25. SPIRITO DI SACRIFICIO

Amore al sacrificio

N.S. Gesù Cristo sul termine della sua vita terrena, diceva agli Apostoli: Ecco, saliamo a Gerusalemme e si compirà tutto quanto è stato scritto dai profeti a proposito del Figlio dell'uomo; sarà infatti consegnato ai pagani, schernito, oltraggiato, coperto di sputi, e dopo averlo flagellato lo uccideranno.

Ma essi, continua l'Evangelista, nulla compresero di tutto ciò. E, come se non si fosse spiegato bene, aggiunge che un tale parlare era oscuro per essi; e ancora riconferma la cosa con ripetere che non intendevano ciò che veniva detto (535). Eppure Nostro Signore aveva altre volte parlato della sua Passione ed essi vedevano il livore dei nemici, bramosi di dare morte a Gesù.

Grande lezione per noi che, dopo tante meditazioni sui sudori di Nostro Signore e sul dovere di seguirlo nella via del sacrificio, non abbiamo ancora compreso praticamente questo spirito. Come uomini e come peccatori, come cristinai e come Missionari, dobbiamo amare ed abbracciare il sacrificio.

COME UOMINI - Ricordimaoci che siamo progenie di Adamo, nati col peccato originale e con miserie inerenti all'umana natura, e che perciò, ci piaccia o no, dobbiamo soffrire. L'importante è di soffrire con merito.

COME PECCATORI - Chi non ha peccato? Ora, senza pentimento - non disgiunto dalla riparazione - non c'è remissione dei medesimi: Se non farete penitenza, perirete tutti allo stesso modo (536). La sofferenza ci serve inoltre a fare il Purgatorio su questa terra. Voi sapete che, anche quando i peccati ci sono rimessi, rimane da scontare la pena temporale, o qui in terra o in Purgatorio; poiché pecchiamo sovente, sia pure in piccole cose, ci è necessaria la penitenza.

Credete in me: a ben morire fa d'uopo ben prepararsi. Ah, che non basta, soprattutto per un Religioso, quel po' di tempo che ci è concesso sul letto di morte!... Ma per fare il Purgatorio in terra, bisogna convincersi che bisogna soffrire qualcosa. Il grande Arcivescovo di Milano, Card. Ferrari, nel suo testamento lasciò scritto che temeva di dover passare nel Purgatorio e perciò si raccomandava che non lo si dimenticasse. Eppure già da qualche anno faceva il suo purgatorio qui in terra, soffrendo con edificazione una malattia che gl'impediva di prendere qualsiasi cibo. Il dolore è il mezzo di cui si serve il Signore per purificarci.

COME RELIGIOSI MISSIONARI - Come tali, dovete chiedere al Signore l'amore al soffrire. Spiegando le Regole ai Sacerdoti del Convitto, dicevo loro che dovevano abituarsi al sacrificio, giacché la vita sacerdotale fu definita da S. Giuseppe Cafasso ed è in realtà: " vita di sacrificio ": sacrificio nell'acquisto delle virtù, per santificarsi; sacrificio; sacrificio nello studio, per rendersi idonei al ministero; sacrificio nell'auto-educazione, per essere un giorno sacerdoti compiti e fare maggior bene alle anime.

Ora, se è tanto necessaria la vita di sacrificio ai semplici sacerdoti, che dire del Missionario? Nostro Signore disse riguardo a S. Paolo: Io gli mostrerò quanto dovrà patire pel nome mio (537). Non disse che gli avrebbe fatto conoscere dolcezze e consolazioni, ma sofferenze. Lo stesso fece con gli Apostoli, predicendo loro ciò che avrebbero dovuto soffire per amore suo.

Così è per noi. Quindi abituarsi fin d'ora alle piccole sofferenze per aver poi generosità nelle grandi; chiedere al Signore luce e grazia per ben meritare e comprendere i patimenti suoi, nonché la forza per ben soffire. Senza spirito di sacrificio non sarete santi Missionari, né avrete quegli speciali favori di consolazioni che vi rinforzeranno ed aiuteranno; ed il vostro ministero sarà sterile.

Quando concepiste l'idea di farvi missionari, forse sentiste pure il desiderio del martirio. " Ah, il martirio, il martirio! " dicevate a voi stessi. Ma erano e sono solo idee, se poi in pratica vi sbigottite davanti ai piccoli sacrifici. Alle volte, per un capriccio, si passano delle mezze giornate con l'animo sconcertato e si fanno tribolare i Superiori. Non dico che sia così adesso, ma temo per l'avvenire. Io penso sempre male.

Bisogna dunque lottare contro di voi, contro la natura insofferente del patire. Vince teipsum! E' questo che bisogna fare; e a questo fine secondo l'Imitazione di Cristo, ci vogliono due cose: una grande grazia da parte di Dio, che si ottiene con la preghiera; poi lavorare su noi medesimi, come su piante da potare (538). Non dobbiamo pretendere che il Signore ci faccia santi senza la nostra cooperazione.

Il sacrificio e l'apostolato

Il Signore ci ha dato esempio di sacrifico soffrendo nell'anima e nel corpo, mentre avrebbe potuto vivere una vita tranquilla. Lo dice S. Paolo: Invece della gioia a lui proposta , sostenne il supplizio, disprezzandone l'ignominia (539).

Sulle orme di Nostro Signore camminarono tutti i santi. Così S. Paolo che diceva: Siete miei imitatori, come io lo sono di Cristo (326). Quante pene fisiche e morali dovette sopportare il grande Apostolo! Pene corporali: flagellazioni, lapidazioni, naufragi; pene interne provenienti dal suo ministero, com'egli stesso afferma: Oltre a questi mali esteriori, v'è il cruccio quotidiano che mi incombe, cioè la cura di tutte le Chiese (95). Ogni pena sopportò con coraggio e costanza, non aspettandosi la riconoscenza degli uomini: Benché quanto più io vi amo, tanto meno io sia amato (540). Gli esempi del grande Apostolo sono un rimprovero alla nostra troppa sensibilità, la nostra poco amore al patire, alla facilità nostra di disanimarci nello zelo, specialmente quando non ci vediamo corrisposti.

S. Ignazio di Lojola, a coloro che andavano a consolarlo in prigione (poiché anche lui fu incarcerato), rispondeva: "Non ho bisogna di essere consolato, perché son ben contento di soffrire per nostro Signore" (541). San Francesco Zaverio, sebbene avesse molto da soffire, andava ripetendo: " Plus, Domine! O Signore, ancora di più! (542). E sì che degli oltraggi ne riceveva, e non solo dagli estranei ma persino dai suoi Confratelli, a cui rincresceva il suo zelo per l'osservanza. S. Giovanni della Croce non chiedeva al Signore che una cosa: " Patire ed essere disprezzato per Te! " (543).

E noi? Come facilmente dimentichiamo che non siamo venuti qui per godere, ma per soffrire! Esaminatevi su questo punto: Sarà un po' mal di capo o di denti, o qualche altra indisposizione... ebbene, sopportatela e non credete subito di essere di peso alla comunità. Quando di soffre per Nostro Signore, non si mai di peso. Dobbiamo amare molto la croce, ma non solo poeticamente. E' facile, quando non abbiamo sofferenze, desiderare di soffire; ma è quando queste ci incolgono che dobbiamo dimostrare la nostra virtù. Amare la croce è molto perfetto; cominciando a chiedere la grazia di sopportarla.

A questo studio e a questo esercizio nello spirito di sacrificio devono subito attendere i postulanti, formarsi i novizi, e sempre più progredire i professi, sì da essere modello ai più giovani. Bisogna che tutti si persuadano della necessità del sacrificio, per essere veri discepoli di Nostro Signore. La via del Paradiso è ardua e irta di spine, ma non c'è altra via.

Non dimenticate mai che siete Missionari e che le anime si salvano col sacrificio. Nella vita apostolica ci sono tante rose, ma anche tante spine, sia riguardo al corpo che riguardo allo spirito. Qualcuno si figura l'ideale missionario tutto poetico, dimenticando che le anime non si salvano che con la croce e dalla croce, come fece Gesù.

Però la grazia di Dio non manca e, se noi saremo generosi nel sopportare le prove che il Signore ci manderà, potremo ripetere con S. Paolo: Sono colmo di gioia in mezzo a tutte le nostre tribolazioni (544). I sacrifici, disse nostro Signore a S. Brigida, costano solo al primo momento; ma poi l'amarezza scompare e resta la felicità e la dolcezza che Dio infonde (545). Perciò le tribolazioni non solo non ci devono trattenere, ma devono spingerci ad essere apostoli.

Disponiamoci a qualunque prova, fomandoci fin d'ora al vero spirito di sacrificio. Uno che non sia capace di sopportare la puntura di una mosca, che fara? Che farà colui che ora non sa adattarsi ai lavori umili e faticosi?... Si, formiamoci al vero spirito di sacrificio, anche spirituale: come ad essere un po' provati dal demonio. Se non c'è volontà, non si fa peccato e si acquistano meriti. Quante volte S. Paolo sarà stato tentato di scoraggiamento! Ma tenne fermo, confidando nel Signore.

Dunque chi non ha coraggio lo metta, lo chieda al Signore e subito. Di sacrifici potete farne tutti e tutti i giorni. Vorrei prendermi quel sollievo, ebbene no! E così a furia di no, si fanno i sacrifici. Bisogna dire anche dei " si "; quando noi vorremmo dire no. Fra una cosa che piace e un'altra che dispiace, scelgo questa. E' così che dovete fare, altrimenti sarete poi come tante canne sbattute al vento.

Amare la sofferenza, imparare a soffrire qualcosa senza farlo sapere a tutti, senza esclamare: " Vedete che soffro! ". Fortunati quelli che sanno soffrire senza che tutti lo sappiano, senza pretendere che tutta la comunità debba partecipare, debba compatire! Se uno è ammalato, cercheremo di guarirlo, ma bisonga crescere forti, uomini!

Una volta, quand'ero Superiore di un Istituto di Suore, ne ho richimata una energicamente. Non faceva mai niente ma stava sempre a letto. Un bel giorno dissi: " Ormai è tempo di troncare questa faccenda; l'obbedienza fa miracoli ". Pregai e poi diedi ordine di non più portarle cibo in camera; se lo voleva venisse in refettorio. " Ma io non posso discendere! " - " La porteremo giù e le prepareranno una buona minestrina; ma d'ora innanzi non mangerà più se non in refettorio ". Ebbene è guarita ed è ancora viva (1916), ha sempre fatto scuola e adesso è Superiora. Essa dice che è un miracolo della Madonna di Pompei! Sia quello che vuole, bisognava scuoterla! L'ho fatto ed ella mi è riconoscente.

Vi voglio uomini! Allora il Signore benedice. Ricordate il fatto dei soldati di Gedeone: quei pochi scelti da lui, che s'erano accontentati di bere in fretta un po' d'acqua raccolta nel palmo della mano, furono vittoriosi; mentre gli altri non ebbero questo merito, perché non ebbero questa virtù (546). Così un Missionario di buona volontà, ripieno di spirito di sacrificio, può fare il lavoro anche di quattro o cinque.

Vita di sacrifici, dunque, dal mattino alla sera: contrariare sempre la propria volontà, prestarsi di più, sacrificarsi momento per momento. Oh, sì! il far tutte le cose per amor di Dio, rinunziare alla propria volontà e al prioprio giudizio, portare ogni giorno la propria croce, è un martirio lento, prolungato. Il martirio cruento è forse più vistoso, ma questo è più prezioso ancora!

La pazienza

Di pazianza non ne avremo mai abbastanza. Ne abbiamo bisogno tutti, ché dobbiamo esercitarla, si può dire, tutti i momenti.

Nell'Ufficio della IV domenica dopo Pasqua, si parla molto bene della pazienza. Coloro che recitano il Breviario, ne avranno certamente gustata la bellezza. Nelle Lezioni della Sacra Scrittura, è S. Giacomo che ci parla di questa virtù, ed esorta i fedeli a sopportare i travagli con allegrezza (547).

S. Cipriano, che era uno spirito forte, ne parla assai bene. " La pazienza - dice - ci rende cari a Dio, tempera l'ira, frena la lingua, governa la mente, custodisce la pace, regge la disciplina, rompe l'impeto della libidine... " e così continua, facendone le più belle lodi. La pazienza sorregge tutte le altre virtù, le quali, senza di essa, vengono meno (548). E' ben inteso che dicendo che ci vuol pazienza, non intendo dire che si debba diventare apatici, freddi, indifferenti, insensibili. Questo non è virtù.

 

NATURA - La pazienza s'avvicina molto alla mansuetudine e facilmente la si scambia con essa. Quale differenza c'è fra queste due virtù? Tutte e due hanno di mira la tolleranza dei mali di questa terra, con la differenza però che alla pazienza appartiene l'eliminare dal nostro animo la tristezza che ci proviene dai mali di quaggiù; invece tocca alla mansuetudine moderare l'ira e impedire la vendetta.

Santa Liduina, ad esempio, fu inferma per trent'otto anni e si santificò nelle sue sofferenze; in questo ella dimostro ed esercitò la pazienza. Verso la fine della vita, vennero alcuni soldati che la insultarono e minacciarono, ed ella sopportò le ingiurie senza alterarsi; in questo dimostrò ed esercitò la mansuetudine (549). Così Nostro Signore, nella Passione, dimostrò somma pazienza nel sopportare ogni sorta di patimenti, e somma mansuetudine verso Giuda, verso i suoi flagellatori, verso gli stessi crocifissori.

La pazienza dunque è quella virtù che modera la tristezza che nasce dai mali presenti; modera i movimenti dell'animo, perché non rimanga oppresso dalle avversità, ma si mantenga uguale e le sopporti con tranquillità. Così infatti la definisce S. Tommaso (550). Essa appartiene alla virtù cardinale della fortezza di cui, secondo S. Tommaso, è parte potenziale (551), secondo altri, parte integrale, cioè necessaria al pieno esercizio della fortezza.

Ora, ci sono due sorta di mali che possono affliggere in questa vita: mali esterni e mali interni. Mali esterni sono, per esempio: la perdita dei beni o dei parenti, le maldicenze contro di noi, il disprezzo; oppure qualche malattia od altri incomodi che sopravvengono. Mali interni sono: il tedio, le tenebre d'intelletto, le aridità di spirito, i disgusti, gli scrupoli; così pure la ribellione della parte inferiore, con le tentazioni cattivie, ecc. Tutti questi mali tendono a rattristare il cuore dell'uomo e ci vuole pazienza per sopportare tutto con merito. Se ad esempio una calamità ci opprime, la pazienza ce le fa sopportare e anche perdonare; con calma si pensa che tutto viene da Dio. Nostro Signore patì tutti questi mali nel Getsemani, tutta via il suo animo non si abbattè; e con questo volle insegnare a noi a non lasciarci deprimere in simili angustie.

ECCELLENZA E UTILITA' - L'eccellenza di questa virtù è provata da tutta la S. Scrittura. Nostro Signore nel discorso del monte ne fece a più riprese l'elogio. Beati quelli che piangono: tutti quelli cioè che hanno da soffrire. Beati coloro che soffrono persecuzioni: tutti quelli cioè che hanno da lottare per la virtù, che fanno dei sacrifici per amore di Dio. Beati voi, quando vi oltraggeranno! (552).

S. Paolo, scrivendo agli Ebrei, dice loro essere necessaria la pazienza: La pazienza vi è necessaria affinché facendo la volontà di Dio, possiate conseguire promessa (553), cioè la vita eterna. S. Giacomo, a sua volta, dice che la pazienza è necessaria per conseguire la perfezione: La pazienza rende l'opera perfetta, onde siate perfetti, completi, senza che nulla vi manchi (554). Il Beato Enrico Susone diceva: " Chi ha pazienza in ogni loco, non fa poco, non fa poco! ". Ecco l'imprtanza della pazienza: ci fa essere tranquilli in mezzo a tutte le peripezie di questa vita e ci fa acquistare molti meriti.

A tutti è necessaria la pazienza: ai peccatori non meno che ai tiepidi e ai giusti. E' necessaria ai peccatori, perché soffrendo fanno penitenza dei loro peccati e ne ricevono più facilmente il perdono. E' una fortuna il poter far penitenza, perché su questa terra si fa con merito ed è sempre un nulla di fronte al fuoco del Purgatorio. E' poi necessaria ai tiepidi: perché costoro hanno bisogno di scuotersi, di riprendersi, e le sofferenze che incontrano servono appunto a questo scopo. Finalmente è necessaria ai giusti, i quali per mezzo della tribolazione si perfezionano.

Con tanti che dicono: " Che male ho fatto io da meritarmi questo? ". Eh, se anche avessimo fatto dei grandi peccati, tuttavia questo serve a salvarsi dal Purgatorio; e se anche fossimo santi, serve ad accrescere la gloria nostra in Paradiso. Dobbiamo dunque soffrire con pazienza: per scontare le nostre miserie, per fare piacere a Nostro Signore e poi perché questo mondo è un luogo dove tutti debbono soffrire.

I TRE GRADI - Nell'esercizio della pazienza vi sono tre gradi. Il primo è di quelli che sopportano i mali senza ribellarsi a Dio, ma con qualche lamento; cercano consolazioni e vogliono essere sollevati nei loro dolori. Questa è già virtù purché i mali siano sopportati per amore di Dio, ma è il minimo che si possa fare, perché se uno si ribellasse al buon Dio, anziché esercitare la pazienza, peccherebbe.

Il secondo grado è di quelli che sopportano tutto con piena rassegnazione alla volontà di Dio, senza lamentarsi né cercare consolazioni. Non imitare color che vorrebbero sempre parlare dei propri mali per essere compatiti, specialmente in caso di lunghe malattie. Dicono persino: " Nostro Signore ha sofferto solo per poche ore e io ho già sofferto tanto tempo! ". Ah, Nostro Signore soffrì per trentatrè anni! E' uno sproposito paragonare i nostri mali con quello che ha sofferto lui. Dunque, soffrie senza lamentarsi: in questo c'è già molta virtù.

Il terzo grado è di quelli che sopportano i mali non solo con rassegnazione, ma con gioia. Non è che non sentano male, ma hanno tanto amore, che quasi non lo sentono più. Così accadeva ai martiri, ai quali Dio ordinariamente non toglieva la sensibilitàdel dolore, ma era così grande che il loro desiderio di uniformarsi a Gesù Crocifisso, che l'amore vinceva il dolore. Questo grado è quello che Gesù vorrebbe da noi; è fiore di virtù; ma non tutti ci arrivano. Noi dobbiamo tandere ad esso. Non dico che un piccolo lamento tolga il merito della virtù, ma questa non è perfetta. Neppure che si debba godere dei mali in se stessi, ma goderne perché così ci uniformiamo a Gesù sofferente, cooperiamo più efficacemente alla salvezza delle anime e meritiamo per il Paradiso.

Dice S. Ignazio che fosse in nostra libertà la scelta: o vivere quaggiù con la salute, con l'onore, con tutto il necessario, oppure con poca salute, in povertà e con molte umiliazioni, dovremmo, per imitare Nostro Signore, scegliere quest'ultimo stato, anche se si rendesse a Dio lo stesso onore, la stessa gloria (555).

Forse che gli Apostoli, condotti in tribunale e battuti, non ne uscirono tutti lieti, per aver patito contumelia pel nome di Gesù? (556). Dunque, vedete che non è cosa impossibile! E S. Paolo? Egli non voleva gloriarsi che della croce di Nostro Signore (557); godeva di tutte le sofferenze che gli venivano (558). Nello stesso senso S. Pietro esortava i primi cristiani: Voi che siete destinati ad essere messi a parte dei dolori di Nostro Signore, godete! (559).

Cominciando almeno ad avere il secondo grado: non lamentiamoci né desiderate di essere compatiti; e ciò vale sia per i mali del corpo, che per le sofferenze morali e spirituali. Le cose non andranno mai come vogliamo noi; è il Signore che ha stabilito così. Qualche male o qualche sofferenza l'avremo sempre. Bisogna quindi che ci armiamo di pazienza, che insistiamo su di essa, fino a giungere al terzo grado: godere dei mali che ci vengono. Senza pazienza non c'è pace nell'anima, non c'è pace nella comunità, non c'è pace nel mondo.

MEZZI PER ACQUISTARLA - Il primo è chiederla al Signore mediante la preghiera. Ma ciò non basta; il Signore vuole che ci aiutiamo anche da noi, che mettiamo il nostro sforzo.

Il secondo mezzo è quello di mortificare le passioni; assuefarci cioè a vincere la tristezza nelle piccole tribolazioni, per formarci l'abito della virtù: moderare i desideri e gli affetti; non lasciarsi abbattere per ogni piccola cosa, affinché quando ne verranno di grandi, possiamo sopportarle senza avvilirci. Poi non attaccare il cuore a nulla; se si soffre tanto, è perché abbiamo degli attacchi a qualche cosa o a noi stessi, perché siamo superbi.

Il terzo mezzo è di assuefarci a riguardare i mali come provenienti dalla mano di Dio e non dalla malizia degli uomini o da altre cause. No, non sono gli uomini, è il Signore che così vuole o permette; è Lui che prova per mezzo delle creature. Per esempio, se uno ci offende, non fermiamoci alla persona che ci ha offeso, solleviamo più in alto il nostro sguardo e diciamo: Dominus est! E' il Signore che ha permesso questa tribolazione.

Un quarto mezzo è di prendere le croci non solo dalle mani del Signore, ma dal suo amore. Il Signore è buono e se ci lascia soffrire, è perché ci ama e vuole il nostro bene. Bisogna assuefarci a pensare in tal modo. Il Signore fa tutto con amore e tutto bene. Ci vuol bene anche quando ci colpisce. Quindi non star a pensare tanto alla sofferenza, a meditarci sopra, ché il male in questo modo aumenta ancor più. Pensiamo invece che il Signore permette questo o quel male per santificarci sempre più, se già siamo giusti; per purificarci, se peccatori.

Il quinto mezzo è che, nelle prove, guardiamo il Crocifisso. Se alcuno meritava tutt'altro tratamento, era proprio Gesù; eppure non perdette la pazienza, anzi scusò gli stessi suoi nemici. Il Crocifisso spiega tutto; uno sguardo al Crocifisso mette tutto a posto. Pregare guardando il Crocifisso.

Il sesto mezzo è di fare frequenti atti di conformità alla volontà di Dio. Dire al Signore: " Questa cosa la volete voi? Ebbene, la volgio anch'io! ". E non solo conformità alla volontà di Dio, ma, come vi ho già spiegato, uniformità della nostra volontà con quella di Dio. Quando ci accorgiamo, ad esempio, che sta per assalirci l'emicrania o altro male, mettiamo subito l'intenzione: " Tutto per Voi e come volete Voi, Signore! "; perché, quando poi l'abbiamo, non possiamo più pensare a nulla. Le malattie ci impediscono sovente di essere presenti a noi stessi. Se noi, fin da principio, mettiamo l'intenzione di abbracciare la volontà di Dio, possiamo avere il merito del sacrificio e della pazienza, anche se in quei momenti non possiamo più pensare a nulla.

Il settimo mezzo è quello di pensare al merito che ci facciamo per il Paradiso. Poiché la momentanea e leggera tribolazione nostra procaccia a noi oltre ogni misura un sublime cumulo di gloria (265).

LA PAZIENZA E I MISSIONARI - Chiediamo al Signore la pazienza e procuriamo di esercitarla. Necessaria a tutti, essa è indispensabile al Missionario. San Paolo, parlando delle virtù necessarie all'uomo apostolico, mette in primo luogo la pazienza: in multa patientia. Una pazienza costante, eroica, che per l'Apostolo s'accompagna con nove specie di mali, distribuiti in tre classi. Mali generali: nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angustie. Mali inflitti dagli altri: nella battiture, nelle prigioni, nelle sedizioni. Mali ossia penitenze che imponiamo a noi stessi: nelle fatiche, nelle vigilie, nei digiuni (560). Vedete l'importanza e necessità della pazienza nel missionario! L'esperienza lo prova: secondo la maggiore o minore pazienza del missionario, avvengono le conversioni fra i pagani. La pazienza è una grande virtù pel Missionario!

Bisogna perciò abituarsi a passar sopra a tante miseriette e non lasciare che il cuore si rattristi. Ed è nel tempo di formazione, che dovete esercitarvi in essa, per averla poi nella vostra vita di Missione. Certe volte la pazienza è così limitata! Siamo come il vetro, che il più leggero colpo infrange. Dobbiamo perciò renderci superiori a queste debolezze, vincersi con energia. L'abito della pazienza si acquista e si prova nelle occasioni che si presentano di esercitarla. La pazienza va seminata dappertutto.

Tuttavia ci sembra di avere tanta pazienza, ma aspettiamo che venga una malattia e non c'è più niente che va; si ha un piccolo dolore, e si fa come i bambini che strepitano al minimo maluccio. Ci sono di quelli che, quando sono ammalati, diventano insopportabili. Ho conosciuto un ammalato, che non voleva mai stare solo, non sapeva sopportare la solitudine.

Un'ammalata era accudita da una Suora, da due persone di servizio e da un domestico e si lamentava che non la curavano; e ho dovuto farle una lavata di capo. E' da cristiano questo? Così ci son di quelli che quando sono in salute, vorrebbero fare ogni sorta di sacrifici; ma se ammalati, non sono più capaci a niente. Ricordatevi che le malattie, se ben sopportate, risanano non solo il corpo ma anche l'anima.

Lo stesso dicasi delle sofferenze interne, come delle aridità, ecc. In certi momenti, nella nostra anima si fa tutto buio... Che farci? Bisogna aver tanta pazienza in questo stato. Il Signore talvolta ci tratta da grandi e non sempre con dolcezze e consolazioni, come si farebbe con un bambino. Sovente avviene che uno entri in Religione e, dopo qualche tempo, non senta più quel gusto delle cose spirituali, che aveva in principio o quando era nel secolo. Il Signore prima gli dava i biscotti, adesso lo nutre con la crosta.

Se un Missionario si lascia abbattere d'animo e non reagisce contro la tristezza, che cosa farà in Missione? Quindi avvezzarci ad essere forti nelle piccole tribolazioni. Quando abbiamo qualche pena, è segno che il Signore ci vuol bene. Non si comprende mai abbastanza bene il mistero della tribolazione! Perciò mettiamoci d'impegno ad esercitare questa virtù. In tal modo otterremo la pace con noi e con gli altri.

La modestia

NATURA ED ECCELLENZA - S. Paolo, scrivendo ai Filippesi, dice: Siate lieti sempre nel Signore; lo ripeto: siate lieti. Il vostro spirito di modestia sia noto a tutti gli uomini; il Signore è vicino (561). Perché, dopo aver raccomandato loro l'allegrezza, parla della modestia? Per dir loro: siate allegri sì, ma con moderazione, sempre secondo modestia. Sebbene alcuni ritengono parlarsi qui della dolcezza, noi la prendiamo nel senso letterale della parola.

Purtroppo son pochi quelli che l'apprezzano convenientemente, mentre altri non se ne curano affatto. Che cos'è dunque la modestia? S. Tommaso dice che la virtù della modestia riguarda le azioni e i movimenti del corpo: che siano fatti onestamente, decentemente, sia quando uno agisce con serietà, come quando scherza (562). Direte: se riguarda le cose esterne, non è una virtù. E' invece una grande virtù, perché quantunque riguardi l'esterno, ha tuttavia il suo fondamento nell'interno e proviene dal dominio che uno ha internamente sulle proprie passioni. Tale dominio presuppone altre virtù: la pazienza, la mansuetudine, l'umiltà, ecc. La modestia si potrebbe quindi dire il coronamento visibile della altre virtù.

Ciò spiega perché i Santi abbiano tenuto sempre in sì gran conto questa virtù. S. Ambrogio, benché mitissimo, non volle ordinare sacerdoti due giovani: uno perché volgeva sempre il capo in giro curiosamente, l'altro perché camminava a sbalzi. Ordinati poi dopo la morte del Santo, uno si fe' Ariano, l'altro rinnegò la fede (563). Ecco come i Santi, e anche tutti i maestri di spirito, vedono nel comportamento esteriore di un individuo, un indizio di ciò che egli è o sarà. S. Gregorio Nazianzeno pronosticò sui futuri traviamenti di Giuliano l'apostata, osservando la sua irrequietezza ed incompostezza alla scuola di Atene (564).

Quindi i superiori non sono teste piccole, quando vogliono dire che siate attenti a queste cose. Non era una testa piccola il Teol. Guala [ Il Teol. Luigi Guala (1775-1848) fu fondatore del Convitto Ecclesiastico di Torino nel 1817 ], che un giorno redarguì pubblicamente un Sacerdote Convittore, ch'egli aveva scorto con una gamba sopra l'altra, stando seduto (565). Si narra di S. Bernardo che, dopo un anno dacché era a Cistercio, non sapeva ancora come fosse fatta la volta della sua cella (566). Ed è un Dottore della Chiesa! Il Ven. Olier riprese parecchie volte un sacerdote che camminava in modo incomposto, e non correggendosi questi, un giorno uscì dal confessionale e gli fece una solenne romanzina, dopo la quale finalmente quegli si emendò (567).Quando S. Bernardino da Siena s'avvicinava ai suoi compagni, tutti si componevano per la sua compostezza (568).

NECESSITA' - La modestia è una virtù sommamente necessaria: per l'onore di Dio, per la propria riputazione, per l'edificazione del prossimo.

1 - Per l'onore di Dio. I Sacerdoti, i Missionari e anche le Suore sono rappresentanti di Dio in terra. Dio invisibile si rende in noi: non solo nelle nostre virtù, ma anche nel nostro comportamento esteriore. Pensiamo alla modestia di Gesù!... S. Francesco di Sales, secondo che attesta la Chantal, fu una vera copia di Gesù in questa virtù, sicchè al vedere lui, sembrava vedere Nostro Signore in persona (569). In tal modo si dà onore a Dio.

2 - Per la propria riputazione. Come possono stimarci quei del mondo, se ci vedono simili a loro nell'immodestia e con gli stessi loro difetti?... E questo avverrà ancor più presso gli africani, che - come già vi ho detto - si formano l'idea di Dio da quelli che lo predicano. Se non sarete modesti in tutto il vostro comportamento, dignitosi in tutto il vostro agire, essi non potranno non concludere: " Sono come noi! ". Così vi perderanno la stima e voi non potrete più operare tutto quel bene, che sempre opera chi è modesto.

3 - Per l'edificazione del prossimo. S. Paolo dice: Il vostro spirito di modestia sia noto a tutti gli uomini (570). Non dice: la vostra modestia rimanga nascosta, no; la vuole palese a tutti. La modestia è una virtù sui generis; è la virtù più esposta agli occhi del mondo. Non sempre vedono l'umiltà, la modestia sì. Non dovete dunque essere modesti solo per voi, ma anche per il buon esempio del prossimo. Non basta essere santi nel nostro interno, bisogna edificare il prossimo anche con l'esterno. Un sacerdote che in chiesa si comporti con la modestia richiesta dal suo stato e dal suo altissimo ministero, fa sempre buona impressione e attira le anime. Quando uno desidera confessarsi, va a cercare un sacerdote che viva ritirato, che non sia dissipato, che tenga il proprio posto.

Vi è noto il fatto di S. Francesco d'Assisi. " Fratello, - disse un giorno a un suo Religioso - andiamo a far la predica! ". Uscirono, s'aggirarono un po' per la città, poi rincasarono. " Ma, Padre, e la predica? " - " Per l'appunto, l'abbiam fatta " (571). Avevano predicato con il loro contegno. Così è, miei cari. Il popolo si edifica di più per ciò che vede, che non per quello che ode.

Si legge nella vita di S. Francesco di Sales che due eretici s'erano accordati di ucciderlo e lo attesero per dove egli era solito passare da solo. Quando però S. Francesco comparve, al mirarne l'aspetto così pieno di gravità e di bontà, non ardirono mandare ad effetto il loro delittuoso disegno (572). Egli poi andò loro incontro, salutandoli come amici.

S. Leonardo da Porto Maurizio, avendo osservato due frati Francescani camminare con religiosa modestia, ne fu così colpito, che volle seguirli fino alla porta del convento. Poi disse: " Se qui dentro c'è tanta virtù, perché non entrarci anch'io? " (573). E si fece Religioso.

Mons. Gastaldi, Arcivescovo di Torino, soleva dire che doveva il principio della sua vocazione sacerdotale a un certo Don Viola, che abitava nei pressi del santuario della Consolata. Lo vide celebrare la Messa con sì edificante contegno, che da quel giorno sentì l'attrattiva a farsi prete.

I MEZZI - La modestia abbraccia dunque tutto il nostro esteriore, " dalla punta dei capelli all'estremità delle scarpe " (574), come diceva S. Giuseppe Cafasso. Or quali sono i mezzi per acquistarla?

Il primo è la presenza di Dio. Sì, Dio è vicino e ci vede. Bisogna assuefarsi a vivere alla presenza di Dio; allora o soli o in compagnia, saremo sempre modesti e ben composti. Se fossimo alla presenza del Papa o di altro personaggio insigne, come ci comporteremmo? Tanto meglio dobbiamo comportarci alla presenza di Dio.

Il secondo mezzo è quello di riflettere sovente su noi medesimi per vedere se nulla in noi vi è che disdica alla modestia e allora recidere senza pietà. Se trovo, ad esempio, di aver l'abitudine di parlare troppo forte, di ridere sguaiatamente, di essere grossolano nel giuoco, ebbene taglio via questi difetti. Non dico che in ricreazione, specialmente nel giuoco, si debba stare sul quinci e quindi; tuttavia anche allora bisogna stare attenti a non mancare alle regole della modestia.

Come vedete, questa virtù richiede da noi un continuo lavoro di potatura su noi medesimi. Se la lingua è troppo lunga, ne tagli un pezzo. Se gli occhi vogliono veder troppo, li freno tenendoli più raccolti. Così nel camminare: non andar pettoruti, no, ma con gravità religiosa.

Per via si può parlare un poco, ma non rumorosamente. Mons. Gastaldi non voleva che le Suore chiaccherassero andando a Torino.

Son tutte cose queste di cui vi ho già parlato trattando dell'urbanità, ma che entrano anche nella moderazione. Essa ci rende corretti e dignitosi in tutto: nel camminare, nel parlare e anche nell'abito. Il nostro abito è santo e bisogna portarlo con rispetto. Certo, tutto questo lavorio su noi medesimi richiede attenzione e costa, ma va fatto.

Comportiamoci in modo, che tutti quelli che ci vedono restino edificati. Tutte le nostre azioni devono renderci venerandi, perché i sacerdoti e le persone Religiose devono essere venerande. La prima predica che farete, sarà anche quella del buon esempio. Non c'è bisogno di tante cose; basta un po' di tranquillità, un po' di unione con Dio. Conoscano pur tutti la nostra modestia, non è superbia questa. Non è il caso, no, di metterci in vista e dire : " Guardatemi, che sono modesto! ", lo vedono lo stesso. Ho conosciuto una persona che godeva d'incontrare due delle nostre Suore, per la modestia con cui camminavano. S. Giuseppe Cafasso la riteneva una delle prime doti di un buon Sacerdote. La sua predica su questa virtù, negli Esercizi Spirituali al Clero (575), è così bella e fa tanto bene! Pregatelo che vi ottenga questa virtù. Sì, desidero che abbiate grande amore alla modestia.

Mortificazioni corporali

Ai nostri giorni non si vuol più sentir parlare di mortificazioni esterne, corporali. Si dice che basta mortificar lo spirito, che quelle non son più confacenti alle deboli costituzioni di oggi, che sono proprie degli anacoreti, e simili. E fosse vero che costoro non deridessero questi atti, che formano tanti Santi e diedero tanto splendore alla Chiesa! Voi, miei cari, non pensereste come codesti infelici.

Bisogna mortificare lo spirito? Certo, e chi lo nega? Anzi, prima è sempre la mortificazione spirituale: schiacciare la nostra superbia.

Ma insieme a quella spirituale è necessaria la mortificazione corporale. Qui ricordate tutti gli argomenti sulla necessità del culto esterno ed applicateli alla mortificazione esterna. Il Religioso, specialmente se ha emesso i voti, è obbligato a tendere ala perfezione. Chi accarezza il corpo non avrà mai spirito. Questi due stanno tra loro in ragione inversa, nemici l'uno dell'altro. Guai se il corpo prende il sopravvento sullo spirito!

S. Vincenzo de' Paoli diceva: " Chi fa poco conto delle mortificazioni esteriori, dimostra che non è mortificato né esteriormente né interiormente " (576). A chi gli diceva che la perfezione non consiste nella macerazione della carne, bensì nel rinnegamento della volontà, S. Luigi Gonzaga rispondeva con il Vangelo: Queste cose bisogna fare senza tralasciare le altre (577).

Non sono più confacenti alle deboli costituzioni di adesso? Anzitutto non bisogna esagerare la nostra debolezza corporale. Poi non da tutti si richiedono certe austerità dei Santi. Talune mortificazioni non debbono farsi senza consiglio, onde conservare la sanità, per il bene nostro e delle anime. Sono però innumerevoli le mortficazioni corporali che non nuociono alla sanità; anzi talune la conservano e l'accrescono.

Sono proprie degli anacoreti? No, anche al presente tante anime desiderose di santificarsi digiunano, vegliano, si danno la disciplina, portano il cilicio. Nostro Signore Gesù Cristo digiunò quaranta giorni. S. Paolo castigava il proprio corpo per ridurlo in servitù (63). Ecco i nostri modelli che servono per tutti i tempi. S. Francesco di Sales, che non era un vecchio anacoreta, si flagellava fino all'effusione del sangue (578).

Si racconta del re di Spagna, Filippo II, che, sul letto di morte fece venire a sé il figlio che gli doveva succedere e, aperto uno scrigno e trattane fuori una disciplina, gliela presentò dicendogli: " Vedi quest'oggetto? E' stato imbevuto del sangue di mio padre e del mio, e d'ora innanzi dovrà esserlo del tuo. Se farai così, il Signore benedirà il tuo regno ". Vedete dunque che la mortificazione non è solo per i claustrali, ma per tutti.

E' dunque necessaria la mortificazione esterna, oltre a quella interna. Ciò risulta da tanti passi della S. Scrittura, dagli insegnamenti del Vangelo, dall'esempio di tutti i Santi. Bisogna cominciare di lì. Benedetto XIV, nel suo libro sulle Cause di Beatificazione, scrive che non si deve incominciare il processo di alcuno, senza che prima risulti essere stato di grande mortificazione (579).

Che dire di un Missionario? Un Missionario che non abbia l'abitudine, lo spirito della mortificazione, non può far niente. Gli atleti, come dice S. Paolo, in ogni cosa fanno delle astinenze: ab omnibus se abstinent (580). Nel libro di Tobia leggiamo che buona cosa è l'orazione unita al digiuno (581). Ricordate questo specialmente quando sarete in Missione e avrete da convertire qualche ostinato. In questi casi non basta pregare, sarebbe troppo comodo; fa d'uopo por mano alla mortificazione, fare sacrifici, astenerci dalle cose anche buone. Per ottenere le grandi grazie ci vuole preghiera e mortificazione.

Così faceva il santo Curato d'Ars; così S. Giuseppe Cafasso il quale passava tutta in preghiera la notte antecedente al supplizio di un condannato. S. Francesco Saverio ottenne tante conversioni, perché andava a piedi scalzi, si nutriva di semplici cibi del luogo, vegliava la notte ai piedi di Gesù Sacramentato. S. Pietro d'Alcantara, di cui la Chiesa elogia lo spirito di penitenza, maltrattava il suo corpo. Ma intanto fu uomo di altissima contemplazione. Nell'Oremus della festa voi potete vedere la relazione che c'è tra la penitenza e la contemplazione: Ut carne mortificati facilius coelestia capiamus (582).

Anche oggi i Santi sacerdoti, quando vogliono ottenere una conversione, passano chi tutta e chi parte della notte in preghiera, secondo le loro possibilità. La conversione delle anime non si ottiene che a spese della nostra carne. Io vi parlerò sempre della mortificazione interna, ma ricordatevi che è pur necessaria quella corporale.

Non bisogna dunque deridere le grandi penitenze, dicendole cose del Medioevo. Non sono affatto cose del Medioevo, ma si praticano anche adesso in molte Congragazioni, e anche nel mondo, come già vi ho detto. Se non siamo capaci di farle noi, almeno non disprezziamo coloro che le praticano. Purtroppo vi sono dei Sacerdoti che se ne burlano, dicendole cose da teste piccole! Non è vero! Ammiriamo invece quelle congregazioni che continuano a praticarle. Vi sono buoni figlioli e buone figliole che le praticano anche nel mondo; anzitutto, in espiazione dei propri peccati, poi anche in riparazione dei peccati altrui e per attirare le benedizioni di Dio su di sé e sul mondo. Noi per ora non abbiamo né cilici né discipline; ma forse, quando avessimo bisogno di qualche grande grazia, le useremo anche noi; vi passerò alcune discipline del nostro S. Giuseppe Cafasso. Comunque, dovete abituarvi alle mortificazioni corporali e farle fin d'ora nelle piccole cose, per voi aver forza e virtù di sopportare i sacrifici e le privazioni inerenti alla vita apostolica.

Pensieri sui piccoli sacrifici

Non pretendo da voi grandi penitenze dei Santi, sebbene siano cosa ottima. Voi non potete vegliare, perché l'obbedienza vi obbliga a dormire tutte le ore che vi son necessarie; né potete pregare a lungo perché avete anche da studiare; neppure voglio che non mangiate, no. Ma voi potete e dovete fare piccoli sacrifici quotidiani, continui, per acquistare l'abito della mortificazione; sicché, a suo tempo, siate poi capaci di sacrifici grandi ed anche eroici, come richiede la natura della vita dell'apostolato.

Dovete fin d'ora mortificare i sensi. La vista: con non voler vedere tutto, anche le cose lecite, per avezzarsi così a ritirare subito lo sguardo, quando s'incontra in cose illecite.

L'udito: col non essere curiosi e voler sapere ogni cosa della Casa e dei compagni, tanto meno le cose del mondo.

Il gusto: non fa male alla salute lasciare un po' di vino, un pezzo di pane; essere contenti di dover ritardare a mangiare, perché si ha da servire o da leggere a tavola; non mettere del sale nelle vivande, anche se alquanto insipide; specialmente non mangiare fuori pasto col pensiero, ed in refettorio non mangiare con gli occhi prima d'incominciare.

Il tatto: coi compagni o da soli, star sempre modesti; tenere il proprio corpo come reliquia, un deposito santificato dal Battesimo, dalla Cresima e da tante Comunioni. Accettare il caldo e il freddo, così come viene. Il dire " Uh, che freddo! Uh, che caldo! " non giova a nulla; non per questo il caldo o il freddo se ne va.

Non sarà mai mortificato, paziente e forte, chi non impara a frenare se stesso, chi non acquistò l'abito della virtù. Non dobbiamo, no, rovinarci la salute, ma le piccole mortificazioni possiamo e dobbiamo farle tutti. Si tratta di piccole cose da niente, ma che ci servono tanto bene a raggiungere la perfezione. Reprimere uno sguardo, tacere una parola per virtù, non perdere nello studio un filo di tempo, lavorare con energia, sopportare un po' di arsura: sono tutti piccoli sacrifici che nessuno vede e pure sono tanto graditi al Signore.

Ecco come al presente dovete mortificarvi, non omettendo anche di fare di più, ma con il consiglio dei Superiori. Certuni, pensando solo all'avvenire, s'immaginano di stare giorni interi senza cibo, notti intere senza dormire, di sostenere tutte le molestie degli africani e poi anche la morte... e intanto, al presente, non si curano dei piccoli sacrifici. Non illudetevi; è qui che dovete formarvi alla vera virtù, non là!

Non è per parlare di me, ma pur bisogna che lo dica. Io da chierico ero molto più debole di salute e ogni quindici giorni mi prendeva un'emicrania che non mi lasciava più far nulla. Andavo in refettorio e mangiavo più poco, di modo che nessuno se ne accorgeva. In studio premevo la fronte con le mani, dando agli altri l'impressione che io studiassi... Insomma, nessuno mai si accorse di questo mio male. L'ultimo anno di seminario, quand'ero prefetto, un mattino uscii di cappella e andai in camera a gettarmi sul letto. Il Direttore venne a parlarmi e, trovandomi in tale stato, me ne chiese la causa. Saputala, esclamò meravigliato: " Ma è soggetto a questo male, lei? ". " Oh, si! " risposi... Io sapevo che quel male non mi avrebbe recato danno, che bastava una dieta moderata e aspettare che passasse.

La grande difficoltà a farci santi proviene da non aver costanza nei piccoli sacrifici. Chi vuol sacrificarsi, deve badare alle piccole cose, per rinnegarsi. Il Signore vuole il sacrificio piccolo, minuto, ma perenne. Tanti piccoli sacrifici, uniti insieme, ne formano uno grosso, così come i soldi fanno la lira e tante lire il milione.

Fatevi dunque l'abitudine ai piccoli sacrifici e non lasciate inoperoso il " coroncino " [Consiste di cinquanta grani, come quelli della corana del Rosario, infilzati in modo che si possono fare scorrere, uno per ogni piccolo sacrificio.] Quante volte vi dico di metter mano al coroncino! S. Giuseppe Cafasso lo usava e lo consigliava alle persone divote. Non diciamo che i nostri sacrifici li conta l'Angelo Custode, perché il più delle volte è una scusa per non farli. Non ci insuperbiamo per cinquanta piccoli sacrifici! Conosco un ragazzino che fa passare due volte al giorno il suo coroncino... Io pure lo uso e non ho nessuna vergogna di farvelo vedere... Chi ha il coroncino lo usi; chi non l'ha se lo procuri.

Mortificazione della gola

Se vi parlo di questo argomento, voi sapete che non lo faccio perché non mangiate. Sono anzi estremamente premuroso della vostra salute, in ordine agli studi e alla pietà; e perché, robusti missionari, possiate sostenere le fatiche che vi attendono. E' ormai proverbiale che vi esorto a mangiare, da parer quasi che vi spinga troppo a quest'azione. Si direbbe che vi faccio fare una mortficazione al contrario degli altri: la mortificazione del mangiare.

Con tutto ciò, la mortificazione della gola è necessaria per acquistare lo spirito religioso ed apostolico. Chi serve alla gola, non si farà mai santo, né potrà certo operare le meraviglie di un S. Francesco Zaverio o di qualsiasi altro santo Missionario.

Mangiare non vuol dire vivere per mangiare, non vuol dire porre nel cibo il nostro fine; neppure esclude la giusta mortificazione. Le due cose possono stare assieme, anzi ci aiutano a star bene. Mons. Gastaldi, nelle regole del seminario, dopo aver esortato i chierici ad aver cura della sanità, aggiunge: " Si persuada ognuno che i giovani sovente mangiano più di quanto possono digerire; perciò non bisogna soddisfare in tutto l'appetito, ma alzarsi ogni volta da tavola con ancora un po' di appetito ".

Veniamo ai particolari. Capita che qualcuno non mangia la carne, se è grassa; altri non fanno buon viso all'insalata; chi dice di non digerire le uova sode o i funghi; alcuni vorrebbero mangiare pane molle e non grissini; altri fanno della minestra un minestrone con riempire il piatto di pane. Vi sarà anche qualcuno che si lamenta del vino... Ebbene, miei cari, con un po' di mortificazione e un po' di buona creanza tutto si compone. Anzitutto la sanità non ha nulla da fare con la qualità dei cibi, se non in casi eccezionali; si mangi adagio e tutto si digerisce. E' quindi più questione di gusto e di idee che d'altro. E qui viene opportuna la mortificazione e il coroncino.

S. Ignazio, parlando ai suoi Religiosi, diceva che le mortificazioni non devono farsi propriamente sul pane, bensì sul vino e sul resto. Così io dico a voi: potete, col consiglio dei Superiori, mortificarvi nel vino, che non è poi necessario, specialmente alla vostra età. S. Paolo ordinava a Timoeo di bere vino, perché era debole di stomaco, però modico, poco (583 ). Un giorno domandavo ai nostri studenti: " Che sacrifici mi promettete di fare prima ch'io parta per S. Ignazio? " - " Di bere poco! " - " Bravi, avete proprio indovinato il mio pensiero! ". Poi dissi ancora: " Chi non beve vino, non incominci! " - " No, no " - " Bravi, così è da Missionari; in Africa non ne avrete più e così sarete già abituati ".

Soprattutto non bere tanta acqua, quando fa caldo; durante i pasti bere poco, perché altrimenti si rovina la digestione e non si sta più bene. Volete poi fare un po' di mortificazione? Senza un vero bisogno, non bevete fuori pasto. La mortificazione di non bere è tanto cara a Gesù. Quando abbiamo tanta sete, ricordiamo il suo Sitio! e si farà volentieri quel sacrificio.

Nel mangiare siate regolati. State alla regola: la colazione è solo un aiuto per arrivare a pranzo. Così la cena sia modica. E' importante questo. Sant'Ignazio dice che mangia troppo poco, chi dopo non può attendere ai propri doveri. E soggiunge: " Chi è libero, si regoli; chi è in comunità, faccia l'obbedienza ".

Inoltre non mangiare per il gusto di mangiare. Non pretendo che, come avvenne a S. Bernardo, beviate olio per acqua senza accorgervene (584) o che, come lui, abbiate a sentire e a farvi violenza per mangiare. Tuttavia, sia come Religiosi che come semplici cristiani, siete obbligati a nobilitare l'azione del mangiare. Non pensate mai al cibo, né prima né dopo. Io preferisco che mangiate un tantino di più, piuttosto che troppo poco. Quando poi sarà conveniente che facciate mortificazioni speciali, lo dirò a ciascuno in particolare. L'importante è che si acquisti lo spirito di mortficazione. Chi non digiuna in un modo, deve digiunare nell'altro.

Concludendo: accontentarsi di ciò che la Provvidenza ci manda, senza sospirare cibos ultramarinos in Missione (585); moderazione in casa d'altri; se ammalati, accontentarsi di ciò che la comunità può fare e non essere troppo pretenziosi, e cessato il bisogno, non continuare nelle dispense; acqua moderata anche a tavola; in refettorio non essere curiosi, non guardare a quello che mangia un altro.

La mortificazione alla levata

Bisogna essere pronti alla levata, balzar su al primo tocco della campana. Non pensare e dire: " Ieri abbiamo fatto una passeggiata un po' lunga ... ho un po' di mal di capo... stanotte ho dormito pochino... ". No, subito su! Non voltare il capo dall'altra parte, neppure per un instante; ad ogni modo dovrete pure alzarvi!

Sembra una cosa da niente, ma io credo che se uno fosse fedelissimo a quest'osservanza tutto l'anno, avrebbe buon spirito e il Signore gli darebbe molte grazie. E' così brutto dare il primo atto della giornata alla pigrizia, mentre è altrettanto bello avezzarci alla precisione.

Il Signore ci ha lasciati dormire tutta la notte e noi daremo al demonio il primo atto nello svegliarci? No, diamolo subito in ringraziamento al Signore. Io credo che questo sacrificio di alzarci al primo tocco della campana, sia una benedizione su tutta la giornata; se poi avvenisse di non farlo, ne sentirei pena tutto il giorno.

Diamo molta importanza a questo primo atto della giornata, da cui dipende sovente il maggiore o minor fervore in tutte le altre azioni.

Pensate in quell'istante di essere chiamati dalla tromba del giudizio. Ah, sì, che quella tromba ci scuoterà!... Oppure di essere scossi dall'Angelo: come S. Pietro in carcere: Presto, levati su! (586). O anche - ciò è meglio e ve lo raccomando di frequente - pensate a Gesù Sacramentato che vi dice: Festinans, descende! Scendi presto, oggi devo fermarmi in casa tua! (587).

Nostro Signore vuole questo sacrificium matutinum, il quale deve attirare le benedizioni su tutto il resto della giornata. Dico sempre al Signore che, se non lo fate, vi mandi rimorsi. Quanto a me, ho pregato il Signore che, se vi manco un mattino, non mi lasci più in pace per tutto il giorno, e sono contento così.

Così regolandovi, sarete sempre più generosi e nelle Missioni, anche quando il giorno prima s'è molto camminato, o si è stati su alla sera per obbedienza, vi alzerete ugualmente all'ora fissata; né vi capiterà che, trovandovi soli in una Stazione, rimaniate a letto una o due ore in più.

Dunque, pronti alla levata a tutti! Da questo atto di fedeltà e di generosità aspetto molte grazie per me e per voi.

Mortificazione della lingua

La nostra lingua ha due uffici: quello del gusto, e ne abbiamo parlato; quello del parlare, che è più nobile del primo, non comune agli animali.

S. Giacomo, nella sua Lettera (così bella!), tra le altre cose parla a lungo del bene e del male che si può fare con la lingua. E' un piccolo membro - scrive - e si vanta molte cose. Possiamo, infatti, con la lingua parlare bene e con edificazione, pregare e cantare le lodi del Signore: Con essa benediciamo Dio e il Padre. Invece possiamo servircene per dire parole oziose, cioè né utili né convenienti: parole contro la carità, come critiche, mormorazioni e calunnie; parole contro la verità, ingrandendo le cose o non dicendole con precisione; parole di vanità, di superbia, ecc. Con essa malediciamo gli uomini che sono stati creati a immagine di Dio (588).

Quanta leggerezza, e quindi quanti difetti nel parlare, in chi non sa frenare la lingua! Eppure è un vizio abbastanza comune. Se ci assale il prurito di dire una cosa, vogliamo a tutti i costi metterla fuori, per dritto o per traverso; magari si gira e rigira il discorso, finché si trova modo di far entrare ciò che vogliamo dire.

Intanto ciò che s'è detto non si può più ritirare; quindi malumori, discordie, avversioni, massime in comunità. Dice lo Spirito Santo: Dove molto si ciarla, la colpa non mancherà (589). E chi può dire i danni, chi può misurare le conseguenze di una parola detta fuori proposito, specialmente se diretta contro l'onore e la fama del prossimo? Ah, è tanto facile peccare con la lingua! S. Giacomo dice: Chi non manca nel parlare è un uomo perfetto (590). E l'Ecclesiastico: Beato chi non pecca con la lingua (591).

Per le anime pie e religiose l'immortificazione della lingua dissipa lo spirito, svoglia dall'orazione e fa perdere il gusto delle cose celesti. S. Bernardo esclama: " Oh quanto toglie di divozione e quanta dissoluzione porta il troppo parlare! " (592). Infatti dopo si va in chiesa, e la testa corre ancora a quello che si è detto o non detto.

Una notte, mentre S. Domenico stava pregando in chiesa, gli comparve il diavolo. Il Santo l'interrogò sul come egli tentasse i frati in chiesa. " Li tento a venire in ritardo e metto loro la smania di uscir presto ". - " E in dormitorio come li tenti? " - " Con non lasciarli addormentare subito, così al mattino non si sveglieranno ". - " E in refettorio? " - " Alcuni con farli mangiar troppo, altri con lasciarli mangiare abbastanza, in modo che non possano poi attendere ai propri doveri ". - " E in ricreazione? ". A questo il diavolo non voleva rispondere, ma il Santo ve lo obbligò in nome di Dio. Allora il diavolo: Hic locus totus meus!... Qui è il luogo dove mi trovo a bell'agio, il luogo dove faccio vendemmia, tutto mio! (593). Vedete? In ricreazione, in parlatorio, dappertutto dove si chiacchera il diavolo fa i suoi affari. E' possibile che il diavolo abbia ad avere un luogo tutto suo?

Voi mi direte: " Allora faremo sempre silenzio, non parleremo più! ". Ecco: se doveste sempre star chiusi fra queste mura, vi potrei dire che siamo d'accordo; ma voi non siete né Certosini, né Trappisti. S. Romualdo stette sette anni nel deserto senza dire una parola (594). S. Giovanni, detto il silenziario, stette 47 anni senza parlare (595). Non è questo ciò che Dio vuole da voi; però la lingua bisogna frenarla, moderarla.

Non si tratta di sempre tacere, ma semplicemente di riflettere prima di parlare. Come si mette il freno ai cavalli, così dobbiamo metterlo alla lingua; e come tutto il corpo del cavallo è domato per mezzo del freno, così frenando la lingua noi acquisteremo il dominio su molte nostre passioni. E' S. Giacomo che lo dice: Se mettiamo ai cavalli il freno in bocca perché siano obbedienti, teniamo a freno anche tutto il loro corpo (596).

S. Ambrogio si domandava: " Ci conviene star sempre muti? " e risponde di no (597). Quindi dà la regola per ben parlare: " O taci, o di' cose che siano migliori del silenzio ". Ecco la regola che dobbiamo tenere! S. Francesco di Sales, sviluppando lo stesso concetto, dice: " Il nostro parlare sia poco e buono, poco e dolce, poco e semplice, poco e caritatevole, poco e amabile ". Bisogna cioè parlare con moderazione, con prudenza, con carità e pietà.

Com moderazione: non aver la smania di parlare; quando parla un altro, star zitti e ascoltare. Ognuno - continua S. Giacomo - sia pronto ad ascoltare, lento a parlare (598). Non fare tuttavia come coloro che impiegano del tempo prima di rispondere un sì o un no; basta non essere corrivi.

Con prudenza: talora non sarà male dire una cosa, ma è meglio tacerla.

Concarità e pietà: noi Religiosi non dovremmo mai dire alcuna cosa, senza che c'entri la carità e la pietà, come faceva S. Giuseppe Cafasso e come fecero tutti i Santi. Le mettereste tutte in bocca a Gesù le vostre parole?... Nella vita di S. Ignazio si legge ch'era un piacere udirlo a parlare. Parlava con tranquillità, senza affezione e, nello stesso tempo, sempre attento a dir cose precise senza ingrandirle o diminuirle. Tanti si prendevano il gusto di conversare con lui, per trarne edificazione. Non diceva mai nulla di inutile (599).

Non ci ha fosse ammoniti Nostro Signore che ci sarà chiesto conto di ogni parola oziosa? La parola oziosa - secondo che spiega S. Fregorio Magno - è quella che non ha nessun bisogno di essere detta (600). Il già citato P. Bruno diceva che, in generale, nelle confessioni uno non si accusa mai di aver parlato poco, ma sempre di aver parlato troppo (601). Esaminiamoci qualche volta se parliamo troppo, se parliamo contro la carità, o contro la prudenza o contro la verità. Questo è materia di esame e bisogna dirlo in cofessione. Preghiamo anche sovente il Signore, che ci aiuti a correggersi dei nostri difetti di lingua. Pone, Domine, custodiam ori meo! (602).

A ciò ottenere, dobbiamo da parte nostra amare il silenzio, soprattutto il silenzio di regola. Il silenzio, per una comunità, è tutto. Chi non osserva il silenzio facilmente è dissipato, ché il Signore dice: " Tu hai parlato quando dovevi tacere, e Io non parlo più a te ". Inoltre per lo più quando si trasgredisce la regola del silenzio, il nostro discorso non è di edificazione. Evitiamo, sì, una soverchia pedanteria; ma prima di rompere il silenzio, pensiamo se è necessario o no.

Specialmente durante il tempo di studio vi è necessario il silenzio, per non disturbare gli altri. Nel Convitto Ecclesiastico era proibito dire il Breviario durante lo studio, appunto perché disturbava. Quando si studia, bisogna che ciascuno attenda a se stesso; se ha qualcosa da dire, aspetti dopo. Se il vicino parla, ebbene fraternamente io lo avverto.

Ve l'ho detto e ve lo ripeto: la nostra santità non consiste nel fare i miracoli, ma nel fare le cose bene, a tempo e luogo. C'è il tempo per parlare e c'è il tempo per tacere; e allora si tace. Il Signore non gradisce i doni fatti a metà o fatti male.

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Mortificazioni pubbliche: " La pratica del venerdì "

Le mortificazioni pubbliche possono essere spontanee, oppure accettate di buon cuore quando il Superiore le offre. Tale uso è segno che nella Congregazione fiorisce la virtù, che lo spirito si mantiene in vigore. Inoltre, tali mortificazioni ci rendono padroni di noi stessi, fanno la virtù interna più intensa ed efficace, conservano ed accrescono la mortificazione interiore.

Le nostre Costituzioni, parlando della mortificazione, dicono: " Oltre a quelle che la S. Chiesa stabilisce per tutti i fedeli, e quelle che la stessa vita di Missione importa, i Missionari procureranno di praticare qualche mortificazione corporale esterna al venerdì, e almeno una volta al mese faranno l'accusa pubblica di qualche trasgressione esterna delle Costituzioni " (603).

Quell' " almeno una volta al mese " sta ad indicare le settimane e, se ce ne fosse bisogno, più volte la settimana.

Questa pratica è utilissima alla comunità e all'individuo. Vedete: i peccati si cancellano con la confessione e, se veniali, anche con i Sacramentali; ma queste cosette esterne, come la rottura di un bicchiere, un'infrazione al silenzio, non sono peccati, eppure causano un disordine nella comunità; sono come una lesione del buon andamento della casa. Bisogna perciò rimediarvi e questo si fa coll'accusa in pubblico, alla presenza di coloro che videro o poterono vedere l'infrazione o il difetto.

Non bisogna però limitarsi ad accusare le mancanze commesse in pubblico, ma anche quelle non viste da nessuno, perché furono vedute da Dio e anche queste hanno leso l'ordine generale della comunità. A questo modo resta reintegrato l'ordine scosso e riparato il difetto o anche lo scandalo. Aggiungasi che mentre il colpevole d'una mancanza esterna se ne accusa, con la promessa di emendazione e di maggior attenzione per l'avvenire, i confratelli avranno un'utilissima lezione per se stessi di star guardinghi a non commettere simili azioni od omissioni. Si ricevono poi tante grazie da Dio, che non si riceverebbero se uno si pentisse solo internamente, e la stessa accusa è più meritoria.

E' un bell'esercizio di umiltà e di mortificazione. Chi si accusa in pubblico, infatti, deve vincere la naturale ritrosia a manifestare i propri difetti: il che serve molto bene a vincere l'amor proprio, a non essere tanto solleciti della stima degli altri. Procuriamo di aver buona fama presso Dio ed Egli ce ne darà quanto ce ne abbisogna davanti agli uomini. Anche per quelli che vi assistono è un bell'esercizio di umiltà, in quanto li porta a riflettere ch'essi pure hanno gli stessi difetti e anche di più gravi, benchè non conosciuti dalla comunità.

Può essere che a taluno questa pratica costi un tantino, almeno la prima volta. Bisogna farsi coraggio! Se facciamo il primo passo, il Signore ci darà la sua grazia e si giunge a farla volentieri, cioè con desiderio di esserne parte attiva. Fortunati coloro che sanno valersi di questo mezzo!

Perché poi questa santa pratica possa arrecare tali frutti, deve farsi bene, con spirito. Ed ecco come:

1 - Ricordare anzitutto che qui si tratta di mancanze esterne, non di peccati, per i quali uno va dal confessore.

2 - Esaminare le nostre mancanze esterne, anche quelle ignote ai superiori e compagni, nei pochi minuti che ci sono dati, dopo la preghiera di preparazione, e anche prima: affinché, invitati dal Superiore, possiamo ben dichiarare il difetto. Meglio ancora sarebbe se, non invitati o non estratti a sorte, pregassimo prima il superiore a concederci tale grazia.

3 - Fare l'accusa con umiltà, vedendo in essa un mezzo di santificazione. Quanto bene fa ciò all'anima desiderosa di vincersi e perfezionarsi!

4 - E' poi assolutamente necessario il segreto. Voglio dire che di quanto si dice durante questa pratica, tutto deve rimanere lì, e fuori di lì non se ne deve parlare assolutamente mai, nemmeno il più piccolo cenno. Anzi, non vi si deve neppur pensare, ma scacciare via come tentazione il ricordo di ciò che ha detto il tale o tal altro. E ciò è facile, contrapponendo a questo il ricordo di ciò, forse molto più grave, che ognuno avrebbe dovuto dire di sé. Se fuori di lì se ne parlasse, anche fra due soli, ciò basterebbe a guastare tutto. Se alcuno ne parlasse, voglio che il Signore lo riprenda e lo punisca, facendogli fare subito una più solenne penitenza. Questo è di massima.

Facciamo che questa pratica si compia sempre con spirito. Essa non deve ridursi a una formalità. Dobbiamo amarla e compierla sempre con vero spirito, onde averne il merito. Queste cose bisogna prenderle sul serio, non alla leggera. Né si dica che sono anticaglie. Ah, miei cari, i tempi sono sempre i medesimi, come è sempre il medesimo il Vangelo. Se una volta si faceva penitenza, ora ce ne vuole di più. Date importanza a questa pratica, così darete gloria a Dio, acquisterete l'umiltà e la mortificazione e tutti insieme ci aiuteremo a farci santi.

giuseppeallamano.consolata.org