24. CARITÀ FRATERNA

Amore al prossimo

L'amore di Dio e del prossimo sono due virtù così unite che possono dirsi un solo amore; tuttavia si suole distinguerle. L'amore del prossimo deve essere soprannaturale, partire cioè da Dio e ritornare a Lui. Non è quindi vero amore del prossimo quando si ama per genialità, per interesse o per passione. Chi ama bene il prossimo lo ama in Dio e per Dio. Ne consegue che chi ama Dio, ama necessariamente anche il prossimo.

L'amore del prossimo è un precetto strettissimo e, come tale, imposto da Nostro Signore più d'ogni altro. Lo chiama il Suo precetto: Ecco il mio comandamento: amatevi gli uni gli altri (485), lo chiama il nuovo precetto: Vi dò il comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri (486).

Dice San Gregorio, e lo leggiamo nel Breviario, che Nostro Signore mandò i suoi discepoli a due a due a predicare il Vangelo, per darci a capire che colui il quale non ha carità verso il prossimo, non deve in niun modo addossarsi l'ufficio del predicare (487). Come mai questo: che chi non ha amore al prossimo, non può compiere l'ufficio di evangelizzatore? Spiega la cosa S. Lorenzo Giustiniani, dicendo che questo ufficio è essenzialmente un ufficio di carità; e come potrà esercitarlo chi non ha carità? come potrà comunicare il fuoco chi ne è privo? (488). Solo allora - continua il Santo - potrai infiammare il prossimo, quando tu sii consumato dall'incendio della carità; altrimenti se tu sarai freddo, che cosa dirai o come potrai fare del bene?

Tutto nel sacerdote e più nel missionario, chiama l'amore del prossimo: l'altare dove quali vittime di espiazione ci offriamo al Signore per i peccati nostri e del popolo; il tribunale di penitenza, dove spieghiamo l'eroismo di una carità paziente e compassionevole; e così dicasi di ogni altro esercizio del nostro ministero. Il sacerdote, e più ancora il Missionario, è l'uomo della carità. Egli è sacerdote più in vantaggio dei suoi fratelli che per se stesso. Il sacerdote che non ha viscere di carità verso gli altri, verso tutti indistintamente, manca certo ad uno dei più gravi doveri.

Or, come potremo noi Missionari esercitare un giorno tale e tanta carità, se fin d'ora non ci esercitiamo ben bene in questa virtù? Il Missionario deve avere un cuore grande, pieno di compassione verso i suoi fratelli. Non è forse questo che lo indusse ad abbracciare una vita di abnegazione: il desiderio di far del bene al prossimo, di salvare anime?... Sulla triplice interrogazione fatta da Gesù a Pietro e relativa ingiunzione di pascere gli agnelli e le pecorelle, i Padri danno tre spiegazioni. La prima è che, avendo questi rinnegato tre volte il Divin Maestro, Gesù richiese in riparazione tre atti di amore. La seconda, per insegnarci che l'amore delle anime è la prima conseguenza del nostro amore per Dio. La terza, che chi ha vero amore di Dio, deve pure ardere di amore pel prossimo.

La pratica dell'amore del prossimo si può ridurre a quattro specie di atti, di cui due interni: mente e cuore; due esterni: parole ed opere.

CON LA MENTE - La carità non pensa male (489). Non parlo dei pensieri e giudizi che passano per la mente; si mandano via o meglio non vi si bada. Parlo dei giudizi volontari, acconsentiti, specialmente dei giudizi temerari. Siamo così proclivi al male, che nei compagni vediamo subito il male, vero o supposto, invece di vedere il bene. Quel compagno ha detto una parola? Subito pensiamo che l'abbia detta per invidia o malignità. Quell'altro compie una qualche azione? Ecco: l'ha fatta per comparire, per attirarsi le grazie dei Superiori. Proprio così: sorvoliamo su tante buone qualità, per fermarci su quel piccolo difetto; e se non apertamente, almeno fra noi diciamo: " Questi non è sincero, quell'altro non è semplice, ecc. ", non di rado giudichiamo delle stesse intenzioni che Dio solo può giudicare: Deus intuetur cor (490); mentre, anche quando vediamo ciò che chiaramente è male, dovremmo scusare l'intenzione, l'ignoranza o l'inavvertenza. Nostro Signore ci ha ammoniti: Non giudicate e non sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati (491). E l'Imitazione di Cristo dice: " Rivolgi gli occhi su te stesso e non voler giudicare le azioni altrui " (492). E soggiunge che nel giudicare si fa sempre cosa inutile o errata o peccaminosa. Invece a giudicare noi stessi per studiarci a fondo, non si sbaglia mai, e lo si fa sempre con profitto.

Inoltre: chi ci ha dato l'autorità di erigerci a giudici degli altri? Quel compagno che tu giudichi così male, davanti a Dio sarà forse migliore di te; se ha qualche difetto, forse non se ne accorge e non ne ha colpa; tu invece ne hai dei maggiori, e forse con maggiori grazie. Che se non hai quel difetto particolare, è grazia di Dio. S. Francesco di Sales diceva: " Se un'azione ha cento facce, bisogna guardarla dalla parte migliore " (493). Così faceva S. Giovanni Berchmans del quale si legge che cercava sempre il lato buono dei compagni (494); e così dovremmo fare noi. Dobbiamo imitare le api che vanno a succhiare il dolce da ogni fiore. Questo è importante massime in comunità. Quante volte vediamo la pagliuzza nell'occhio del fratello e non ci accorgiamo della trave che abbiamo nel nostro! E' un brutto vizio questo. Lo stesso giudizio che noi facciamo degli altri, il Signore lo farà di noi. Con la stessa misura con la quale misurate, sarà misurato a voi (495).

Dunque, via da noi i giudizi malevoli e più ancora i giudizi temerari. Sono sempre tutti causati da superbia. S. Bonaventura afferma che le persone spirituali son molto propense a giudicare temerariamente l'altrui condotta. Non dimentichiamo che un giorno tutti questi malevoli giudizi verranno fuori a nostra condanna.

COL CUORE - Non fomentare, ma tagliare subito le antipatie o malevolenze verso il prossimo. Che vengano le antipatie è naturale; ma bisogna reagire, vincere queste miseriucce. Quando mi accorgo che uno non mi va tanto a genio, ebbene propongo di non evitarlo, anzi di cercare la sua compagnia. Nelle comunità c'è sempre occasione di vincere queste antipatie. Fuori, se una persona è antipatica, la si fugge; qui, no!

CON LE PAROLE - Non voler sempre parlare noi; quando il discorso è avviato, non interrompere. Soprattutto non mormorare del prossimo: vizio molto comune anche fra i Religiosi. Direi che è il vizio più comune, e sovente non se ne fa caso. La mormorazione, poi, la si può fare in molti modi, anche coi segni. Si fa presto a sparlare del prossimo, ma poi come riparare?

Se io ho scorto un difetto, perché riportarlo a chi non ci pensava neppure? Dopo è certo che anche costui vedrà lo stesso difetto. Bisogna stare attenti; se si comincia a dire una cosa in senso dubitativo, la si ripete poi con sicurezza. Non saremo mai pentiti di aver parlato meno, ma sempre di aver parlato troppo. Ci sono tanti discorsi buoni da fare, senza mettere male. Guai a chi avesse questa pessima abitudine! C'è niente che scusi. Se c'è da dire qualche cosa, la si dice a chi di dovere, ma non mettere male; questo è diabolico.

Avviene ancora che si riferiscono le cose udite non esattamente, generando inconvenienti. E' tanto facile che avvenga questo! Lo si fa talora senza nessuna cattiva intenzione, ma è un fatto che nel riferire non si ha precisione: o si dice diverso da quello che è, o ingrandiscono le cose. Quanto male può venire in una comunità da uno o due che riportino male le cose.

CON LE OPERE - Nostro Signore dice nel Vangelo: Date e vi sarà dato (496). Ma che cosa dare? Siete poveri, avete niente; vi è proibito di fare elemosine senza permesso... Eppure le opere di misericordia sono comandate anche a voi, secondo la vostra possibilità; specialmente le opere spirituali. E' sempre in vostro potere dare un consiglio retto, una parola di consolazione, un incoraggiamento, soprattutto il buon esempio la preghiera. Tutto questo supplisce quanto non potete fare qui di carità materiale.

Amarsi a vicenda

Voler parlare di carità fra noi par quasi farvi un'ingiuria. Eppure se Nostro Signore ha ripetuto tante volte il precetto della carità fraterna, è perché sapeva ch'essa mancava o non era quale doveva essere. Per quanto ne abbiamo, non ne abbiamo mai abbastanza.

L'Apostolo S. Giovanni che attinse la sua dottrina dal Cuore di Gesù, non faceva che inculcare la carità vicendevole, sì che ebbe il nome di Apostolo della carità. Nei suoi ultimi anni di vita, portato dai discepoli in chiesa, mentre tutti ansiosi aspettavano di raccogliere dal suo labbro preziose parole, egli non faceva che ripetere: Filioli, diligite alterutrum!... (497). Era stato con Nostro Signore per più anni, aveva avuto il privilegio di posare il capo sul Cuore di Lui, aveva lasciato scritto nel suo Vangelo che la terra non potrebbe contenere tanti volumi, quanti sarebbero richiesti per riportare tutto quello che ha fatto e detto Nostro Signore; eppure non sapeva dir altro che questo: " Figliuolini, amatevi gli uni gli altri! " E ai discepoli che, stanchi d'udir sempre la stessa cosa, gli facevano rimostranza, l'Apostolo rispondeva: Dico sempre la stessa cosa perché in questo c'è tutto, se fate questo, fate tutto... Hoc unum sufficit!; e soggiungeva che questo era il precetto del Signore: Praeceptum Domini est! S. Giovanni Crisostomo, riportando il fatto, vi fa seguire a commento questa frase: Magna sententia! Sentenza breve ma grande, importante, conclusiva.

S. Agostino, fondatore di un Ordine Religioso che da lui prese nome, radunati attorno al letto di morte i suoi discepoli, raccomandò loro tutte le virtù, ma in particolare la pietà e la carità. Tutti i fondatori d'Ordini Religiosi inculcarono sempre ai loro figli la carità vicendevole, e ciò fecero soprattutto verso la fine della loro vita. Ciò mentre prova che purtroppo, viventi gli stessi Fondatori, talvolta già vien meno la carità fraterna nelle comunità, dimostra altresì quanto stia a cuore ai Santi questa virtù: che dopo averla molto inculcata in vita, la lasciano come testamento prima di morire. Così fece S. Francesco di Sales, il quale voleva che la Visitazione fosse il regno dell'amore. S. Giovanna di Chantal ripeteva la stessa cosa e così di frequente che un giorno una Suora anziana non si peritò di dirle: " Si vede che incomincia a invecchiare ". Al che ella rispose: " Se non avessi paura di tediarvi, non vi ripeterei altro ". Così faccio io; ed è sempre questo l'ultimo ricordo che dò ai Missionari partenti.

Che cosa è infatti una comunità senza carità fraterna? Un Purgatorio o, peggio, un inferno. Si entra in Religione per godere un po' di pace ed avere maggiori aiuti a sacrificarsi; invece la mancanza di carità rende penosa la vita al corpo e all'anima, ed espone le persone a tante tentazioni che neppure vi sono nel mondo.

Se venissero qui a domandarci: " C'è carità? " - " Sì, sì, - risponderemmo - e perfetta carità! ". Un giorno appunto feci questa domanda alla Superiora delle nostre Suore. Pareva che le facessi un torto... ma io sono l'uomo delle paure, dubito sempre. Io voglio poter dire: " Ci mancheranno tante virtù, ma la carità c'è ". Dal Paradiso manderò poi dei fulmini, se vedrò che mancate di carità. Voglio che ci sia una carità fiorita, altrimenti quando sarete in Missione, vi farete il muso a vicenda.

Delle miseriucce nel convivere insieme ce ne saranno sempre; ma bisogna stare attenti a non guastare l'incanto della carità. Per farci santi ci vogliono queste due cose: amor di Dio e amore del prossimo. Ma non lusingatevi di avere poi nelle Missioni questa carità, se non l'avete qui. Nelle Missioni non si ascende, ma si discende. Se qui non vi formate l'abito della vera e perfetta carità, in Missione darete cattiva prova e anche scandalo ai neri, che osserveranno il vostro modo di comportarvi coi confratelli.

No, non lasciatevi ingannare. Non potrete amare il prossimo lontano, se fin d'ora non avete tutta la carità verso il prossimo presente, con quelli cioè con i quali trattate tutti i giorni. Certuni dicono di amare i neri e credono di amarli veramente; ma bisogna prima amare quelli che abbiamo adesso al nostro fianco. Se uno non è ben fondato nella carità fraterna, in certi giorni e in certe circostanze non saprà sopportare. Il diavolo lavora, fa vedere le cose come non sono, e noi allora moltiplichiamo le lettere ai Superiori, perché cambino quel compagno o ci tolgano da quell'altro! Ma che cambiare! Cambia tu e tutto resta a posto.

Un parroco una volta andò da Don Cafasso per avere un vicecurato, ma ne voleva uno in punto e virgola. S. Cafasso stette a sentire tutte le belle qualità, di cui quel parroco voleva fosse dotato il nuovo vicecurato, poi gli rispose: " Guardi, signor Prevosto, appena fuori di qui, sul piazzale di fronte al Convitto, c'è un fabbricante di statue; vada e se ne faccia fare uno di suo gusto! ". Vi pare? Bisogna prenderlo come è! Perché uno ha dei difetti, non potrà dunque stare più in nessun luogo? Sta al parroco formarsi il vicecurato... Se un Missionario che ha con sé un Confratello, pretendesse di fare solo e sempre tutto ciò che è di suo gusto, certo non si andrà mai d'accordo. Bisogna avere un po' di pazienza, un po' di remissività. Bisogna vedere se la nostra carità ha tutti i caratteri descritti da S. Paolo: se non è ambiziosa, se non cerca se stessa... Conosco un parroco che aveva sempre buoni vice-curati: li prendeva com'erano, poi se li formava come voleva.

Ma veniamo a noi. La carità fra i Religiosi è essenziale, senza di essa non può esistere una comunità. I primi cristiani erano fra loro un cuor solo e un'anima sola. Quando si dividevano i beni portati agli Apostoli, non si dava un tanto fisso a ciascuno, ma secondo il bisogno di ognuno. Anche facendo così, c'era l'uguaglianza. Voler pretendere l'uguaglianza in senso assoluto è un errore.

Facciamo dunque un serio esame sulla carità fraterna, sulla carità attuale, fra di noi, non sulla carità dell'avvenire o del prossimo con cui si dovrà trattare. Non voglio che vi sia tra di voi neppure un filo contro la carità. Voler bene ugualmente a tutti, essere disposti a dar la vita per ciascuno dei confratelli. Se qui dentro non ci fossero mancanze contro la carità, saremmo avvero a buon punto!... Se si ama il prossimo come si deve, si ama Dio. Io farò come S. Giovanni, ripeterò sempre la stessa cosa, così la ricorderete quando sarete in Missione.

La pratica della carità fraterna

Si danno quattro segni per conoscere se uno ha veramente la carità fraterna: a) Godere dei beni e gaudi altrui. b) Soffrire con chi soffre. c) Correggere i propri difetti per amore del prossimo e sopportare quelli degli altri. d) Perdonare le offese, anzi prevenire colui che ci ha offesi.

GODERE DEI BENI E GAUDI ALTRUI come se fossero nostri. Lo insegna S. Paolo: Gaudere cum gaudentibus (498). Lo facciamo noi? Godiamo noi del bene dei nostri compagni?... Se uno ha ingegno e nella scuola se la cava a meraviglia, ci rallegriamo noi di questo suo bene?... Sì, la carità gode del bene altrui e va dicendo: " Purché Dio sia servito, se poi da me o da quell'altro, questo è secondario "; e si ringrazia il Signore che tali successi vuole più negli altri che in noi, perché chi sa con quanto amor proprio noi li accompagneremmo!... Quell'altro tuo compagno è eletto a qualche ufficio o servizio a preferenza di te, e tu senti nel tuo cuore gusto, pensando che del bene che opera il fratello, per la comunione dei beni che esiste fra noi, ne avrai parte anche tu?... E' difficile, sapete, che uno senta in sé vera gioia, quando il compagno riesce bene!... Una misera invidiuzza è quella che ci impedisce di godere del bene altrui come se fosse nostro, e quindi di godere con chi gode. Se i superiori lodano un confratello, godo come se la lode fosse rivolta a me?

Dobbiamo proprio godere del bene dei nostri fratelli. Noi non abbiamo solo la Comunione dei Santi, ma abbiamo ancora la comunità. Dobbiamo essere contenti che nell'Istituto quel tale o tal'altro diventi un dotto e santo Missionario, mentre noi, pur facendo tutto il possibile, non giungiamo a tanto. Non lasciarci quindi sfuggire parole che toccano la fama altrui. Quando uno è lodato, non pensare subito: " Non è poi tutto quello che pare! ". Peggio poi lasciarci sfuggire di quelle frasi maligne che guastano tutto: " Non è poi una cima! ", o simili. Neppure essere di quelli che non lasciano mai uscire dal labbro una lode verso chicchessia. Eh, via! Se qualcuno riesce, non dobbiamo farlo insuperbire, ma una parola di complimento, prendere parte alla sua gioia, questo sì!

PIANGERE CON CHI PIANGE - Veniamo ad un secondo esame: che è di prendere viva parte ai dolori altrui Flere cum flentibus (499). Questa partecipazione ai dolore altrui non deve però dimostrarsi con domande inopportune o curiose, ma va fatta con riguardo: una preghiera, una piccola preferenza, ecc.; tutte cose che, quantunque non siano vistose, circondano il fratello di affetto santo e leniscono indirettamente la pena. Se un dito duole, soffre tutto il corpo; così dev'essere di noi riguardo ai dolori dei singoli membri della comunità. Quando si vede un compagno che non sta bene, subito interessarsene. Col permesso dei Superiori essere disposti a passar la notte al capezzale dell'infermo... Così se muore un parente di un qualche compagno, dobbiamo sentire in noi il dolore ch'egli prova. Flere cum flentibus!... Quanto è mai brutto quando non si partecipa alle pene degli altri! Non è forse vero che sovente una buona parola d'un compagno può dissipare e malinconia e difficoltà?

CORREGGERE I NOSTRI DIFETTI E SOPPORTARE I DIFETTI ALTRUI - S. Paolo ci dice: Portate i pesi gli uni degli altri (500). Procurare anzitutto di estirpare in noi quei difetti che possono essere causa di fastidio al prossimo; questi devono essere sempre i primi ad essere presi di mira. Ad esempio nella pulizia: non essere ricercato, no, ma neppur essere di molestia agli altri. Lo stesso dicasi di quei difetti che possono procedere dal nostro carattere, dal nostro modo di parlare o di agire.

Nello stesso tempo dobbiamo sopportare i difetti degli altri. Cercare di correggerli fraternamente se possiamo, altrimenti sopportarli con pazienza. Chi è che non ha difetti? " Ebbene - dice l'Imitazione - sopporta tu gli altri, perché dagli altri siano sopportati i difetti tuoi forse maggiori " (501). In questo mondo se non si sopportano i difetti altrui, si vive una vita d'orgasmo.

Sopportare i difetti morali, di temperamento; modificare il proprio temperamento e non cercare di modificare quello del compagno. Si dice: " Con quel compagno è impossibile andar d'accordo, meglio che lo fugga ". Eh, caro mio, questo non è fior di carità! E chi sa che proprio quel compagno, in Missione, non sia poi il tuo compagno di Stazione?... Son solito a dire ai Sacerdoti Convittori: " Cercate di farvela con tutti, di andar d'accordo con tutti, perché forse un giorno sarete vice-parroco proprio con quel tale, o sarà fors'anche vostro parroco, e allora? ". Bisogna lottare e vincerci in queste cose. Se uno non mi va a genio, ebbene lo frequento ancora di più. Se un altro mi urta col suo modo di parlare, ebbene non diserto la compagnia, sto attento ad ascoltare proprio bene quel che dice, vincendo per amore di Dio e come esercizio di carità, la ripugnanza che provo.

Sopportare i difetti intellettuali. Quel tale è corto d'ingegno, bisogna ripetergli il già detto, e noi subito: " Ma non hai capito? Capisci mai niente! ", o altre simili frasi, che umiliano il poverino. Vi pare questo carità? Così se uno di poco ingegno viene a chiedere qualche spiegazione a chi ne sa di più, la carità vorrebbe che non gli si risponda in tono magistrale, ma al modo di chi abbisogna lui pure di ritornare sulle cose studiate per meglio apprenderle; farsi come suo condiscepolo, sì da non umiliarlo.

Vorrei tacere riguardo ai difetti fisici, ma purtroppo anche qui c'è materia di esame. La carità deve tutto sopportare: il tratto poco delicato di uno, la scontrosità di un altro, la comodità di chi ci reca incomodo, ecc. Dice un Santo che noi che viviamo in comunità, siamo come tante monete dentro di un sacco, le quali, scosse, si sfregano l'un l'altra e così si puliscono. Un po' di carità aggiusta ed uguaglia ogni cosa. Senza carità la vita comune diventa insopportabile. Siamo come tanti vasi fragili messi l'uno vicino all'altro, invicem facientes angustias. Il rimedio è la carità: dilatentur spatia charitatis! (502). Dice bene l'Imitazione: che non è poca cosa convivere in una stessa Congregazione senza che sorgano litigi. E soggiunge: " Se vuoi mantenere la pace e la concordia con i tuoi fratelli, è necessario che vinca te stesso in molte cose " (503).

Sopportate dunque con pazienza i difetti dei compagni sia fisici che morali e intellettuali, che uno non può togliere, e anche quelli che potrebbe togliere ma non lo fa. Se non vi assuefate a sopportarvi scambievolmente, avverrà poi che nelle Missioni il Superiore debba cambiarvi continuamente di posto. Fa pena pensare a queste cose! Un Missionario che ha fatto tanti sacrifici, che ha lasciato patria e parenti, che ha sopportato tante dicerie e anche irrisioni, non sappia poi sopportare il proprio compagno!

PERDONARE LE OFFESE - Parlare di questo a un Religioso sembra un assurdo, perché tante volte al giorno egli va ripetendo: Rimetti a noi i nostri debiti come noi ti rimettiamo ai nostri debitori. E poi tra voi non dovrebbe esserci nulla al riguardo... Ma siamo così miserabili!... Ebbene bisogna perdonare tutte le piccolezze che, volere o no, possono accadere. E se non può chiedere scusa (talora non è nemmen necessario), almeno trattare, parlare con quel compagno. Come sta male che due non si parlino!...

Qualcuno dirà che gli occorre del tempo per perdonare. Ebbene, perdi tante grazie che il Signore ti farebbe se tu fossi più generoso. Altri, nel mondo, dicono: " Io gli perdono, ma non si lasci più vedere! ". Che perdono è questo?... Vergogna!... Altri poi dicono: " Io gli perdono, ma non dimentico! ". Se non dimentichi è segno che non hai perdonato. Tra voi non si dice così, ma: " Io gli perdono, però non sarò più come prima ". Ecco: se prima eri in amicizia particolare, fai bene a non essere più come prima: altrimenti no. " Ma - mi domanderà qualcuno - siamo obbligati a dar segni esterni di perdono? ". Io non oserei dirti assolutamente obbligato, ma dimmi: forse che Nostro Signore era obbligato a discendere dal Cielo in terra, farsi uomo, patire e morire? Se anche non sei obbligato, come potrai un giorno predicare il perdono dei nemici, mentre tu non ne dai l'esempio?... " Ma non tocca a me, tocca a lui! ". Tocca a tutti, a chi vuole. S. Paolo ci ammonisce: Il sole non tramonti sul vostro sdegno (504). Non giunga mai la sera, senza che tutto sia accomodato.

Avete mai notato ciò che ci dice il Vangelo al riguardo? Se tu, nel fare la tua offerta sull'altare, ti rammenti che il tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì la tua offerta davanti alt'altare e va prima a riconciliarti col tuo fratello, poi torna a fare l'offerta (505). Ciò che il Vangelo dice dell'offerta sull'altare, voi potete applicarlo alla santa Comunione. Non dice dunque il Vangelo: " se hai fatto un torto al fratello ", ma dice: " se lui ha qualche cosa contro di te ". Non vi pare che, quale conseguenza di questa premessa, dovrebbe dirsi: " Faccia lui il primo? ". Invece Nostro Signore dice: " Se lui ha qualche cosa contro di te, tu va a riconciliarti con lui ". Noi diremmo: " Se l'ha, se la veda lui! ". No, il Signore vuole che io vada a riconciliarmi, anche se il torto è da parte sua.

Vedete, le piccole ruggini non vanno, sia pure che il torto stia dall'altra parte. E questo si applica a tante piccole cose in comunità: a uno sgarbo nel giuoco, a un po' di durezza nella ricreazione, ecc. Non dire: " Non giuoco più! ". Questo non è amore fraterno; a me pare che sia questa la causa di ruggini più durature, di dissidi tra fratello e fratello. Dunque: apposta o no, a ragione o a torto, riconciliarci subito con dire all'altro: " Basta, non parliamo più di quello che è stato ", si fa un bell'atto di carità, si acquista un bel merito, e intanto l'altro, che vede la nostra umiltà, si riconcilia subito.

Guai ai vendicativi! E' sempre impressionante il fatto di S. Niceforo e del sacerdote Saprizio. Già amici intimi, la ruppero fra loro. Niceforo chiese più volte perdono, ma Saprizio continuò sempre a negarglielo. Or avvenne che Saprizio, accusato d'essere cristiano, fu condannato a morte. Mentre lo si conduceva al supplizio, Niceforo, fattosi largo tra la folla, si gettò ai suoi piedi ad implorar perdono, ma Saprizio gli voltò la faccia. Nell'atto però di ricevere il martirio, Saprizio venne meno, rinnegò la fede e sacrificò agli dei. Niceforo allora, anche per togliere lo scandalo, si presentò al carnefice come cristiano e ricevette la corona del martirio!...

Narra il Da Kempis di un Religioso che, conservando un po' di rancore con un compagno, per due anni non vide più l'Ostia consacrata alla elevazione della Messa. Domandatane la causa al confessore, questi gli rispose che ciò avveniva a motivo di quel rancore. Quegli allora perdonò e tornò a vedere l'Ostia Santa.

Chi è così santo, che alle volte non si lasci sfuggire qualche cosa? Sono cosette che il Signore permette a nostra umiliazione. Perché dunque subito offenderci? perché conservar rancore? Abbiamo un cuore grande! S. Francesco di Sales rispondeva a un cotale che lo ingiuriava: " Più mi offendete e più vi amo! ". E forse che Nostro Signore non ci diede su questo un sublime esempio, scusando presso il suo Divin Padre i suoi stessi crocifissori? E noi, pare impossibile, non sappiamo perdonarci delle minuzie!

In una Lettera Circolare ai Missionari d'Africa, sebbene sapessi non esservi fra loro queste cose, scrissi che anche fra i Santi può nascere qualche differenza di opinione e magari un modo un po' spinto di sostenerle; perciò riportai loro le parole di S. Paolo: Sol non occidat super iracundiam vestram (506). Si abbia torto o ragione, riconciliarsi subito. Non aspettare un giorno, non un'ora, non cinque minuti, ma subito. Allora si che gli africani potranno dire di voi: " Come si amano i Missionari! ". E questo amore lo infonderete negli altri.

Segno che si perdonano le offese è il pregare e desiderare bene a chi ci ha offesi. Tra noi però non deve esserci nulla. Sì, vorrei che queste mie parole le ricordaste sempre. Non solo quello che vi dico, ma quello ancora che vorrei dirvi. Voglio che vi facciate santi, che siate sempre più perfetti, come richiede la vostra vocazione. E come? In charitate non ficta (507). Non sarebbe bastato il dire: in charitate? No, perché tante volte noi crediamo di avere la carità e non ne abbiamo che la finzione; vogliamo andare in Missione tutto fuoco per salvare le anime, e poi qui non siamo capaci di sopportare un'inezia! Ascoltiamo ancora San Paolo che ci esorta: Charitate fraternitatis invicem diligentes! (508). Amarci, amarci gli uni gli altri, con amore veramente fraterno.

Spirito di famiglia

S. Pietro, nella sua prima Lettera, scrive: Soprattutto abbiate perseverante l'un verso l'altro la mutua carità (509). Considerate ogni parola: carità vicendevole, carità continua, carità prima d'ogni altra cosa. Questo della carità è infatti il distintivo dei veri seguaci di Nostro Signore Gesù Cristo. Voi sapete quello che si diceva dei primi cristiani: " Come si vogliono bene! ".

Che qui ci sia l'amore fraterno non ne dubito; tuttavia stiamo attenti e riflettiamo sovente se questa carità l'abbiamo sempre completa. Talora abbiamo sì carità ma non sempre con tutti, non in tutte le cose. Già conoscete quel detto: " I Religiosi entrano senza conoscersi, vivono senza amarsi, muoiono senza rimpiangersi ". Oh, quanto è brutto e falso! Tuttavia se lo dicono, è perché qualcosa vi è che ne ha dato appiglio. Entrare senza conoscersi, può essere vero; ma vivere senza amarsi e morire senza rimpiangersi, no, no!... Eppure!...

Spesso qualcuno fa un po' troppo da sé, pensa solo a sé, a santificare se stesso, senza pensare ad aiutare i compagni. Questo non è spirito di famiglia così utile in una comunità, in quanto muove tutti a santificare se stessi e gli altri. Sì, ciascuno deve farsi santo, ma bisogna che ci sia il mutuo aiuto. Spero di sbagliarmi e desidero sbagliarmi, ma è bene tuttavia dirvelo: ciascuno vuol farsi santo, ma poi sta solo con due o tre. No, dobbiamo desiderare la santità degli altri come la propria santità. Alle volte si è solitari, perché si è egoisti; non vogliamo toccarci per paura di bruciarci. Spero di sbagliarmi.

Santificarsi, sì; studiare sì, ma via! Anche una parola di aiuto al compagno! Talora ciascuno tira dritto per conto proprio e non vuole badare agli altri. Questo non va, non è spirito di famiglia. Né alcuno dica: Quid ad me? Sì, importa anche a te che non solo tu, ma tutti i tuoi compagni si rendano santi e dotti Missionari.

Non bisogna avere solo carità spirituale ma anche materiale, cioè aiutarci a vicenda nei lavori, dividere le fatiche, prenderci di mano i lavori. Certo non contro l'obbedienza, ma quando lo si può fare. Bisogna avere amore di fratellanza, un amore pratico: usarci ogni tanto qualche gentilezza, certe industrie che la carità sa trovare. Non siamo tante statue qui dentro, che ognuna non tocca l'altra! Oh, come è brutto in una comunità questo starsene come tante statue! Avete fatto il sacrificio di lasciare il paese e i parenti - un sacrificio costoso! - tanto più dovreste essere pronti a rinunziare a quelle piccole comodità per amore dei vostri compagni.

Sì, voglio che ci sia - e ci deve essere - questo amore fraternitatis. Vorrei che studiaste questa cosa: se proprio tutto il bene che volete per voi, tutto il bene che procurate a voi, cercate anche di farlo ai compagni. E così in Missione prendete parte ai dolori, alle gioie, alle difficoltà, a tutto quello che può succedere a un confratello. Vorrei proprio che ciascuno facesse del bene, godesse e soffrisse col compagno, lo aiutasse in tutto ciò che può. Vorrei proprio che vi usaste queste piccole gentilezze, questi piccoli aiuti, queste piccole carità, che dimostrano che veramente vi amate gli uni gli altri come fratelli. L'Istituto non è un collegio, neppure un seminario, ma una famiglia. Siete tutti fratelli; dovete vivere assieme, prepararvi assieme, per poi lavorare assieme per tutta la vita. Nell'Istituto dobbiamo formare una sola cosa, una pasta sola. Se non fate così adesso, come sarete pronti in Missione a dar la vita l'uno per l'altro? Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per i suoi amici (510).

Riflettete a quello che vi ho detto, per trarne profitto. Amarci fraternamente; dolori di uno, dolori di tutti; interesse di uno, interesse di tutti. Ah, se in una comunità tutti cercassero di far piacere agli altri, sarebbe certo una comunità ideale! O quam bonum et jucundum habitare fratres in unum! (511). Come è bello starcene tutti assieme, non come statue in un museo, non come dei carcerati, ma come fratelli in una stessa casa, formanti una sola famiglia!

Spirito di corpo

S. Paolo scrivendo ai fedeli di Efeso raccomanda loro di camminare bene nella vocazione ricevuta, e ne indica i mezzi: mansuetudine, pazienza, col sopportarsi a vicenda nella carità: cum humilitate et mansuetudine, cum patientia, supportantes invicem in charitate (512). Solo con la pratica di queste virtù sarà possibile conservare l'unione degli spiriti e quindi la pace che è la tranquillità nell'ordine e che ha luogo quando ciascuno fa quel che deve fare. Solleciti di conservare l'unità dello spirito, mediante il vincolo della pace (513). Aggiunge poi l'Apostolo i motivi che hanno i cristiani di conservare tra loro tale unità, e dice: Uno solo (è) il corpo e uno solo lo spirito.. un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo.. un solo Dio e Padre di tutti (514).

Ciò che S. Paolo scrive agli Efesini, molto più conviene a noi che formiamo un corpo superiore, per l'unione spirituale della vocazione religiosa, sacerdotale e missionaria. E' necessaria questa unione di tutti, per godere la vera pace in comunità. Ecco quanto sovente vi raccomando! Non è che io pensi che tra voi non ci sia questa pace nell'unione, ma il mio timore - come tante volte vi ho detto - è per l'avvenire. Se S. Paolo non si stancava di ripetere ai novelli cristiani questo avvertimento, non devo stancarmi neppur io, per il bene di tutti e di ciascuno.

Anche S. Pietro, nella già citata sua prima Lettera, al capo IV, tratta dell'unione che deve esservi fra i cristiani, e io dico specialmente nelle comunità Religiose. Fra le altre cose egli inculca la vicendevole ospitalità e la sollecitudine di comunicarsi gli uni gli altri i beni ricevuti da Dio. Da buoni amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi ponga al servizio degli altri il dono ricevuto (515). E tutto questo bisogna farlo sine murmuratione, cioè non per forza ma per amore, farlo di cuore, farlo con tutti. Non come coloro che quando arriva un ospite si profondono in " Oh che piacere! ", e poi borbottano fra sé: " Uh che seccatore! ".

Ecco l'unione, la comunione che deve esistere tra i cristiani e più tra i Religiosi! Bella, santa cosa questa unione che ben può dirsi il primo bene delle comunità. " Guai a coloro che disturbano questo giocondo vincolo, questa unione di carità! " esclama S. Bernardo. Per avere la vera carità ci vuole dunque l'unione, ma l'unione fra tutti. Uno per tutti e tutti per uno. Questo, ripeto, in una comunità è il più necessario. Dove non c'è questa unione è la rovina. Costi quel che costi, bisogna fare in modo che ci sia l'unione. Noi formiamo un solo corpo morale e dovremmo avere fra noi l'unione che c'è fra le membra del corpo fisico. Quando avete un po' di mal di capo, forse che tutto il corpo non ne risente? E non è forse più intimo il legame che ci unisce in Religione di quello che unisce i fratelli di sangue? E vorremmo essere meno uniti fra noi di quanto lo erano fra loro i primi cristiani? La moltitudine dei credenti era un cuor solo e un'anima sola (516).

Questa unione è necessaria, oltre che per vivere in pace, come ho detto, anche per essere forti. L'unione fa la forza. L'unione fra i membri di una comunità, fa di questa un esercito ben agguerrito e ordinato, capace di vincere qualsiasi nemico od ostacolo. Al contrario, la disunione distrugge una comunità. Se vi mordete o vi divorate gli uni gli altri, badate che non vi distruggiate a vicenda (517).

Per custodire questa unione vi suggerisco tre mezzi. Il primo ci è dato da San Bernardo che dice: Cavenda sunt levia. Evitare cioè anche le minime mancanze contro la carità e la delicatezza che dobbiamo usarci a vicenda. Il secondo è l'osservanza esatta e cordiale delle Regole e dell'ubbidienza, nonché i comune desiderio di perfezione. Il terzo, suggerito da Rodriguez, sta nelle frequenti e mutue corrispondenza tra i fratelli assenti o lontani.

Questa unione deve manifestarsi in tre modi:

NELLE AZIONI - E cioè nell'impegno comune per il bene comune. Bisogna che tutti sentiamo e abbiamo interesse per il bene della comunità; essere membri vivi e concordi della medesima, andar tutti a gara a chi può fare di più, sempre sotto l'obbedienza.

NELLE PAROLE - Via le dispute troppo ardenti, anche teologiche; né alcuno si creda di essere lui solo in possesso della verità. Tali dispute portano alla disunione, talora persino scindono la comunità in partiti, con scandalo di molti e danno di tutti. Avviene talora che per cose da niente si perde l'unione.

NEI PENSIERI - Questo è ancor più difficile: conciliare le varie idee. Un autore si domanda se è bene che ogni comunità abbia un proprio modo di pensare, e risponde di sì: perché ogni Istituto ha uno scopo speciale che non può conseguirsi che con la cooperazione di tutti i soggetti. Così fanno le Religioni ben ordinate le quali, senza credersi superiori alle altre, preferiscono la propria e si animano a renderla sempre migliore. Non così invece altre comunità, le quali stimano solo se stesse, come se ci fossero esse sole. Questo non va, sono eccessi! Non disprezziamo mai le altre Religioni o le altre comunità, massime quelle che sono più antiche. Teniamoci in basso, come gli ultimi venuti, come scolari, ma nello stesso tempo coltiviamo in noi la persuasione che il Signore ci ha favoriti chiamandoci in questa Religione. Oh, questo sì! Star proprio gli ultimi, da baciare i piedi degli altri, ma poi essere felici di appartenere a questo Istituto. Bisogna amarla la propria comunità così come la propria vocazione. Allora si ha l'unione di pensieri e si va avanti uniti e bene. Conosco una comunità dove son tutte disgustate fra loro e anche fuori se ne parla. Ho detto loro: " Ma tacete, aggiustatevi tra di voi, che il mondo non sappia! ". In ogni comunità ci possono essere dei difetti, ma portiamoli da noi, aggiustiamo da noi i nostri pasticci e non esponiamo in pubblico gli stracci sporchi!

Una comunità in cui ci sia questa unione, non può non far del bene. Quindi procurate di averla e di mantenerla. Essa è la sostanza della carità!

Pensieri sulla correzione fraterna

La correzione fraterna fa parte di questo spirito di famiglia, di questa unione fraterna. Essere perciò contenti che ci correggano e, da parte nostra, usare la stessa carità agli altri.

Si dice: " Per correggere ci sono i Superiori! ". Sì, ma talora la correzione, se fatta dal Superiore, dà alla cosa un'importanza maggiore di quello che essa ha; altre volte poi i Superiori non possono neppur vedere queste piccole cose. I compagni le vedono più facilmente e la loro correzione fraterna riesce più efficace.

Talora tutti vedono e conoscono un nostro difetto, solo chi l'ha non se ne accorge. Una parola del compagno quanto gioverebbe! Invece non siamo capaci di usarci questa carità. Non dobbiamo giudicare, no, ma quando un difetto è chiaro, dobbiamo correggerci. Se vedete un compagno che potrebbe far meglio, perché non avvertirlo? Non è forse questo un nostro dovere di carità?

Direte che il compagno non prende in bene la correzione. Perché pensare così male di lui, solo perché una volta, in un primo impeto, ci rispose male, anche perché forse non lo correggemmo con buone maniere? La correzione fraterna va fatta nei debiti modi, a tempo opportuno, ma va fatta.

Quando il Superiore sa che un inferiore non prenderà in bene la correzione, deve farla ugualmente; il suddito rinsavirà, magari dopo anni, e sarà contento. Io per me non voglio rispondere per niente davanti a Dio. Se so qualche cosa vi avviso, e così dico al Prefetto di fare.

Lo stesso dovete fare fra di voi. La correzione fraterna fa tanto bene, e i compagni ne sono contenti. Magari, lì per lì, un po' di superbietta li fa risentire, ma poi capiscono e la prendono in bene, e voi avrete il merito della correzione fatta e del profitto che n'è derivato.

" Ma - mi direte - non è questo contrario a ciò che ci inculcò tante volte: che dobbiamo sopportarci a vicenda? ". No, non è contrario. Imitiamo le virtù e correggiamo i difetti. Non costa poi tanto dire ad un compagno: " Usa un po' di delicatezza ". Ci vuole una santa libertà nel correggerci vicendevolmente; correggerci senza misericordia!

Diciamo sovente che daremmo la vita per gli altri. Se la dareste per gli estranei, tanto più dovreste darla per i vostri fratelli. E questa correzione fraterna è molto più facile.

Noi in seminario avevamo fatto una specie di unione a questo fine. Eravamo in pochi, però le cose si facevano in regola e si ripeteva una correzione al compagno anche dieci volte, se era necessario. Naturalmente anche in questo ci vuole discrezione; ma se si osservasse questo, sì che le cose andrebbero bene!

Tutti dobbiamo usarci questa carità e usarla con tutti, senza che sia necessario fissarci un compagno in particolare. No, no, questo dualismo non va bene.

Bisogna saper mettere il rispetto umano sotto i piedi; dovete giungere al punto che nessuno abbia difficoltà di avvertire un confratello di un difetto, di una mancanza di civiltà. Allora la nostra sarà una comunità di spirito: vivrete da angeli!

La correzione fraterna va fatta bene. Se fatta a dovere, è sempre ispirata dalla carità; e la carità bisogna farla bene. Essa va fatta a tempo, e non prendere le persone di fronte. I medici, quando hanno da fare un taglio, studiano i mezzi per fare meno male. S. Paolo ci dice: Correggere con spirito di mitezza (518).

Chi è corretto deve prendere la correzione come se venisse da Dio. Perciò evitare la piccola vendetta di dire: " Ma anche lei ha quel difetto! ". Tali parole, dette proprio in quel momento, suonano come una vendetta o almeno indicano del risentimento.

Quando si entra in comunità, non tutti posseggono la necessaria educazione; ma qui bisogna cambiare, tagliare. La nostra vuol essere una comunità delicata e fraterna, quindi aiutarci a vicenda a correggere i difetti, con spirito di delicatezza e di carità.

Cambattere l'invidia

S. Pietro, fra le esortazioni ai novelli cristiani, dava anche quella di evitare l'invidia. Rigettate... ogni specie d'invidia (519). Li avvertiva di ciò appena battezzati, ben sapendo che l'invidia è un male che tutti abbiamo - almeno come concupiscenza - in conseguenza del peccato originale. Non dico che sia tutto e sempre peccato, ma tutti ne abbiamo l'inclinazione, così come abbiamo alla superbia. Di essere superbi più facilmente l'ammettiamo; non così di essere invidiosi e si va dicendo: " Oh, per me, ciascuno si tenga quello che ha! ". Non è vero. L'inclinazione all'invidia c'è in tutti. S. Gregorio afferma che la superbia genera la vanagloria e questa l'invidia; perciò l'invidia è nipote della superbia. Ora, siccome tutti abbiamo la superbia, tutti ancora siamo tentati d'invidia. Chi è superbo è invidioso; e chi è invidioso è superbo.

Con questa differenza però: che la superbia per lo più c'è sempre e quindi c'è sempre da lottare; invece l'invidia si manifesta solo in certe circostanze Non è tanto facile persuaderci d'essere invidiosi, ma se andiamo a vedere in fondo in fondo, la troviamo cotesta mala erba. Fin da piccoli, quando vedevamo una preferenza fatta ad un fratellino, che cos'è che ci faceva soffrire se non l'invidia?

Da giovani questa si sente più in chi primeggia, che non in chi vede chiaramente di non poter competere. Generalmente ancora, come ho già detto, non si ha invidia dei compagni anziani e neppure di quelli dei corsi inferiori, bensì con gli eguali, cioè con quelli dello stesso corso.

Dobbiamo convincerci di averla anche noi. Nelle comunità le mancanze più frequenti sono quelle di carità, poi quelle di invidia.

Vi metto sull'attenti in modo particolare per quando sarete in Missione. Qui non avete molte occasioni, ma laggiù, se la mala pianta non è stata sradicata, facilmente spunterà. Non è un vizio solo delle donne, ma anche degli uomini: dei giovani e dei vecchi. Esso poi è comunissimo fra gli ecclesiastici. Direi che più si è pii e più l'invidia si fa sentire. Neppure i Santi ne vanno esenti, come afferma S. Ambrogio parlando del Patriarca Giuseppe e dei suoi fratelli.

Per sapere come si può peccare d'invidia, convien prima sapere che cosa essa è. S. Tommaso la definisce " Tristezza del bene del prossimo, in quanto vien giudicato male proprio o di scapito al proprio bene ".

Non dunque una tristezza generica del bene altrui, ma in quanto il bene altrui lo si ritiene per nostro male o diminutivo del nostro bene. Non si pensa che Nostro Signore può dare a tutti come a Lui piace. Possiamo essere tutti grandi santi, senza togliere nulla agli altri. Il desiderare invece il bene che hanno gli altri e non noi, senza per questo volerlo togliere loro, ove si tratti di beni spirituali, non è invidia ma zelo, come spiega S. Tommaso (520). Esso risponde all'aemulamini charismata meliora (521) dell'Apostolo. Tuttavia bisogna stare attenti, perché è tanto facile credere di avere un'invidia buona! Vi sono quattro specie di beni che possono essere oggetto d'invidia: a) Beni esteriori: del corpo, di fortuna, ecc. b) Beni intellettuali: ingegno, scienza, ecc. c) Beni di virtù: uno che sia più umile, più pio di me, ecc. d) Beni di doni straordinari: uno che sia favorito in quelle grazie gratuite che il Signore concede solo ad alcuni.

Questo peccato, secondo S. Tommaso, si oppone direttamente alla dilezione del prossimo (522), e da esso derivano l'odio, la mormorazione, la detrazione, il godere delle avversità altrui, ecc. Vedete che gran male è quello dell'invidia! State attenti, vi ripeto, perché se anche non la sentite adesso, la sentirete in seguito: quando i Superiori vi metteranno in un ufficio piuttosto che in un altro, o vi parrà che taluno sia anteposto a voi, o vi toglieranno da un posto preminente per mettervi in un altro meno in vista. Prima la superbia resta ferita, poi l'invidia salta fuori.

Quali i danni cagionati dall'invidia? Leggiamo nel libro della Sapienza che per invidia del diavolo la morte entrò nel mondo (523). Il demonio, per invidia contro l'uomo, cercò di rovinarlo, anche se dalla rovina dell'uomo nulla egli aveva da guadagnare, perché già condannato alle pene eterne. Fu l'invidia a uccidere Abele: Caino infatti l'uccise, perché invidioso che i sacrifici offerti dal fratello fossero riguardati dal Signore con preferenza. Fu l'invidia ad armare i fratelli di Giuseppe che tentarono di sopprimerlo, perché più amato dal padre. Fu l'invidia a gettare Daniele nella fossa dei leoni. E fu ancora l'invidia che fece crocifiggere Nostro Signore Gesù Cristo, come pubblicamente attestava Pilato, il quale sapeva che gliel'avevano consegnato per invidia (524). Così nei primi tempi della Chiesa S. Paolo lamentava che alcuni si fossero assunto il ministero della predicazione solo per invidia contro di lui: Vi sono bene alcuni che annunziano Cristo per invidia (525). E già prima, quasi alla vigilia della Passione di Nostro Signore, gli Apostoli questionavano fra loro: chi fosse tra loro il più grande (526). Certo il maggiore era Pietro, ma essi per invidia disputavano su questa preminenza.

Attenti, attenti! Perché se l'invidia tocca i Santi, quanto più noi, se non stiamo all'erta. L'invidia da prima è bambina, ma poi diventa gigante; il vizio si cambia in passione. I maestri di spirito riducono a quattro i segni per conoscere l'invidia:

Gaudere de malo proximi: godere del male del prossimo; come quando uno si rallegra in cuor suo per qualcosa che andò male ad un altro. In comunità ciò capita più di rado che nel mondo, eppure capita; almeno se ne ha la tentazione.

Tristari de bono proximi: rattristarsi del bene altrui. Talora può venire un po' di malinconia nel vedere che un altro è stato messo in un ufficio più appariscente del nostro, ecc. E' tutt'altro che impossibile che ciò avvenga in comunità!

Laudes proximi deprimere: far tacere le lodi del prossimo. Quando si sente lodare qualcuno, subito si getta là una mezza parola: " Sì, ha tante belle doti, ma gli manca un po' di questo... se avesse quest'altro, sarebbe più perfetto, ecc. ". Si ha il prurito di togliere qualcosa. Non si può negare la lode, ma la si concede a mezza bocca, si cerca di deprimere la persona lodata con qualche attenuante. Quanta malignità in tutto questo! Eppure è frequente.

Proximo detrahere. E' lo spirito di detrazione, causato dall'invidia del bene altrui. Non lo si fa sempre apertamente, ma di sottomano si. Dice S. Giovanni Crisostomo che gl'invidiosi sono peggiori del demonio perché il demonio non ha invidia dei demoni suoi simili, mentre gli uomini non rispettano neppure quelli che sono partecipi della loro stessa natura (527). " Cane non mangia cane ", dice un proverbio; noi però, pur non cadendo nella degradazione di mangiare i nostri simili, li mangiamo però moralmente, mordendo la loro fama.

Quali sono i rimedi contro l'invidia? Il primo è sempre la preghiera: pregare il Signore che ci faccia conoscere che siamo invidiosi, e che ci dia la grazia di vincerci.

Il secondo rimedio è farne materia di esame, specialmente nella confessione, pentendoci e proponendoci i mezzi pratici per emendarci. Per lo più abbiamo una specie di pigrizia di non voler andare a fondo nei nostri esami di coscienza, per paura di conoscerci e dover quindi emendarci.

Il terzo rimedio è quello proposto da S. Bernardo: considerare l'inutilità dell'invidia. E' infatti una sciocchezza l'invidiare qualcuno. Chi ha, ha; non posso tirarglielo via! Se mai, posso chiedere al Signore che dia anche a me tutte le buone qualità che vedo nel compagno.

Il quarto rimedio è di considerare i danni che essa arreca all'anima e al corpo. L'invidia è una tristezza, una malinconia, è come una malattia di cuore. Voi sapete ciò che avviene nei paesi, quando due famiglie s'invidiano a vicenda. Si dice che son corrose dall'invidia; e non di rado l'invidia corrode anche i beni materiali. " Essa - dice S. Bernardo - non fa niente di bene e invece fa molto male all'anima e al corpo " (528). P. Bruno diceva che il mondo è pieno di martiri, ma non tutti per la fede; i più lo sono per amor proprio e per invidia.

Il quinto rimedio è di abbattere la superbia di cui l'invidia è figlia. Dice un santo Padre: " Soffoca la madre e non ci sarà la figlia ". Se annientiamo la causa, resta annientato l'effetto; chi è umile si mette volentieri sotto i piedi di tutti e non ha invidia.

Il sesto rimedio è di godere del bene di cui Dio ha fornito un altro, come di un bene proprio. Se vedo un compagno che prega bene, devo volerlo imitare e intanto essere contento. Se non siamo capaci noi di fare il bene, almeno dovremmo godere che ci sia chi copre i nostri difetti e attira le benedizioni di Dio. In comunità il bene di uno è bene di tutti.

Il settimo rimedio è di desiderare e impetrare agli altri il bene che desidero per me, e più ancora: Ora et opta aliis quod tibi et amplius (529). Nel libro della Sapienza si legge: Senza inganno l'ho imparata e senza invidia la comunico (530). Faccio volentieri gli altri partecipi delle mie idee, delle mie doti, dei miei doni, senza invidia e senza inganno. Uno stenta alquanto ad apprendere; ebbene lo avvicino durante la ricreazione e gli ripeto la lezione. L'invidia ci sussurrerà: " Farà poi lui bella figura! ". E che importa? Volesse il Signore che tutti imparassero bene, fossero tutti predicatori come si deve. Faremmo onore alla comunità.

Quando a Mosè fu riferito che anche altri profetavano e volevano ch'egli ciò impedisse, che rispose? Dio volesse che tutto il popolo profetasse! (531). Anche S. Giovanni Battista non s'ebbe a male che tutti corressero dietro a Gesù e rispose a chi per invidia se ne doleva: Bisogna ch'Egli cresca e io diminuisca (532); e confessò chiaramente di non essere lui il Messia. Così S. Paolo, che scriveva, riguardo a coloro che per invidia s'erano messi anch'essi a predicare: Che importa? In ogni modo, sia per pretesto sia con sincerità, il Cristo è annunziato, e di ciò godo e ancora ne godrò (533). Vedete che energia e che forza! Credevano di fargli dispiacere, invece egli ne godeva.

Così noi non dobbiamo aver paura che ci tolgano un pezzo di Missione per darlo ad altri; fa lo stesso, purché si predichi il Vangelo. Mi diceva il Card. Veccia, Segretario di Propaganda Fide: " La vigna è nostra; quando uno non può far tutto da sé, se ne dà una parte ad un altro, purché si possa convertire le anime ". Fa tanto pena quando si cerca solo estensione! Sono storie queste! Se una Missione non si può coltivare, si lascia stare e si cerca un altro che possa coltivarla. Mi diceva ancora il predetto Cardinale: " I Gesuiti avevano una Missione che non si poteva più sostenere e si sono raccomandati a Propaganda Fide perché la assegnasse ad altri, dicendo: - Noi lascieremo tutto come si trova, e quei che verranno si piglieranno tutto - ". Così deve essere! Certe comunità vogliono un'estensione immensa, e questo è zelo cattivo. Quando vi sarà data un'estensione come mezza Europa e siete quattro gatti, che farete?... Noi non faremo così.

Oltre all'invidia individuale, c'è anche un'altra invidia cattiva da evitare: quella tra Istituto e Istituto. Fa pena vedere come talora dei Religiosi siano invidiosi del bene e della prosperità di altri Religiosi, e, non per santa emulazione. Questo avviene per falso amore di corpo; perciò poco lo si avverte e anche lo si scusa. Cerchiamo solo il bene delle anime e la maggior gloria di Dio, del resto godiamo del bene da chiunque sia fatto e procuriamo di imitare lo zelo degli altri. Purché si faccia il bene: sia la nostra Congregazione o un'altra, fa lo stesso; rincresce solo che vi sia del male; del bene non ce n'è mai abbastanza.

Don Bosco godeva che la Congregazione dei Giuseppini si affermasse, e l'aiutava. Egli stesso accompagnò il Teol. Murialdo dal Papa, per perorare la causa della nascente Congregazione. Così il Card. Cagliero a nostro riguardo; quanto ne godeva! Diceva sempre che era necessaria una Casa più ampia di questa, si tenne sempre in relazione con noi, ci scriveva. Ugualmente si comportarono a nostro riguardo Mons. Costamagna e anche Don Rua. I Santi non hanno invidia e si interessano di tutti. Così fu del P. Carpignano, Filippino che si interessava di tutte le buone opere, le raccomandava, le aiutava.

Non dobbiamo temere che un'Opera sia d'inciampo all'altra. Quando c'era solo il Cottolengo a Torino, viveva solo il Cottolengo; venne Don Bosco e anche lui ha trovato da vivere; vennero in seguito i Giuseppini e possono vivere, come possiamo vivere noi. Bisogna avere questo spirito: se vediamo il bene, goderne; se vediamo i difetti, coprirli. Dum omni modo Christus annuntietur! (534).

giuseppeallamano.consolata.org