prudenza, ma internamente borbottano e si ribellano. Sono ipocriti che non possono piacere a Dio, che vede intus; sono infelici che conducono una vita senza pace, senza meriti e dannosa alla comunità. Tali, infatti, sono i danni dell'attaccamento alla propria volontà. Esaminiamoli a uno a uno.
1. UNA VITA SENZA PACE. S. Bernardo pronunciò una grande sentenza quando disse: "Cessi la propria volontà e non vi sarà più infermo" (47). Ciò spiegando, S. Alfonso dice che la propria volontà non solo conduce all'inferno nell'altra vita ma anche in questa ci fa soffrire un inferno anticipato (48). Che cos'è infatti l'inferno se non la privazione d'ogni bene con ogni sorta di mali? Precisamente ciò che avviene a chi vuol fare la propria volontà: perde ogni bene e accumula del male. Da mattino a sera costui ha la propria volontà in opposizione a quella di Dio, una volontà quindi contraddetta di continuo e di continuo contraddicente. Come può aver il cuor contento? No; la sua sarà una vita agitata, inquieta, triste. Sta scritto: Non v'è pace per l'empio (49), e il non corrispondere alla vocazione, rifiutando di rinnegare la propria volontà, è vera empietà.
2. UNA VITA SENZA MERITI, anzi con molti demeriti. S. Bernardo paragona la propria volontà alla sanguisuga e alla vipera. Guardati - egli dice - da questa sanguisuga che è la propria volontà, poiché essa trae tutto a sé. Guardiamoci da essa come da una vipera pessima e dannosissima. Come la sanguisuga, succhiando il sangue, indebolisce e riduce all'estremo delle forze, così la propria volontà ci toglie il principio di tutti i meriti, che è la volontà di Dio. E come la vipera avvelena il sangue, così la propria volontà guasta tutti i nostri pensieri, tutte le nostre azioni e conduce alla morte dell'anima (50). Conclude perciò lo stesso Santo; "Grande male la propria volontà, per cui ciò che facciamo di bene non è bene" (51).
Al tempo d'Isaia, gli Ebrei provati da molte tribolazioni, invocarono la misericordia di Dio, e non essendo esauditi, se ne lamentarono col Signore, al quale ricordavano i loro digiuni. Rispose loro Iddio: Ecco che nel giorno del vostro digiuno si trova lo vostra volontà (52). Quante opere buone senza merito, perché in esse cerchiamo noi stessi, la propria volontà, i propri capricci! S. Agostino racconta di persone che andarono al martirio di proprio capriccio e non furono perciò martiri. Mi diceva un giorno una persona: "Mi farei religiosa, se non fosse che non potrò più ascoltare le mie dieci Messe!". Non è una buona ragione questa! Gran bella cosa ascoltare dieci Messe, ma non lo è per te, se da te Dio non la vuole. Voi beati, che potete sempre conoscere la volontà di Dio, senza tema d'essere ingannati dall'amor proprio o traditi dalla propria volontà!
3. UNA VITA INUTILE ed anzi di danno alla Comunità. Inutile, perché i Superiori non possono servirsi di codesti individui; vorrebbero comandar loro qualcosa, ma si trattengono per non esporli a contraddire, a disobbedire, a mormorare. Sono poi anche di danno alla comunità, appunto perché agiscono di proprio capriccio; e anche se piegano la volontà, ben si vede che lo fanno per forza, disapprovando almeno internamente ogni ordine. Quanto male fanno questi superbi! Costoro, se ancora novizi, i Superiori devono espellerli senza riguardi; e se già professi perpetui, vanno lasciati a parte come un ingombro.
Guai a chi porta in Missione la propria volontà! Costoro non faranno bene in nessun posto, e non vi sarà alcun posto che faccia per essi; bisognerebbe crearne uno apposta e tuttavia troverebbero ancora a ridire. Mai contenti, mai a posto, vogliono tutto disapprovare; un vero supplizio per le comunità, un tormento per i Superiori, uno scandalo per i confratelli, una vita inutile e di danno sia a sé che all'Istituto. Dell'esperienza ne ho, sapete! Delle comunità ne ho dirette, sia di uomini, che di donne, e so ciò che mi dico. Guai a chi persiste nell'attaccamento alla propria volontà!
Direte: Non si potrà dunque mai fare osservazioni ai Superiori? Risponde S. Ignazio con la magnifica Lettera sull'obbedienza. Il suddito deve anzitutto avere la disposizione di obbedire e non il mal vezzo di subito pensare alle difficoltà contrarie. Piegato così il giudizio e la volontà propria, se realmente vi sono delle difficoltà che il superiore non conosce, si possono far presentì, conservandosi però nella santa indifferenza riguardo all'accettazione delle osservazioni fatte.
Altra cosa sono invece le tentazioni contro l'obbedienza: queste possono venire, ma si combattono come tutte le tentazioni. Ricordate l'esempio di S. Giovanna di Chantal. Avendole S. Francesco di Sales proposto di farsi cappuccina, poi carmelitana, rispose ogni volta di sì; come pure alla terza proposta di un Ordine nuovo. Interrogata poi dal Santo su ciò che le era passato in cuore mentre acconsentiva, rispose che sentiva ripugnanza, ma che tuttavia era realmente disposta a seguire il consiglio, ritenendolo come l'espressione della volontà di Dio.
Ma più dei sopraddetti motivi, devono spingerci a combattere la propria volontà l'esempio e gl'insegnamenti del Divin Redentore. Egli, prefissasi la volontà del suo Eterno Padre, ne fece la norma di tutta la sua vita. Già per bocca del Profeta aveva detto: In capo del libro sta scritto di me: ch'io faccia la tua volontà (53). Questa volontà del Padre la tenne ben cara nel suo cuore: Mio Dio, lo volli, e la tua legge è in mezzo del mio cuore (54). Di essa costantemente si nutrì: Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi a mandato (55). Nell'esecuzione perfetta della volontà del Padre compendiò tutta la sua divina missione: Sono disceso dal Cielo non a fare la mia volontà, ma la volontà di Lui che mi a mandato (56). Sempre quindi operò in conformità alla medesima; Non cerco il mio volere, ma il volere del Padre che mi ha mandato (57) Non dovrebbe tutto ciò indurci a rinnegare una buona volta la propria volontà ?
Ma a noi Gesù rivolse una parola tutta particolare: Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso (58). Che vogliono dire queste parole? Risponde S. Gregorio Magno: che avendo il Signore proposto ai suoi seguaci di rinunziare a tutte le cose, fa qui un passo avanti e dice che bisogna rinunziare a se stessi: il che è più perfetto ma anche più difficile (59). Sia dunque nostro proposito di far guerra alla volontà propria e seppellirla nel sepolcro dell'obbedienza, come dice S. Giovanni Climaco: "L'obbedienza è il sepolcro della propria volontà" (60). Dobbiamo obbedire corde et animo a tutti i Superiori, rendendoci indifferenti agli impieghi, agli uffici, ai lavori, ecc., e non mai far raggiri per ottenere quello che la nostra volontà vorrebbe. Facciamoci la santa abitudine di non mai sindacare gli ordini e le disposizioni dei Superiori, e che la volontà nostra, fin dal primo istante, si offra pronta ad eseguire ogni comando come voce di Dio. Sta scritto di S. M. Maddalena de' Pazzi: che non si poté mai conoscere quale fosse la sua volontà, in tanti anni di monastero. Così dovrebbe essere di tutti i Religiosi e così sia di voi.
L'attacco ai beni e alle comodità
Il secondo ostacolo alla corrispondenza alla vocazione è l'attaccamento ai beni e alle comodità. E' quindi necessario che il religioso si rinneghi anche in questo. Di ciò tratteremo di proposito parlando della povertà. Solo vi dico che anche nelle comunità religiose son pochi quelli veramente staccati dai piccoli comodi, indifferenti all'abitazione, al cibo, al vestito, ecc. Se ciò facessero abitualmente e se questo buon abito portassero in Missione, quanto maggior bene opererebbero! Scrive il predetto P. Semeria: "L'amore dei comodi tien dietro alla tiepidezza. Mille cose diventano necessarie ad un tiepido, che un fervente riguarderebbe con occhio di disprezzo. I bei nomi di "tempi cambiati" di "circostanze mutate", di "costituzioni fisiche più deboli" ecc. sono molto acconci per coonestare ciò che non dovrebbe accordarsi" (61).
Ci vuole distacco dai propri comodi quando si tratta di sgobbare un poco, di prestarsi a qualche lavoro, anche col sacrificio di un po di riposo o della ricreazione. I più si offrono; molti invece si tirano da parte o vi si adattano di mala voglia.
Attenti soprattutto in Missione! S'è lasciata la patria, i parenti, gli agi del mondo civile e di tutto s'è fatto generoso sacrificio a Dio; ma attenti che non sottentrino altri attacchi: preminenze, volontà propria, amore ai propri comodi. La Divina Provvidenza pensa a noi, né vi mancherà mai il necessario, ma voi dovete non cercare il superfluo o la ricercatezza. Dovete assuefarvi possibilmente ai cibi locali e non pretendere cibos ultramarinos, come dice un Decreto della S.C. di Propaganda Fide (62).
Certamente Nostro Signore, nel mandare gli Apostoli a predicare, non li fornì come noi i nostri Missionari. Eppure, quando li interrogò se mai fosse mancato loro qualche cosa, risposero: Nihil! Così accadrà per voi. Che se talora non si potesse avere subito qualcosa che sembra necessaria, si ricordino i nostri Missionari di aver fatto il voto di povertà, il cui spirito esige che si provino gli effetti della povertà, sopportandoli pazientemente, anzi con gioia.
Che dire allora di chi cerca i propri comodi? Di chi, come il popolo Ebreo, ritorna col desiderio alle cipolle Egitto? Di chi, potendolo, si procura cibi più scelti? Di chi si porta a pranzi con tutta facilità e libertà? Infelici! Si ascolti l'Apostolo il quale ammonisce che, per salvare le anime e l'anima propria, fa d'uopo mortificare, castigare il proprio corpo: Castigo corpus meum! (63).
Non dimenticate però, miei cari, che questo spirito di distacco lo dovete acquistare qui, durante gli anni di formazione. Non illudetevi: è qui che dovete formarvi alla virtù. In Missione l'albero darà i suoi frutti. Sarete pazienti generosi staccati dalle comodità, se in tutte queste cose vi sarete esercitati nel tempo di formazione, se ne avrete acquistato l'abito.
In conclusione: chi vuol godere la pace in vita, diminuire il proprio Purgatorio e avanzare nella perfezione religiosa si faccia un impegno di staccare il cuore da tutte le comodità, di non dar retta alle esigenze della natura, ricordando il detto dell'Imitazione: "Sei venuto per servire, per lavorare, per soffrire " (64)
L'attacco ai parenti
Vi ho già parlato dell'incompetenza dei parenti nei riguardi della vocazione religiosa dei figliuoli. Vediamo ora quali debbano essere i rapporti fra Religiosi e parenti.
Il mondo fa due opposte accuse ai Religiosi: di aver perduto ogni affetto ai parenti o di occuparsi troppo di essi. La prima accusa è falsa. Non è vero che i Religiosi non abbiano cuore; ce l'hanno e ottimo, e procurano loro molto vantaggio spirituale. Infatti i parenti vengono a partecipare di tutto il bene che il figlio missionario compie: opere buone, preghiere, mortificazioni ecc.; e ancora di tutto il bene che si fa nelle Missioni. La nostra stessa santificazione arreca ad essi vantaggi incalcolabili, anche temporali.
Noi vogliamo dunque bene ai parenti più adesso di prima, vogliamo loro il maggior bene; li benefichiamo al massimo, quindi li amiamo più d'ogni altro. E li benefichiamo nelle cose più importanti: le spirituali. Ricordo sempre ciò che mi diceva mia madre: "Tutti gli altri mi dimenticheranno, ma tu no; tu dici Messa e ogni giorno pregherai per me". Vedete che non perdiamo l'affetto ai parenti? In punto di morte, poi, e in Paradiso o in Purgatorio, essi vedranno quanto sia stato loro utile l'aver dato un figlio alle Missioni, al servizio di Dio.
La seconda accusa, invece, ha purtroppo consistenza. Certi Religiosi e certe Religiose, dopo aver lasciato i parenti, son ancora tutta tenerezza per i medesimi, han sempre da scrivere loro, amano trattenersi a lungo con essi in parlatorio, s'immischiano nei loro affari, come se ad essi spettasse la direzione della casa; vogliono entrare nei contratti e persino nei matrimoni; si occupano di cercare benefattori per soccorrerli, o di far ritirare nipoti e nipotine negli ospedali ed orfanotrofi, ecc. Con quale profitto per lo spirito facciano tutto questo, lo sanno i poveri Superiori, che sono obbligati a cedere alle loro importune insistenze.
E si noti che, per lo più, i parenti vengono a portare in parlatorio solo le pene, non già le gioie e le fortune. E mentre, appena partiti, non sentono nemmen più i dolori così vivamente espressi, il Religioso va ai suoi doveri di pietà e di studio con la testa piena, il cuore amareggiato, lo spirito distratto: senza che possa in alcun modo giovare ad essi: quando pure, per tutta riconoscenza, fratelli e sorelle non vadano poi lamentandosi che il religioso o la suora son troppo curiosi, che meglio sarebbe badassero ai loro doveri e li lasciassero in pace. Eh, ne ho udite io di queste lagnanze! Di certe cose non si dovrebbe mai parlare coi parenti, neppure a scopo di bene; non tocca a noi. Così pure certi ricordi della vita secolare bisogna assolutamente troncarli, anche se buoni. Il diavolo sa l'affar suo: mescolare cioè le cose buone alle cattive e, quando uno meno se lo pensa, eccoti il ricordo doloroso o pericoloso! Se i parenti hanno bisogno di consiglieri o di consolatori, questi non mancano nei paesi. Che cosa può sapere un povero chierico o una suora, che vivono fra quattro mura?
Si dirà che è per il bene spirituale dei parenti, perché vivano da buoni cristiani, ecc. Scusa magra, scusa del diavolo. Anche qui si può applicare il detto: Nessuno è profeta nella sua patria (65). Il Rodriguez, parlando dei danni che a tali religiosi derivano, ne enumera tre in particolare: il ricordo dannoso della vita secolaresca, l'imbeversi di massime e costumi mondani, la dissipazione dello spirito (66). Oh , non sarebbe meglio seguire l'ammaestramento del Maestro Divino e lasciare che i morti seppelliscano i loro morti ?
VISITE AI PARENTI - Veniamo più alla pratica. Che dire anzitutto di quella sentenza secondo la quale i religiosi possono uscire di Religione per aiutare i parenti bisognosi? Rispondo che praticamente tale necessità o non si dà o vi si può provvedere altrimenti. In teoria, la sentenza è giusta; in pratica, ciò non avviene che in rarissimi casi. Si son visti taluni uscire con questo pretesto, ma il vero motivo era l'insofferenza della disciplina, l'amore alla libertà; la necessità dei parenti non era che fittizia.
Altri poi cercano di recarsi in famiglia per ragione di salute, con la scusa di cure speciali e di non voler essere di gravame alla comunità. Questa scusa non vale, essendo che, come ben dice S. Alfonso, le comunità religiose son pronte a vendere persino i libri per gli ammalati (67). E invece, accampando tali pretesti, si domanda, si insiste e si estorce il consenso dei superiori. Non così fa il buon religioso, il quale solo dovrà accettare il comando del Superiore: comando non estorto da lui o dai parenti. Deve anzi il religioso, da parte sua, consigliare i parenti a non chiedere ciò ai Superiori, per non mettere questi nell'occasione di dare un rifiuto o di acconsentire di malavoglia o contro la loro voglia. Ma almeno potrà il religioso chiedere di recarsi in famiglia, nel caso d'infermità dei genitori ? Risponde S. Alfonso che si dovrebbe solo chiedere in caso di malattia grave, rimmettendosi anche in questo caso a ciò che il Superiore deciderà.
LETTERE AI PARENTI - A riguardo delle lettere ai parenti S. Alfonso dice che devono essere poche, non troppo tenere, scritte col debito permesso. Le lettere che si ricevono dai parenti è bene non conservarle, neppure leggerle e rileggerle con troppa avidità. So di una Comunità dove s'aspetta a recapitarle sino a sera o anche il giorno dopo, e nessuno s'ammala per questo. Naturalmente non bisogna, nel frattempo, che il pensiero corra sempre alla lettera; tanto varrebbe leggerla subito (68).
Voi, nello scrivere, attenetevi alle norme che vi danno i Superiori. Non vi nascondo la mia pena nel leggere certe lettere dei parenti ai Missionari, tutte spasimanti di un affetto che sovente non c'è; per cui il Missionario lontano, in qualche ora di angustia, potrebbe anche stancarsi e, credendosi desiderato dai fratelli e sorelle, essere tentato di ritornare in famiglia. Se lo facesse, dovrebbe ben tosto ricredersi e poi rimpiangere il passo fatto, senza più potervi rimediare.
PARENTI E PARLATORIO - Che dire del parlatorio? S. Alfonso, parlando delle Religiose claustrali, dice che il parlatorio è il luogo dove il demonio suol fare il suo negozio. E soggiunge: "Grata chiusa e non frequentata, monastero santificato; grata aperta e frequentata monastero dissipato" (69). E io aggiungerei: monastero profanato!... Per le claustrali vi sono le grate, per le nostre Suore e per voi c'è il parlatorio. Attenti, attenti! Dobbiamo ricordarci che il parlatorio non è il luogo delle conferenze spirituali ; queste si fanno o a tutte assieme o in confessionale, e non siano mai lunghe. S. M. Margherita Alacoque scelse un monastero lontano, per essere lungi dai suoi.
LE PREGHIERE PER I PARENTI - I Religiosi devono inoltre, nelle loro preghiere, non ricordare troppo in particolare i loro parenti. Basta farlo in generale. Certamente i parenti hanno diritto alle nostre preghiere, ma è già inteso che le nostre preghiere e i nostri sacrifizi portano loro benedizioni. La Madonna ha tutto in mano; Ella dispenserà secondo i bisogni e i primi ad essere beneficati saranno i parenti.
Quando morì mia mamma, io ero in seminario. Ebbene, ricordo che, in quella dolorosa circostanza un santo sacerdote mi disse: "Le suggerisco una santa crudeltà, ma utilissima per lei e per la mamma sua. Siccome il pensiero della mamma non farebbe che disturbarla impedendole di studiare, lei faccia questo patto col Signore: - Signore, io non ci penso, pensaci Tu! - Pensandoci lei, a nulla giova; ma il Signore può liberare anche subito la mamma dal Purgatorio, se mai ci fosse ancora". Lo stesso consiglio dò a voi. Siete stati in parlatorio? Avete ricevuto lettere con notizie poco buone sulla famiglia? Invece di angustiarvi e di star a ruminarvi sopra, fate il patto col Signore che ogni volta che voi ne scacciate il pensiero, ci pensi Lui. E Lui ci pensa e ci pensa da Dio!
Distacco dunque ci vuole e, se c'è ancor qualche filo, lo si recida. Lasciamo gli affetti del mondo, son fuoco di paglia. Spasimiamo invece, e molto, per Nostro Signore, il quale spasima d'amore per noi. Ricordatelo: come i parenti non hanno alcun diritto sui figli quando si tratta di seguire la vocazione, così non ne hanno in ciò che riguarda la corrispondenza alla vocazione. Eppure avviene che, per amore dei parenti, si perda la vocazione e si torni indietro dopo aver posto mano all'aratro; mentre altri non ascendono a più alta santità, solo perché non sanno imporsi questi generosi distacchi. Dirà taluno: Questo è parlar duro (70). Sia, ma è dottrina del Vangelo, è parola di Dio, perciò va accettata e seguita. Lasciamo che i morti seppelliscano i loro morti, né temiamo che abbiano a rimanere insepolti. E chi volle attendere o ritornare in famiglia per seppellire prima i suoi di casa, seppellì con essi la propria vocazione.
Non vi voglio ingannare: chi non capisce queste cose, non ha spirito; chi non comprende tali doveri del Religioso, non ha vocazione o non vi corrisponde. Il nostro proposito sia dunque di attaccarci a Nostro Signore, a Lui solo. Egli vuole essere il primo e l'ultimo, l'unico cioè ad avere il nostro cuore; e ne ha il diritto. Se i parenti ci han data la vita, il Signore l'ha data ad essi. Chi pertanto vuol amare il padre e la madre più di Lui, non è degno di Lui. Il Signore è geloso dei nostri cuori, dei nostri affetti. San G. Cafasso diceva: "Signore, fate che io trovi il distacco là dove sento più affetto" (71). Così han fatto tutti i Santi.
Ricordate il comando di Dio ad Abramo: Partiti dalla tua terra e dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre (72). Uguale invito ha rivolto a ciascuno di noi: Lascia i parenti, abbandona la casa, dà un addio a tutto, a tutto, e vieni e seguimi. E voi l'avete ascoltato. Ma quale ricompensa! Farò di te - disse Dio ad Abramo - una grande nazione e ti benedirò, e farò grande il tuo nome e sarai benedetto (73). La stessa ricompensa sarà per voi. Il Signore farà di voi una grande nazione per il numero di anime convertite alla fede, farà grande il vostro nome nei Cieli, sarete benedetti voi e i vostri parenti nel tempo e nell'eternità.
Le tentazioni contro la vocazione
Nessuno deve stupirsi se questo gran dono della vocazione è contrastato dal demonio, se deve passare pel vaglio della prova, della tentazione.
Sovente nei principi della vita religiosa tutto procede bene. Ma poi sopraggiungono le aridità, il tedio, le desolazioni di spirito... ed ecco che l'anima si crede abbandonata da Dio, si fa triste e sovente si smarrisce. Eh, no! Le desolazioni di spirito sono comuni a tutte le anime pie, in qualunque stato esse si trovino, anche nel mondo. Sono una prova per purificare e perfezionare l'anima. Sono un tratto amoroso di Nostro Signore a nostro riguardo. Un mese di aridità ci può portare più rapidamente alla perfezione che non tanti anni di fervore sensibile.
Il demonio fa di tutto per rovinare la nostra vocazione. Perciò egli suscita nell'anima dei dubbi. Bisogna disprezzarli. Vi son di quelli che, in questo caso, si affannano a pregare per aver luce, ecc. S. Alfonso insegna che è una preghiera fuor di luogo (74). Bisogna piuttosto pregare il Signore che ci confermi nella via abbracciata, che ci dia la grazia di corrispondere, per così perseverare sino alla fine. Conferma, o Dio, quello che hai operato in noi (75).